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Industry 4.0 tra strategie Ue e investimenti della migliore manifattura italiana

Un piano della Ue per rilanciare la manifattura. L’impegno è ribadito dal Documento sulle linee-guida strategiche della nuova commissione Ue, sotto la guida di Jean-Claude Juncker, pubblicato la scorsa settimana a Bruxelles. E punta su due pilastri: una maggiore attrattività dell’Europa per risorse internazionali (e dunque un rafforzamento della sua competitività) e una serie massiccia di investimenti nell’”economia digitale” e dunque sui raccordi tra economia della conoscenza e della comunicazione,  cultura e industria hi e medium tech. Una strategia ambiziosa. Che lavora in direzione dell’impegno già preso dalla Ue di portare entro il 2020 l’incidenza della manifattura europea sul Pil al 20% (adesso siamo al 15,1%). Si va, insomma, sempre più nettamente verso un industrial compact. E la presidenza italiana del semestre Ue rafforzerà questa strategia. “Basta con la turbofinanza, adesso torniamo all’economia reale”, ha confermato il premier Matteo Renzi in una recente intervista a “Il Messaggero” (23 giugno), raccogliendo le sollecitazioni di Romano Prodi e parlando esplicitamente di “politica industriale” (una strategia che ha archiviato gli investimenti pubblici in “cattedrali nel deserto”, grandi impianti petrolchimici e siderurgici, imprese assistite e guarda invece, molto più correttamente, alla promozione delle condizioni per favorire gli investimenti privati, italiani e internazionali).

Sulla strada dell’industrial compact l’Italia ha, com’è noto, solide basi di partenza, da secondo paese manifatturiero europeo, con una incidenza della manifattura sul Pil del 16,5%. Se si guarda più in profondità, oltre il dato medio, si scopre che quella quota, nel Nord Italia, è del 21,6% e supera comunque il 20% anche nelle Marche e in Abruzzo e, fatti i conti, in ben 37 province italiane. La crisi continua a mordere, ma l’industria si difende (e l’Indice di fiducia Istat a giugno segnala un aumento a 88,4 da 86,9 di maggio, con un miglioramento diffuso a tutti i settori: la manifattura sale a 100, il massimo da luglio 2011). E si conferma, anche da parte di autorevoli economisti, quel che in questo blog si ripete da sempre: senza fabbriche non c’è futuro. Una consapevolezza condivisa dal ministro dello Sviluppo Economico Federica Guidi, che sta mettendo a punto “un piano per il made in Italy” forte di investimenti per 100 milioni e di iniziative per rafforzare l’export (aggiungere 50miliardi ai 470 miliardi attuali) e attrarre almeno 20 miliardi di investimenti internazionali. Una svolta di competitività e sviluppo.

Volendo, si può fare un’ulteriore riflessione strategica di medio periodo. E seguire le indicazioni di Roland Berger, grande società di consulenza tedesca, in un recente documento intitolato Industry 4.0, “una sorta di manifesto dell’industrialismo al tempo della produzione intelligente” (per riprendere l’acuta sintesi di Paolo Bricco su “Il Sole24Ore” del 27 maggio). Cosa dice Berger? Negli ultimi vent’anni il valore aggiunto industriale mondiale è passato da 3.500 a 6.500 miliardi di euro. Vent’anni fa Europa, Usa e Giappone ne controllavano il 79% (il 36% l’Europa). Ma adesso, solo il 60%, a causa di un rilevante processo di deindustrializzazione e alle illusioni che lo sviluppo dipendesse da finanza e servizi hi tech. Ci si è risvegliati, feriti della Grande Crisi della turbofinanza. E si è ricominciato a ragionare di economia reale, dando il via a robuste tendenze alla re-industrializzazione, al re-back shoring, al ritorno delle fabbriche negli stessi paesi di più antica industrializzazione. La Germania è rimasta, nonostante tutto, un grande paese industriale. L’Italia le è, appunto, seconda. Ma – sostiene lo studio di Roland Berger – “ogni singolo paese, compresa la Germania, non potrà realizzare appieno la trasformazione del proprio sistema industriale se mancherà un’agenda di politica industriale europea”. Ecco perché è indispensabile andare con decisione verso l’industrial compact Ue e dare sostanza di scelte concrete all’obiettivo del 20% “industriale” del Pil entro il 2020: investimenti da 90 miliardi all’anno, con uno sguardo ancora più lungo, per un totale di 1.500 miliardi entro il 2030.

E l’Italia? Servono investimenti da 15 miliardi all’anno, nel settori hi e medium tech in cui vantiamo già eccellenze industriali e produttive, da migliorare ancora. E scelte politiche sulle infrastrutture digitali (la diffusione più ampia della “banda larga”), la formazione e la ricerca e i raccordi con le imprese, la digitalizzazione diffusa della pubblica amministrazione, etc. “I modelli industriali – sostiene Roberto Crapelli, amministratore delegato di Roland Berger Italia – vanno trasformati completamente, con un salto di paradigma paragonabile a quello avvenuto negli anni Ottanta, con l’introduzione della robotica e dell’automazione nelle fabbriche italiane”. La sintesi de “Il Sole24Ore”: “Un disegno strategico in cui le fabbriche in rete si organizzano intorno alle tecnologie e in cui i tessuti connettivi tra le imprese mutano, innovazione di prodotto e manifattura ultraterziarizzata”. Industry 4.0, appunto.

Un piano della Ue per rilanciare la manifattura. L’impegno è ribadito dal Documento sulle linee-guida strategiche della nuova commissione Ue, sotto la guida di Jean-Claude Juncker, pubblicato la scorsa settimana a Bruxelles. E punta su due pilastri: una maggiore attrattività dell’Europa per risorse internazionali (e dunque un rafforzamento della sua competitività) e una serie massiccia di investimenti nell’”economia digitale” e dunque sui raccordi tra economia della conoscenza e della comunicazione,  cultura e industria hi e medium tech. Una strategia ambiziosa. Che lavora in direzione dell’impegno già preso dalla Ue di portare entro il 2020 l’incidenza della manifattura europea sul Pil al 20% (adesso siamo al 15,1%). Si va, insomma, sempre più nettamente verso un industrial compact. E la presidenza italiana del semestre Ue rafforzerà questa strategia. “Basta con la turbofinanza, adesso torniamo all’economia reale”, ha confermato il premier Matteo Renzi in una recente intervista a “Il Messaggero” (23 giugno), raccogliendo le sollecitazioni di Romano Prodi e parlando esplicitamente di “politica industriale” (una strategia che ha archiviato gli investimenti pubblici in “cattedrali nel deserto”, grandi impianti petrolchimici e siderurgici, imprese assistite e guarda invece, molto più correttamente, alla promozione delle condizioni per favorire gli investimenti privati, italiani e internazionali).

Sulla strada dell’industrial compact l’Italia ha, com’è noto, solide basi di partenza, da secondo paese manifatturiero europeo, con una incidenza della manifattura sul Pil del 16,5%. Se si guarda più in profondità, oltre il dato medio, si scopre che quella quota, nel Nord Italia, è del 21,6% e supera comunque il 20% anche nelle Marche e in Abruzzo e, fatti i conti, in ben 37 province italiane. La crisi continua a mordere, ma l’industria si difende (e l’Indice di fiducia Istat a giugno segnala un aumento a 88,4 da 86,9 di maggio, con un miglioramento diffuso a tutti i settori: la manifattura sale a 100, il massimo da luglio 2011). E si conferma, anche da parte di autorevoli economisti, quel che in questo blog si ripete da sempre: senza fabbriche non c’è futuro. Una consapevolezza condivisa dal ministro dello Sviluppo Economico Federica Guidi, che sta mettendo a punto “un piano per il made in Italy” forte di investimenti per 100 milioni e di iniziative per rafforzare l’export (aggiungere 50miliardi ai 470 miliardi attuali) e attrarre almeno 20 miliardi di investimenti internazionali. Una svolta di competitività e sviluppo.

Volendo, si può fare un’ulteriore riflessione strategica di medio periodo. E seguire le indicazioni di Roland Berger, grande società di consulenza tedesca, in un recente documento intitolato Industry 4.0, “una sorta di manifesto dell’industrialismo al tempo della produzione intelligente” (per riprendere l’acuta sintesi di Paolo Bricco su “Il Sole24Ore” del 27 maggio). Cosa dice Berger? Negli ultimi vent’anni il valore aggiunto industriale mondiale è passato da 3.500 a 6.500 miliardi di euro. Vent’anni fa Europa, Usa e Giappone ne controllavano il 79% (il 36% l’Europa). Ma adesso, solo il 60%, a causa di un rilevante processo di deindustrializzazione e alle illusioni che lo sviluppo dipendesse da finanza e servizi hi tech. Ci si è risvegliati, feriti della Grande Crisi della turbofinanza. E si è ricominciato a ragionare di economia reale, dando il via a robuste tendenze alla re-industrializzazione, al re-back shoring, al ritorno delle fabbriche negli stessi paesi di più antica industrializzazione. La Germania è rimasta, nonostante tutto, un grande paese industriale. L’Italia le è, appunto, seconda. Ma – sostiene lo studio di Roland Berger – “ogni singolo paese, compresa la Germania, non potrà realizzare appieno la trasformazione del proprio sistema industriale se mancherà un’agenda di politica industriale europea”. Ecco perché è indispensabile andare con decisione verso l’industrial compact Ue e dare sostanza di scelte concrete all’obiettivo del 20% “industriale” del Pil entro il 2020: investimenti da 90 miliardi all’anno, con uno sguardo ancora più lungo, per un totale di 1.500 miliardi entro il 2030.

E l’Italia? Servono investimenti da 15 miliardi all’anno, nel settori hi e medium tech in cui vantiamo già eccellenze industriali e produttive, da migliorare ancora. E scelte politiche sulle infrastrutture digitali (la diffusione più ampia della “banda larga”), la formazione e la ricerca e i raccordi con le imprese, la digitalizzazione diffusa della pubblica amministrazione, etc. “I modelli industriali – sostiene Roberto Crapelli, amministratore delegato di Roland Berger Italia – vanno trasformati completamente, con un salto di paradigma paragonabile a quello avvenuto negli anni Ottanta, con l’introduzione della robotica e dell’automazione nelle fabbriche italiane”. La sintesi de “Il Sole24Ore”: “Un disegno strategico in cui le fabbriche in rete si organizzano intorno alle tecnologie e in cui i tessuti connettivi tra le imprese mutano, innovazione di prodotto e manifattura ultraterziarizzata”. Industry 4.0, appunto.

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