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I mercati sono conversazioni, in inglese, ma anche in buon italiano

I mercati sono conversazioni”, sosteneva l’abate Ferdinando Galiani, economista napoletano apprezzatissimo nei salotti dell’Illuminismo francese. E proprio con questa frase si apre il “Cluetrain manifesto”, il libro di LevineLockeSearis e Weinberger che nel 2000, tra appassionati sostenitori e accesi critici, prova a definire la nuova era della comunicazione Internet che stravolge il marketing e le culture aziendali (“Le aziende devono chiedersi dove finisce la loro cultura d’impresa e se finisce prima che inizi la comunità, allora non hanno mercato”). I percorsi delle idee sono affascinanti. E la relazione tra la lucida consapevolezza di una delle più belle intelligenze del Settecento italiano e la visionarietà dei circoli hi tech americani conferma quanta forza possa ancora avere la tradizione culturale, filosofica europea in tempi incerti in cui memoria e futuro devono costruire nuove sintesi di sviluppo.

Conversazioni”, dunque. L’abate Galiani faceva uso, come tutte le persone colte dell’epoca, di un elegante francese che seduceva madame Louise d’Épinay, la protettrice di Rousseau. Oggi, la lingua dei mercati è l’inglese o, più esattamente, quell’ibrido scarno tra “british english e “american english” che consente alle persone della finanza, del commercio e dell’impresa di parlarsi e capirsi da Hong Kong a New York, da Londra a Mumbay, dal Qatar a Singapore e così via globalizzando. Una sorta di contemporaneo “sabir”, la lingua (una miscela di dialetti italiani e arabi, spagnolo, francese e greco) che nel corso dei secoli aveva consentito ai mercanti e ai marinai di capirsi lungo le sponde e i porti del Mediterraneo.

Inglese, comunque. Lingua del primato dei mercati del mondo globale. Da conoscere. Da parlare bene. Da considerare con attenzione e rispetto per la sua funzione di relazione, di informazione, di comunicazione. Lingua d’affari. Lingua essenziale (nel duplice senso della sua ineliminabile utilità, ma anche del suo essere ridotta al nucleo dei termini indispensabili a scambiare merci, beni, servizi). Ma anche lingua delle relazioni scientifiche, fondamentali. E dei rapporti internazionali.

Ma qui vale la pena fermarsi un attimo a riflettere. Perché una lingua è molto di più di uno strumento di scambio economico e politico. Esprime storia, culture, valori personali e sociali, idee, abitudini, costumi. E’ testimonianza di identità complesse, di modi di intendere il potere, la fede, ma anche il diritto, la speranza, l’amore. Rivela progetti di costruzione e gestione di comunità. Una lingua è vita, è dunque struttura mobile e mutevole, che ha le sue radici e la sua contemporaneità.

L’impresa italiana è flessibile, innovativa, creativa, capace di conquistare mercati non perché i nostri imprenditori parlino inglese (devono parlarlo, ma non sta qui la loro forza). Ma soprattutto perché alle loro spalle c’è una storia culturale, artistica, sociale molteplice e carica di immaginazione. E tutto questo patrimonio culturale si manifesta in una lingua, l’italiano. Una lingua da salvare e valorizzare, dunque. Nelle scuole. E sul lavoro.

E la conversazione? Si fa in inglese, nel mondo. Ma con le lingue nazionali come retroterra contemporaneamente presente, come valore irrinunciabile. Le buone imprese multinazionali italiane sanno, appunto perché abituate alla intelligente flessibilità italiana e all’importanza di cultura, creatività e immaginazione (che si esprimono innanzitutto nelle lingue nazionali), che bisogna essere “brasiliani in Brasile, turchi in Turchia, cinesi in Cina”, “resilienti”, dunque, adattabili ai cambiamenti. E la ricchezza e la competitività dell’imprenditoria e del management italiano stanno appunto nella nostra capacità di non essere vincolati allo schematismo della cultura manageriale d’impronta anglosassone sino a ieri dominante (e oggi in seria difficoltà d’egemonia dopo la Grande Crisi della rapacità finanziaria nata a Londra e New York). E di curare e promuovere, nel nostro fare impresa, valori, culture, lingue dei vari paesi in cui andiamo a investire, esportare, costruire fabbriche e strutture di servizio. Un piccolo primato italiano. Da continuare a fare vivere.

I mercati sono conversazioni”, sosteneva l’abate Ferdinando Galiani, economista napoletano apprezzatissimo nei salotti dell’Illuminismo francese. E proprio con questa frase si apre il “Cluetrain manifesto”, il libro di LevineLockeSearis e Weinberger che nel 2000, tra appassionati sostenitori e accesi critici, prova a definire la nuova era della comunicazione Internet che stravolge il marketing e le culture aziendali (“Le aziende devono chiedersi dove finisce la loro cultura d’impresa e se finisce prima che inizi la comunità, allora non hanno mercato”). I percorsi delle idee sono affascinanti. E la relazione tra la lucida consapevolezza di una delle più belle intelligenze del Settecento italiano e la visionarietà dei circoli hi tech americani conferma quanta forza possa ancora avere la tradizione culturale, filosofica europea in tempi incerti in cui memoria e futuro devono costruire nuove sintesi di sviluppo.

Conversazioni”, dunque. L’abate Galiani faceva uso, come tutte le persone colte dell’epoca, di un elegante francese che seduceva madame Louise d’Épinay, la protettrice di Rousseau. Oggi, la lingua dei mercati è l’inglese o, più esattamente, quell’ibrido scarno tra “british english e “american english” che consente alle persone della finanza, del commercio e dell’impresa di parlarsi e capirsi da Hong Kong a New York, da Londra a Mumbay, dal Qatar a Singapore e così via globalizzando. Una sorta di contemporaneo “sabir”, la lingua (una miscela di dialetti italiani e arabi, spagnolo, francese e greco) che nel corso dei secoli aveva consentito ai mercanti e ai marinai di capirsi lungo le sponde e i porti del Mediterraneo.

Inglese, comunque. Lingua del primato dei mercati del mondo globale. Da conoscere. Da parlare bene. Da considerare con attenzione e rispetto per la sua funzione di relazione, di informazione, di comunicazione. Lingua d’affari. Lingua essenziale (nel duplice senso della sua ineliminabile utilità, ma anche del suo essere ridotta al nucleo dei termini indispensabili a scambiare merci, beni, servizi). Ma anche lingua delle relazioni scientifiche, fondamentali. E dei rapporti internazionali.

Ma qui vale la pena fermarsi un attimo a riflettere. Perché una lingua è molto di più di uno strumento di scambio economico e politico. Esprime storia, culture, valori personali e sociali, idee, abitudini, costumi. E’ testimonianza di identità complesse, di modi di intendere il potere, la fede, ma anche il diritto, la speranza, l’amore. Rivela progetti di costruzione e gestione di comunità. Una lingua è vita, è dunque struttura mobile e mutevole, che ha le sue radici e la sua contemporaneità.

L’impresa italiana è flessibile, innovativa, creativa, capace di conquistare mercati non perché i nostri imprenditori parlino inglese (devono parlarlo, ma non sta qui la loro forza). Ma soprattutto perché alle loro spalle c’è una storia culturale, artistica, sociale molteplice e carica di immaginazione. E tutto questo patrimonio culturale si manifesta in una lingua, l’italiano. Una lingua da salvare e valorizzare, dunque. Nelle scuole. E sul lavoro.

E la conversazione? Si fa in inglese, nel mondo. Ma con le lingue nazionali come retroterra contemporaneamente presente, come valore irrinunciabile. Le buone imprese multinazionali italiane sanno, appunto perché abituate alla intelligente flessibilità italiana e all’importanza di cultura, creatività e immaginazione (che si esprimono innanzitutto nelle lingue nazionali), che bisogna essere “brasiliani in Brasile, turchi in Turchia, cinesi in Cina”, “resilienti”, dunque, adattabili ai cambiamenti. E la ricchezza e la competitività dell’imprenditoria e del management italiano stanno appunto nella nostra capacità di non essere vincolati allo schematismo della cultura manageriale d’impronta anglosassone sino a ieri dominante (e oggi in seria difficoltà d’egemonia dopo la Grande Crisi della rapacità finanziaria nata a Londra e New York). E di curare e promuovere, nel nostro fare impresa, valori, culture, lingue dei vari paesi in cui andiamo a investire, esportare, costruire fabbriche e strutture di servizio. Un piccolo primato italiano. Da continuare a fare vivere.

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