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La sfida dei “talenti” è aperta: occhio ai progressi di Cina e India

Da dove vengono i talenti? Dal Far East, in misura crescente. Basta fare un giro tra i viali e i padiglioni dell’Expo, per apprezzare le qualità hi tech delle imprese di Cina e India, forti dei loro ingegneri, matematici, scienziati. O, per avere un’idea più chiara del prossimo futuro, è quanto mai utile dare anche un’occhiata attenta ai dati dell’Ocse sulle proiezioni della percentuale di persone tra i 25 e i 34 anni che raggiungeranno, tra 15 anni, nel 2030 cioè, un livello di massima istruzione: il 27% dei talenti mondiali sarà in Cina, il 23% in India. Dunque, metà dei “talenti” del mondo. Notevoli anche i dati che parlano del 5% in Indonesia e il 5% in Brasile. Una clamorosa evoluzione positiva, rispetto alla situazione di oggi. Mentre l’8% dei talenti che verrà dagli Usa, il 2% dalla Germania e il 2% dal Regno Unito, l’1% da Francia e altrettanto dall’Italia sono una evoluzione negativa rispetto alla condizione di adesso. Si modificano gli equilibi mondiali dell’ “economia della conoscenza”. Vincono i Paesi con popolazioni più giovani e che stanno investendo massicciamente sull’istruzione e sulla formazione anche ai più alti livelli.

Le statistiche dell’Ocse, pubblicate di recente dal Corriere della sera (28 aprile), mostrano che nel nell’ultimo decennio c’erano 66 milioni di laureati nei Paesi Ocse e 64 milioni nell’area del G20. In proiezione, appunto al 2030, il numero dei laureati in Cina, India, Indonesia, Russia, Brasile, Argentina, Arabia Saudita e Sud Africa supererà del 40% quello di europei e americani Usa. Appunto una “rivoluzione culturale”, con forti ricadute su quantità e qualità della ricchezza e del potere.

I rettori delle più importanti università italiane, intervistati dal Corriere della Sera, sono consapevoli delle novità. Ma dicono: “L’eccellenza in ricerca e formazione è ancora qui, tra Europa e Usa”. E stanno giocando due carte fondamentali, per reggere la concorrenza: accordi di partnership con le università più dinamiche del Far East, ma anche programmi di attrazione di migliori studenti nei nostri atenei più prestigiosi. Lo stesso stanno facendo gli atenei francesi, inglesi, tedeschi. Sulla scia di quel che da tempo fanno le università americane. Alla sfida internazionale, insomma, si risponde aprendosi, non chiudenosi. Accettando il confronto sulla qualità. E provando a insistere sull’asset competitivo, tipicamente europeo, del mix fra tradizione e innovazione. Un mix originale, in cui l’Italia può ancora giocare buone carte. I suoi due grandi Politecnici, a Milano e a Torino e le grandi università milanesi, la Statale, la Bocconi, la Cattolica, offrono indicazioni interessanti. D’altronde, dei 180mila studenti universitari milanesi, il 10% viene dall’estero. Scommessa aperta, insomma. Sfida dei talenti in corso. Con occhio attento delle nostre imprese migliori, più internazionali.

Da dove vengono i talenti? Dal Far East, in misura crescente. Basta fare un giro tra i viali e i padiglioni dell’Expo, per apprezzare le qualità hi tech delle imprese di Cina e India, forti dei loro ingegneri, matematici, scienziati. O, per avere un’idea più chiara del prossimo futuro, è quanto mai utile dare anche un’occhiata attenta ai dati dell’Ocse sulle proiezioni della percentuale di persone tra i 25 e i 34 anni che raggiungeranno, tra 15 anni, nel 2030 cioè, un livello di massima istruzione: il 27% dei talenti mondiali sarà in Cina, il 23% in India. Dunque, metà dei “talenti” del mondo. Notevoli anche i dati che parlano del 5% in Indonesia e il 5% in Brasile. Una clamorosa evoluzione positiva, rispetto alla situazione di oggi. Mentre l’8% dei talenti che verrà dagli Usa, il 2% dalla Germania e il 2% dal Regno Unito, l’1% da Francia e altrettanto dall’Italia sono una evoluzione negativa rispetto alla condizione di adesso. Si modificano gli equilibi mondiali dell’ “economia della conoscenza”. Vincono i Paesi con popolazioni più giovani e che stanno investendo massicciamente sull’istruzione e sulla formazione anche ai più alti livelli.

Le statistiche dell’Ocse, pubblicate di recente dal Corriere della sera (28 aprile), mostrano che nel nell’ultimo decennio c’erano 66 milioni di laureati nei Paesi Ocse e 64 milioni nell’area del G20. In proiezione, appunto al 2030, il numero dei laureati in Cina, India, Indonesia, Russia, Brasile, Argentina, Arabia Saudita e Sud Africa supererà del 40% quello di europei e americani Usa. Appunto una “rivoluzione culturale”, con forti ricadute su quantità e qualità della ricchezza e del potere.

I rettori delle più importanti università italiane, intervistati dal Corriere della Sera, sono consapevoli delle novità. Ma dicono: “L’eccellenza in ricerca e formazione è ancora qui, tra Europa e Usa”. E stanno giocando due carte fondamentali, per reggere la concorrenza: accordi di partnership con le università più dinamiche del Far East, ma anche programmi di attrazione di migliori studenti nei nostri atenei più prestigiosi. Lo stesso stanno facendo gli atenei francesi, inglesi, tedeschi. Sulla scia di quel che da tempo fanno le università americane. Alla sfida internazionale, insomma, si risponde aprendosi, non chiudenosi. Accettando il confronto sulla qualità. E provando a insistere sull’asset competitivo, tipicamente europeo, del mix fra tradizione e innovazione. Un mix originale, in cui l’Italia può ancora giocare buone carte. I suoi due grandi Politecnici, a Milano e a Torino e le grandi università milanesi, la Statale, la Bocconi, la Cattolica, offrono indicazioni interessanti. D’altronde, dei 180mila studenti universitari milanesi, il 10% viene dall’estero. Scommessa aperta, insomma. Sfida dei talenti in corso. Con occhio attento delle nostre imprese migliori, più internazionali.

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