Come cambia l’impresa quando arriva l’indice Bes
“Bes” e cioè l’indice di “Benessere equo e sostenibile”. L’ha messo a punto l’Istat, presieduto da un economista colto e lungimirante, Enrico Giovannini. Ed è composto da dodici indicatori, che misurano salute, istruzione, lavoro, paesaggio e patrimonio culturale, sicurezza, buona politica, etc. L’idea di fondo è che bisogna uscire dall’ossessione della crescita economica ad ogni costo, indicata dal Pil. E cogliere proprio la lezione della Grande Crisi (provocata dall’esplodere di una serie di squilibri, che hanno alimentato la bolla finanziaria) per ripensare radicalmente i tradizionali paradigmi economici della produzione, dell’accumulazione, della distribuzione e dei consumi. Sarà proprio l’Italia dell’Istat a presiedere il gruppo di lavoro statistico dell’Onu per la definizione, entro il 2015, dei nuovi indicatori di sviluppo sostenibile. E d’altronde, cultura economica nuova a parte, in Italia ci sono già eccellenti esempi di sintesi di nuova cultura d’impresa della produzione e del prodotto, in molte delle industrie medie e medio grandi che hanno già assorbito la lezione della “green economy” e ne hanno fatto strumento di competitività, di migliori relazioni con i territori delle fabbriche, con i propri dipendenti e con tutti gli altri stakeholders. Qualche settimana fa, in questo blog, vi avevamo parlato del Piq, il prodotto interno di qualità. Adesso, riflettiamo sul nuovo indice. Cosa vuol dire, per un’impresa, tenere conto del “Bes”? Strutture produttive che risparmino energia e acqua, per esempio e che siano realizzate secondo i più rigorosi criteri di sicurezza sul lavoro. Relazioni industriali che guardino molto al benessere dei dipendenti (le fabbriche “belle”, luminose, piacevoli da vivere). Ma anche prodotti che abbiamo garanzie di sicurezza, affidabilità, confort per chi li usa. Cura estrema per lo smaltimento e il riciclaggio dei rifiuti. Stimoli per i processi culturali diffusi sul territorio di riferimento, in modo che le industrie siano aggregatrici di interessi sociali, al di là del ciclo produzione-lavoro-salario (utili, in questo senso, le Fondazioni d’impresa). Tutto un mondo da ripensare criticamente. E in cui in Italia non siamo affatto, per fortuna, all’anno zero.
“Bes” e cioè l’indice di “Benessere equo e sostenibile”. L’ha messo a punto l’Istat, presieduto da un economista colto e lungimirante, Enrico Giovannini. Ed è composto da dodici indicatori, che misurano salute, istruzione, lavoro, paesaggio e patrimonio culturale, sicurezza, buona politica, etc. L’idea di fondo è che bisogna uscire dall’ossessione della crescita economica ad ogni costo, indicata dal Pil. E cogliere proprio la lezione della Grande Crisi (provocata dall’esplodere di una serie di squilibri, che hanno alimentato la bolla finanziaria) per ripensare radicalmente i tradizionali paradigmi economici della produzione, dell’accumulazione, della distribuzione e dei consumi. Sarà proprio l’Italia dell’Istat a presiedere il gruppo di lavoro statistico dell’Onu per la definizione, entro il 2015, dei nuovi indicatori di sviluppo sostenibile. E d’altronde, cultura economica nuova a parte, in Italia ci sono già eccellenti esempi di sintesi di nuova cultura d’impresa della produzione e del prodotto, in molte delle industrie medie e medio grandi che hanno già assorbito la lezione della “green economy” e ne hanno fatto strumento di competitività, di migliori relazioni con i territori delle fabbriche, con i propri dipendenti e con tutti gli altri stakeholders. Qualche settimana fa, in questo blog, vi avevamo parlato del Piq, il prodotto interno di qualità. Adesso, riflettiamo sul nuovo indice. Cosa vuol dire, per un’impresa, tenere conto del “Bes”? Strutture produttive che risparmino energia e acqua, per esempio e che siano realizzate secondo i più rigorosi criteri di sicurezza sul lavoro. Relazioni industriali che guardino molto al benessere dei dipendenti (le fabbriche “belle”, luminose, piacevoli da vivere). Ma anche prodotti che abbiamo garanzie di sicurezza, affidabilità, confort per chi li usa. Cura estrema per lo smaltimento e il riciclaggio dei rifiuti. Stimoli per i processi culturali diffusi sul territorio di riferimento, in modo che le industrie siano aggregatrici di interessi sociali, al di là del ciclo produzione-lavoro-salario (utili, in questo senso, le Fondazioni d’impresa). Tutto un mondo da ripensare criticamente. E in cui in Italia non siamo affatto, per fortuna, all’anno zero.