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L’utilità dell’inutile, per capire e fare bene

E’ utile o inutile leggere “Anna Karenina”, ascoltare la Prima Sinfonia di Brahms, fermarsi davanti al “Ritratto dell’ignoto marinaio” di Antonello da Messina, dedicare una sera a rivedere “Il Gattopardo” di Visconti o andare a teatro per il “Mercante di Venezia” di Shakespeare? Per un uomo o una donna d’impresa è tempo perso, improduttivo o no? La domanda è naturalmente un po’ oziosa e un po’ provocatoria. Potremmo rispondere che capire il gioco delle emozioni o l’ironia di un sorriso aiuta a gestire risorse umane complesse, il miglior capitale di un’impresa che non voglia ridurre le persone alla banale contabilità degli “head count”. O che niente meglio delle pretese di Shylock (una libbra di carne viva, come insopportabile sanzione di un debito scaduto) spiega la stupidità di certe leggi di mercato. Ma forse vale la pena andare oltre questa pur acuta idea dell’utilità indiretta. E ragionare con un minimo di leggerezza (dote fondamentale, peraltro, in tempi così incerti e rapidamente mutevoli, come hanno ben insegnato Kundera e Calvino), su quali attitudini servano, oggi, a una persona che, nel cuore dei processi economici, intenda governare a livelli di responsabilità un’azienda, senza farsi travolgere dal produttivismo e dell’utilitarismo di breve periodo e di corto respiro, ma pensare coerentemente allo “sviluppo” sostenibile. Sostenibile ambientalmente, socialmente e soprattutto destinato ad avere sostanza nel tempo lungo.

Ecco una prima considerazione: il tempo. Materia di filosofi e letterati, ma anche di fisici e altri scienziati, dalla relatività e della fisica quantistica in poi. Il produttivismo dice: fabbricare tot pezzi in tot minuti. Quantità, insomma. Ma la competizione più sofisticata si gioca soprattutto sulla qualità. E qui l’intreccio tra cura del dettaglio, design, innovazione delle tecnologie, capacità di cogliere il gusto più sofisticato ed esigente hanno un peso determinante. Cultura, appunto. Fare bene cose belle, sicure, funzionali. Coniugare con originalità forma e funzione (la “Lettera 22” voluta da Adriano Olivetti, un freno in ceramica e polvere di diamanti della Brembo, il battistrada di un pneumatico da neve di Pirelli…). Costruire e dare al mercato oggetti che siano adatti al tempo che cambia, capaci addirittura di prefigurare il futuro…

Sfida culturale, appunto. E non è certo un caso che “World”, il magazine semestrale internazionale di Pirelli, proprio a tutte le declinazioni del tempo abbia dedicato il suo ultimo numero, chiedendone spiegazioni a grandi intellettuali come Jacques Attali, Jacques le Goff e Zygmunt Baumann.

Tempo produttivo? Tempo perso? O, proprio perché perso, non funzionale, extravagante, tempo invece utilissimo, eccentricamente, per arrivare a scoperte e innovazioni che il pensiero produttivistico lineare non avrebbe mai consentito di fare?  Si può citare Eugene Jonesco, “Se non si comprende l’utilità dell’inutile e l’inutilità dell’utile, non si comprende l’arte”. E ricordarsi che la relazione con la creatività artistica è sempre stata centrale, nelle migliori imprese italiane (Olivetti e Pirelli, appunto), come testimonia la frequentazione di letterati e pittori, designer e grafici, filosofi-poeti (Sinisgalli) e fotografi  non solo e non tanto per il racconto e l’illustrazione dell’industria e del lavoro, quanto soprattutto per coltivare il pensiero eccentrico e perché no eretico? capace di stimolare profonde innovazioni. E si può leggere, con piacere e, appunto, con grandissima utilità, il bel libro del filosofo Nuccio Ordine, “L’utilità dell’inutile”, rivolto a documentare quanto e come filosofia e letteratura, poesia e musica, ricerca scientifica libera e speculazione matematica pura continuino a essere fondamento di una società libera di cui è sempre più necessario che si nutra anche un’economia (e dunque un’impresa) disposta a contribuire a un migliore equilibrio del mondo. Il libro si chiude con un saggio (finora inedito in Italia) di Abraham Flexner, fondatore e direttore, negli anni Trenta del Novecento, dell’Institute for Advanced Study di Princeton, fautore della libertà non funzionale della ricerca: se Maxwell e Hertz non avessere fatto studi nel campo del magnetismo e dell’elettricità, senza curarsi della loro utilità ma spinti solo dalla straordinaria curiosità scientifica, mai Marconi avrebbe avuto materiale a disposizione per “inventare” la radio. L’esempio, spiega Flexmener, può essere ripetuto anche in altri campi. La conseguenza? “Quasi tutte le invenzioni hanno una storia lunga e complessa. Uno fa la prima scoperta parziale, un altro mette in luce un nuovo elemento e così via fino a quando un genio mette insieme tutti i tasselli e apporta il contributo decisivo”. Dove finisce, allora, l’inutile della ricerca di base, dove comincia l’utile dell’applicazione pratica? Ma inutile, forse, non è proprio quest’ultima domanda?

E’ utile o inutile leggere “Anna Karenina”, ascoltare la Prima Sinfonia di Brahms, fermarsi davanti al “Ritratto dell’ignoto marinaio” di Antonello da Messina, dedicare una sera a rivedere “Il Gattopardo” di Visconti o andare a teatro per il “Mercante di Venezia” di Shakespeare? Per un uomo o una donna d’impresa è tempo perso, improduttivo o no? La domanda è naturalmente un po’ oziosa e un po’ provocatoria. Potremmo rispondere che capire il gioco delle emozioni o l’ironia di un sorriso aiuta a gestire risorse umane complesse, il miglior capitale di un’impresa che non voglia ridurre le persone alla banale contabilità degli “head count”. O che niente meglio delle pretese di Shylock (una libbra di carne viva, come insopportabile sanzione di un debito scaduto) spiega la stupidità di certe leggi di mercato. Ma forse vale la pena andare oltre questa pur acuta idea dell’utilità indiretta. E ragionare con un minimo di leggerezza (dote fondamentale, peraltro, in tempi così incerti e rapidamente mutevoli, come hanno ben insegnato Kundera e Calvino), su quali attitudini servano, oggi, a una persona che, nel cuore dei processi economici, intenda governare a livelli di responsabilità un’azienda, senza farsi travolgere dal produttivismo e dell’utilitarismo di breve periodo e di corto respiro, ma pensare coerentemente allo “sviluppo” sostenibile. Sostenibile ambientalmente, socialmente e soprattutto destinato ad avere sostanza nel tempo lungo.

Ecco una prima considerazione: il tempo. Materia di filosofi e letterati, ma anche di fisici e altri scienziati, dalla relatività e della fisica quantistica in poi. Il produttivismo dice: fabbricare tot pezzi in tot minuti. Quantità, insomma. Ma la competizione più sofisticata si gioca soprattutto sulla qualità. E qui l’intreccio tra cura del dettaglio, design, innovazione delle tecnologie, capacità di cogliere il gusto più sofisticato ed esigente hanno un peso determinante. Cultura, appunto. Fare bene cose belle, sicure, funzionali. Coniugare con originalità forma e funzione (la “Lettera 22” voluta da Adriano Olivetti, un freno in ceramica e polvere di diamanti della Brembo, il battistrada di un pneumatico da neve di Pirelli…). Costruire e dare al mercato oggetti che siano adatti al tempo che cambia, capaci addirittura di prefigurare il futuro…

Sfida culturale, appunto. E non è certo un caso che “World”, il magazine semestrale internazionale di Pirelli, proprio a tutte le declinazioni del tempo abbia dedicato il suo ultimo numero, chiedendone spiegazioni a grandi intellettuali come Jacques Attali, Jacques le Goff e Zygmunt Baumann.

Tempo produttivo? Tempo perso? O, proprio perché perso, non funzionale, extravagante, tempo invece utilissimo, eccentricamente, per arrivare a scoperte e innovazioni che il pensiero produttivistico lineare non avrebbe mai consentito di fare?  Si può citare Eugene Jonesco, “Se non si comprende l’utilità dell’inutile e l’inutilità dell’utile, non si comprende l’arte”. E ricordarsi che la relazione con la creatività artistica è sempre stata centrale, nelle migliori imprese italiane (Olivetti e Pirelli, appunto), come testimonia la frequentazione di letterati e pittori, designer e grafici, filosofi-poeti (Sinisgalli) e fotografi  non solo e non tanto per il racconto e l’illustrazione dell’industria e del lavoro, quanto soprattutto per coltivare il pensiero eccentrico e perché no eretico? capace di stimolare profonde innovazioni. E si può leggere, con piacere e, appunto, con grandissima utilità, il bel libro del filosofo Nuccio Ordine, “L’utilità dell’inutile”, rivolto a documentare quanto e come filosofia e letteratura, poesia e musica, ricerca scientifica libera e speculazione matematica pura continuino a essere fondamento di una società libera di cui è sempre più necessario che si nutra anche un’economia (e dunque un’impresa) disposta a contribuire a un migliore equilibrio del mondo. Il libro si chiude con un saggio (finora inedito in Italia) di Abraham Flexner, fondatore e direttore, negli anni Trenta del Novecento, dell’Institute for Advanced Study di Princeton, fautore della libertà non funzionale della ricerca: se Maxwell e Hertz non avessere fatto studi nel campo del magnetismo e dell’elettricità, senza curarsi della loro utilità ma spinti solo dalla straordinaria curiosità scientifica, mai Marconi avrebbe avuto materiale a disposizione per “inventare” la radio. L’esempio, spiega Flexmener, può essere ripetuto anche in altri campi. La conseguenza? “Quasi tutte le invenzioni hanno una storia lunga e complessa. Uno fa la prima scoperta parziale, un altro mette in luce un nuovo elemento e così via fino a quando un genio mette insieme tutti i tasselli e apporta il contributo decisivo”. Dove finisce, allora, l’inutile della ricerca di base, dove comincia l’utile dell’applicazione pratica? Ma inutile, forse, non è proprio quest’ultima domanda?

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