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Investimenti internazionali, l’Italia torna attraente: i diversi volti d’una sfida di sviluppo

Tornano gli investimenti esteri in Italia, dopo gli anni peggiori della Grande Crisi. Gli ultimi, la scorsa settimana, sono quelli del Fondo sovrano del Qatar sui grattacieli di Porta Nuova a Milano (l’emirato ha adesso in Italia asset per 3 miliardi) e quelli dei giapponesi di Hitachi per Ansaldo Breda (i treni superveloci) e Sts, 1,9 miliardi pagati a Finmeccanica (pochi, per gioielli di eccellente tecnologia industriale? O sufficienti? Il dibattito politico ed economico impazza). Ma nel corso degli ultimi due anni ce ne sono stati tanti altri: cinesi, russi, americani, francesi (soprattutto nella moda e nel lusso), tedeschi (Audi per le moto Ducati, Volkswagen per le Mv), indiani, turchi, algerini…

L’Italia svende i gioielli di famiglia, dice una certa polemica. L’Italia è di nuovo attrattiva per investimenti che portano ricchezza e sviluppo, ribatte un’altra corrente di opinione. I dati raccontano che gli Ide in entrata (Investimenti diretti esteri) erano 45,5 miliardi nel 2006 e 48 nel 2007, poi erano precipitati a 7,1 nel 2010, a zero nel 2012 e poi finalmente tornati a crescere, a 15 sia nel 2013 che nel 2014 (Fonte: Centro Studi Confindustria). A questi, vanno aggiunti gli investimenti puramente finanziari (anche questi in ripresa).

Sempre i dati testimoniano che l’Italia, nonostante tutto, resta fanalino di coda nella Ue per investimenti internazionali, un fatto negativo che deprime la nostra economia. E a renderci poco attraenti sono la pessima, eccessiva (e corrotta) burocrazia, l’inquinamento del mercato derivante dall’intreccio tra mafia e corruzione, il fisco esoso e complicato, il cattivo funzionamento della giustizia (soprattutto civile e amministrativa), le scadenti infrastrutture (specie quelle digitali), le farraginosità del mercato del lavoro (adesso in parte rimediate dal Jobs Act). E’ una tendenza da investire. Ricostruendo la fiducia nell’Italia.

Dunque, più investimenti esteri, più sviluppo. Una sfida aperta per rendere l’Italia attraente. Il governo Renzi dichiara di impegnarsi in questa direzione.

Certo, gli investimenti non sono tutti uguali. Ci sono quelli speculativi. E quelli che guardano solo a rilevare marchi famosi, con atteggiamento imprenditoriale “neo-coloniale”. Ci sono logiche da “cherry picking”, la scelta fior da fiore senza preoccuparsi di posti di lavoro, identità territoriali, storie d’impresa e faticose ristrutturazioni. E ci sono invece investimenti che valorizzano le nostre capacità industriali, le competenze, le conoscenze, la qualità: come i tedeschi sulle moto, di cui abbiamo detto o la General Electric che compra Aero Avio e ne rafforza, nello stabilimento novarese di Cameri, la competitività internazionale. O, ancora, come l’alleanza tra Sorin e l’azienda Usa Cyberonics per dare vita a un colosso farmaceutico internazionale (“Siamo due eccellenze, la cardiochirurgia resta in Italia”, spiega Rosario Bifulco,  presidente Sorin).

Gli investimenti internazionali nell’industria, insomma, migliorano il nostro livello d’innovazione, la ricerca, la formazione di qualità del capitale umano. Sono una ricchezza, non solo finanziaria, ma complessiva. E rafforzano la nostra cultura d’impresa. “Creatività italiana, metodo e qualità tedeschi, una leva vincente da primato manifatturiero internazionale”, si disse a proposito dell’acquisto di Ducati da Audi. Un buon paradigma. Da valorizzare.

Tornano gli investimenti esteri in Italia, dopo gli anni peggiori della Grande Crisi. Gli ultimi, la scorsa settimana, sono quelli del Fondo sovrano del Qatar sui grattacieli di Porta Nuova a Milano (l’emirato ha adesso in Italia asset per 3 miliardi) e quelli dei giapponesi di Hitachi per Ansaldo Breda (i treni superveloci) e Sts, 1,9 miliardi pagati a Finmeccanica (pochi, per gioielli di eccellente tecnologia industriale? O sufficienti? Il dibattito politico ed economico impazza). Ma nel corso degli ultimi due anni ce ne sono stati tanti altri: cinesi, russi, americani, francesi (soprattutto nella moda e nel lusso), tedeschi (Audi per le moto Ducati, Volkswagen per le Mv), indiani, turchi, algerini…

L’Italia svende i gioielli di famiglia, dice una certa polemica. L’Italia è di nuovo attrattiva per investimenti che portano ricchezza e sviluppo, ribatte un’altra corrente di opinione. I dati raccontano che gli Ide in entrata (Investimenti diretti esteri) erano 45,5 miliardi nel 2006 e 48 nel 2007, poi erano precipitati a 7,1 nel 2010, a zero nel 2012 e poi finalmente tornati a crescere, a 15 sia nel 2013 che nel 2014 (Fonte: Centro Studi Confindustria). A questi, vanno aggiunti gli investimenti puramente finanziari (anche questi in ripresa).

Sempre i dati testimoniano che l’Italia, nonostante tutto, resta fanalino di coda nella Ue per investimenti internazionali, un fatto negativo che deprime la nostra economia. E a renderci poco attraenti sono la pessima, eccessiva (e corrotta) burocrazia, l’inquinamento del mercato derivante dall’intreccio tra mafia e corruzione, il fisco esoso e complicato, il cattivo funzionamento della giustizia (soprattutto civile e amministrativa), le scadenti infrastrutture (specie quelle digitali), le farraginosità del mercato del lavoro (adesso in parte rimediate dal Jobs Act). E’ una tendenza da investire. Ricostruendo la fiducia nell’Italia.

Dunque, più investimenti esteri, più sviluppo. Una sfida aperta per rendere l’Italia attraente. Il governo Renzi dichiara di impegnarsi in questa direzione.

Certo, gli investimenti non sono tutti uguali. Ci sono quelli speculativi. E quelli che guardano solo a rilevare marchi famosi, con atteggiamento imprenditoriale “neo-coloniale”. Ci sono logiche da “cherry picking”, la scelta fior da fiore senza preoccuparsi di posti di lavoro, identità territoriali, storie d’impresa e faticose ristrutturazioni. E ci sono invece investimenti che valorizzano le nostre capacità industriali, le competenze, le conoscenze, la qualità: come i tedeschi sulle moto, di cui abbiamo detto o la General Electric che compra Aero Avio e ne rafforza, nello stabilimento novarese di Cameri, la competitività internazionale. O, ancora, come l’alleanza tra Sorin e l’azienda Usa Cyberonics per dare vita a un colosso farmaceutico internazionale (“Siamo due eccellenze, la cardiochirurgia resta in Italia”, spiega Rosario Bifulco,  presidente Sorin).

Gli investimenti internazionali nell’industria, insomma, migliorano il nostro livello d’innovazione, la ricerca, la formazione di qualità del capitale umano. Sono una ricchezza, non solo finanziaria, ma complessiva. E rafforzano la nostra cultura d’impresa. “Creatività italiana, metodo e qualità tedeschi, una leva vincente da primato manifatturiero internazionale”, si disse a proposito dell’acquisto di Ducati da Audi. Un buon paradigma. Da valorizzare.

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