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Ecco come cambiano “i lavori”: addio posti di bassa qualità, è la stagione “steam”, scienza, tecnologia, engineering, arte e matematica

Spariranno i postini. E gli stenografi. I centralinisti. E i braccianti agricoli. E sarà il tempo dei biotecnologi, dei medici capaci di diagnosi e cure nanotech e soprattutto degli addetti ai social network e al marketing digitale, degli specialisti di tecnologia cloud, degli sviluppatori di app, insomma degli informatici ipertecnologici, trasversali ai bisogni di crescita dell’industria, dei servizi e dell’agricoltura stessa. Ma si allargheranno anche le opportunità per gli esperti di benessere e tempo libero, come gli “istruttori di zumba”(fitness musicale) e gli istruttori di ginnastica da spiaggia (uno dei mestieri più cresciuti nel mondo dal 2008 a oggi, di ben 3.360 volte, subito dopo gli operatori di big data: un trionfo del turismo da villaggi e lidi marittimi attrezzati per vacanze di massa).

I dati sono contenuti in una ricerca della Deloitte, una delle maggiori società di consulenza internazionale e dell’università di Oxford (La Stampa, 12 novembre). E confermano la radicalità e la profondità degli sconvolgimenti in corso. “La fine del lavoro”, aveva scritto nel 1995 Jeremy Rifkin, acuto analista dei cambiamenti economici. Era stato buon profeta. Sono poi arrivate le analisi sulla fine del fordismo e sulle “mutuazioni individualiste” anche sul versante di mestieri e professioni, sino alle elaborazioni sull’”età dei lavori” (cui si ispira anche il Job Act del governo Renzi). Addio “lavoro”, per dirla in sintesi. Benvenuti “lavori”.

Siamo in una stagione di transizione, in cui hanno ancora peso vecchi sistemi produttivi, in crisi (con tanto di proteste sociali di chi perde il posto di lavoro) ma già si costruiscono nuovi equilibri. E gli osservatori più attenti delle trasformazioni fanno notare che la rivoluzione digitale va avanti impetuosa, con esiti economici ancora imprevedibili. “Oggi si studia in vista di professioni non ancora create, fatte con tecnologie da inventare per problemi che adesso non conosciamo”, sostiene, sul filo del paradosso, Andrea Cammelli, direttore di Almalaurea, la maggior banca dati dei laureati in Italia (la Repubblica, 10 novembre).

C’è un conto, che viene dalla Gran Bretagna, di cui molto si discute: nell’arco dei prossimi dieci anni dieci milioni di posti di lavoro verranno persi, perché a svolgerli saranno i robot (La Stampa, 12 novembre): quelli più ripetitivi, di bassa qualità, poco pagati. Una cattiva notizia, dunque. Ma anche una buona notizia: si liberano risorse per attività più qualificate, meglio pagate, più soddisfacenti. A patto, naturalmente, di avviare robusti programmi di formazione hi tech e di riqualificazione di mano d’opera espulsa dai vecchi processi produttivi. Nell’età dell’”economia della conoscenza”, appunto, valgono le abilità digitali, ma anche le competenze più generali, per permettere alle persone di non essere “operai dell’information technology” ma esperti con consapevolezza e responsabilità.

E’ in corso, insomma, una stagione che gli esperti definiscono basata sul modello “stem” (scienza, tecnologia, engineering e matematica). E che, guardando all’Italia, Gianfelice Rocca, presidente di Assolombarda e per molti anni responsabile dell’education per Confindustria, modifica e ampia in “steam”, il buon “vapore” che alimenta lo sviluppo, dove la “a” aggiunta sta per “arts”, il complesso di conoscenze umanistiche, letterarie, artistiche, appunto: una specializzazione in cui il nostro paese ha un vero e proprio primato storico, adesso naturalmente da difendere in chiave hi tech (dunque investendo sulla scuola e l’information technology collegata, superando il divario digitale che ancora ci pesa e la condizione marginale in Europa d’una scuola che ha appena 6 computer ogni 100 studenti, contro la media Ue di 16).

Intelligenza e conoscenza come chiave di sviluppo, dunque. E apertura alle trasformazioni del mondo del lavoro. Tenendo bene a mente un calcolo di Enrico Moretti, brillante economista dell’università di Berkeley, nel suo libro su “La nuova geografia del lavoro”: per un nuovo posto di lavoro a sofisticato contenuto tecnologico, un ingegnere o un informatico ad alta specializzazione, un software designer di Google o un fisico esperto in nanotecnologie se ne creano altri cinque, sia in settori qualificati (avvocati, insegnanti, medici, infermieri) sia in settori meno qualificati, legati ai servizi alle imprese e alle persone. Si alimenta comunque un volano economico positivo. E si mette in moto un vero e proprio “ascensore sociale” (importa ciò che sai, impari e sai fare, non chi sei, per estrazione familiare) che fa da ulteriore molla della crescita.

Spariranno i postini. E gli stenografi. I centralinisti. E i braccianti agricoli. E sarà il tempo dei biotecnologi, dei medici capaci di diagnosi e cure nanotech e soprattutto degli addetti ai social network e al marketing digitale, degli specialisti di tecnologia cloud, degli sviluppatori di app, insomma degli informatici ipertecnologici, trasversali ai bisogni di crescita dell’industria, dei servizi e dell’agricoltura stessa. Ma si allargheranno anche le opportunità per gli esperti di benessere e tempo libero, come gli “istruttori di zumba”(fitness musicale) e gli istruttori di ginnastica da spiaggia (uno dei mestieri più cresciuti nel mondo dal 2008 a oggi, di ben 3.360 volte, subito dopo gli operatori di big data: un trionfo del turismo da villaggi e lidi marittimi attrezzati per vacanze di massa).

I dati sono contenuti in una ricerca della Deloitte, una delle maggiori società di consulenza internazionale e dell’università di Oxford (La Stampa, 12 novembre). E confermano la radicalità e la profondità degli sconvolgimenti in corso. “La fine del lavoro”, aveva scritto nel 1995 Jeremy Rifkin, acuto analista dei cambiamenti economici. Era stato buon profeta. Sono poi arrivate le analisi sulla fine del fordismo e sulle “mutuazioni individualiste” anche sul versante di mestieri e professioni, sino alle elaborazioni sull’”età dei lavori” (cui si ispira anche il Job Act del governo Renzi). Addio “lavoro”, per dirla in sintesi. Benvenuti “lavori”.

Siamo in una stagione di transizione, in cui hanno ancora peso vecchi sistemi produttivi, in crisi (con tanto di proteste sociali di chi perde il posto di lavoro) ma già si costruiscono nuovi equilibri. E gli osservatori più attenti delle trasformazioni fanno notare che la rivoluzione digitale va avanti impetuosa, con esiti economici ancora imprevedibili. “Oggi si studia in vista di professioni non ancora create, fatte con tecnologie da inventare per problemi che adesso non conosciamo”, sostiene, sul filo del paradosso, Andrea Cammelli, direttore di Almalaurea, la maggior banca dati dei laureati in Italia (la Repubblica, 10 novembre).

C’è un conto, che viene dalla Gran Bretagna, di cui molto si discute: nell’arco dei prossimi dieci anni dieci milioni di posti di lavoro verranno persi, perché a svolgerli saranno i robot (La Stampa, 12 novembre): quelli più ripetitivi, di bassa qualità, poco pagati. Una cattiva notizia, dunque. Ma anche una buona notizia: si liberano risorse per attività più qualificate, meglio pagate, più soddisfacenti. A patto, naturalmente, di avviare robusti programmi di formazione hi tech e di riqualificazione di mano d’opera espulsa dai vecchi processi produttivi. Nell’età dell’”economia della conoscenza”, appunto, valgono le abilità digitali, ma anche le competenze più generali, per permettere alle persone di non essere “operai dell’information technology” ma esperti con consapevolezza e responsabilità.

E’ in corso, insomma, una stagione che gli esperti definiscono basata sul modello “stem” (scienza, tecnologia, engineering e matematica). E che, guardando all’Italia, Gianfelice Rocca, presidente di Assolombarda e per molti anni responsabile dell’education per Confindustria, modifica e ampia in “steam”, il buon “vapore” che alimenta lo sviluppo, dove la “a” aggiunta sta per “arts”, il complesso di conoscenze umanistiche, letterarie, artistiche, appunto: una specializzazione in cui il nostro paese ha un vero e proprio primato storico, adesso naturalmente da difendere in chiave hi tech (dunque investendo sulla scuola e l’information technology collegata, superando il divario digitale che ancora ci pesa e la condizione marginale in Europa d’una scuola che ha appena 6 computer ogni 100 studenti, contro la media Ue di 16).

Intelligenza e conoscenza come chiave di sviluppo, dunque. E apertura alle trasformazioni del mondo del lavoro. Tenendo bene a mente un calcolo di Enrico Moretti, brillante economista dell’università di Berkeley, nel suo libro su “La nuova geografia del lavoro”: per un nuovo posto di lavoro a sofisticato contenuto tecnologico, un ingegnere o un informatico ad alta specializzazione, un software designer di Google o un fisico esperto in nanotecnologie se ne creano altri cinque, sia in settori qualificati (avvocati, insegnanti, medici, infermieri) sia in settori meno qualificati, legati ai servizi alle imprese e alle persone. Si alimenta comunque un volano economico positivo. E si mette in moto un vero e proprio “ascensore sociale” (importa ciò che sai, impari e sai fare, non chi sei, per estrazione familiare) che fa da ulteriore molla della crescita.

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