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Mediobanca, ecco come cambia l’impresa italiana: manifattura batte energia

Come cambia, il capitalismo italiano? Più peso per l’industria, meno per energia e servizi, maggiore incidenza dei grandi gruppi internazionali (anche d’origine italiana) e crescita delle imprese manifatturiere medio-grandi, con capacità d’espansione all’estero. Nella crisi, insomma, reggono i gruppi esposti alla concorrenza, grande motore di competitività, e arrancano invece le aziende limitate in settori “protetti” e poco capaci di vendere i loro servizi sui mercati aperti. E’, come sempre, una fotografia complessa, quella tracciata ogni anno da Mediobanca nell’analisi annuale sulle “Principali società italiane”, arrivata all’edizione n.49, mezzo secolo di indagine sui bilanci, sui dati delle industrie, delle banche, delle assicurazioni e delle grandi e medie società di servizi.

Guardiamo dunque alle classifiche. “Exor-Fca sorpassa Eni in testa ai big dell’industria”, titola “Il Sole24Ore”, “Exor batte Eni, rivincita dell’industria”, titola il “Corriere della Sera”. Nei primi sei mesi del 2014, infatti, i ricavi della Exor guidata dalla famiglia Agnelli, grazie alla fusione Fiat-Chrysler, hanno superato quota 58 miliardi (nell’intero 2013 erano stati 113,7 miliardi) contro i 56,6 dell’Eni (a quota 114,7 miliardi nel 2013). Exor-Fca era già la prima, nel 2013, per numero di dipendenti, 306mila, la stessa ampiezza dei primi anni 80 (solo che allora l’80% degli addetti Fiat lavorava in Italia, mentre oggi solo il 26% è impiegato nel nostro Paese, dove le vendite del gruppo rappresentano appena l’8% di tutto il fatturato). Effetto Chrysler, insomma. E globalizzazione. Con cambio di nome: non sentiremo più parlare di Fiat e la F starà solo come iniziale di Fca, Fiat Chrysler Automobiles, appunto).

L’Eni si conferma campione di utili, con 13miliardi nel biennio 12-13, seguito da Enel (3,5) e poi da Exor, 2,4 miliardi.

Che altro dice, quella classifica? Nelle “Top 20”, sempre più o meno uguali da anni, adesso c’è un nuovo ingresso, quello di General Electric Italia, la ex “Nuovo Pignone” di Firenze, diventata capofila del grande gruppo americano per le attività industriali “oil and gas” (uno dei migliori esempi dell’importanza positiva degli investimenti internazionali, per fare crescere la nostra industria). GE Italia è passata dal 29° al 19° posto grazie agli investimenti in Avio.

Migliorata la posizione di Edison, Luxottica, Poste ed Esselunga (i supermarket di Bernardo Caprotti), ma anche di Salini (costruzioni) dopo l’acquisizione di Impregilo. Lavorare, insomma, per diventare grandi, competitivi, redditizi.

Sempre guardando alle prime 20 società, si vede che nove appartengono al settore energetico, sei al manifatturiero (oltre a Exor-Fca da primato e GE Italia nuova entrata, ci sono Finmeccanica, Luxottica, Prysmian, Pirelli, tutte con robusti fatturati all’estero), cinque al comparto infrastrutture e servizi. Sette gruppi sono di proprietà pubblica. Cinque a controllo estero.

Nell’elenco Mediobanca ci sono solo i gruppi che hanno sede in Italia: mancano dunque la Techint della famiglia Rocca, che con 19,1 miliardi di giro d’affari sarebbe sesta dietro Telecom, la StMicroelectronics che con 6,1 miliardi sarebbe 20°, la Ferrero, con 8,1 miliardi, cui toccherebbe il 12° posto: la loro presenza rafforzerebbe il peso del manifatturiero. Così come non ci sono le attività italiane della francese Lactalis, proprietaria di Parmalat.

Ultima nota guardando la classifica: migliorano le imprese medie manifatturiere, che in molti casi hanno mostrato incrementi di ricavi dal 20 al 55% (SimiGroup, Stevanato, Ballarini, Stefano Ricci, Uteco Converting, Casa Vinicola Botter, Ecuador, Fosber, Chimec, Euroitalia, MczGroup), vere e proprie “multinazionali tascabili” dinamiche, efficienti, competitive: la testimonianza che il buon capitalismo industriale italiano ha ancora molte buone carte da giocare.

Come cambia, il capitalismo italiano? Più peso per l’industria, meno per energia e servizi, maggiore incidenza dei grandi gruppi internazionali (anche d’origine italiana) e crescita delle imprese manifatturiere medio-grandi, con capacità d’espansione all’estero. Nella crisi, insomma, reggono i gruppi esposti alla concorrenza, grande motore di competitività, e arrancano invece le aziende limitate in settori “protetti” e poco capaci di vendere i loro servizi sui mercati aperti. E’, come sempre, una fotografia complessa, quella tracciata ogni anno da Mediobanca nell’analisi annuale sulle “Principali società italiane”, arrivata all’edizione n.49, mezzo secolo di indagine sui bilanci, sui dati delle industrie, delle banche, delle assicurazioni e delle grandi e medie società di servizi.

Guardiamo dunque alle classifiche. “Exor-Fca sorpassa Eni in testa ai big dell’industria”, titola “Il Sole24Ore”, “Exor batte Eni, rivincita dell’industria”, titola il “Corriere della Sera”. Nei primi sei mesi del 2014, infatti, i ricavi della Exor guidata dalla famiglia Agnelli, grazie alla fusione Fiat-Chrysler, hanno superato quota 58 miliardi (nell’intero 2013 erano stati 113,7 miliardi) contro i 56,6 dell’Eni (a quota 114,7 miliardi nel 2013). Exor-Fca era già la prima, nel 2013, per numero di dipendenti, 306mila, la stessa ampiezza dei primi anni 80 (solo che allora l’80% degli addetti Fiat lavorava in Italia, mentre oggi solo il 26% è impiegato nel nostro Paese, dove le vendite del gruppo rappresentano appena l’8% di tutto il fatturato). Effetto Chrysler, insomma. E globalizzazione. Con cambio di nome: non sentiremo più parlare di Fiat e la F starà solo come iniziale di Fca, Fiat Chrysler Automobiles, appunto).

L’Eni si conferma campione di utili, con 13miliardi nel biennio 12-13, seguito da Enel (3,5) e poi da Exor, 2,4 miliardi.

Che altro dice, quella classifica? Nelle “Top 20”, sempre più o meno uguali da anni, adesso c’è un nuovo ingresso, quello di General Electric Italia, la ex “Nuovo Pignone” di Firenze, diventata capofila del grande gruppo americano per le attività industriali “oil and gas” (uno dei migliori esempi dell’importanza positiva degli investimenti internazionali, per fare crescere la nostra industria). GE Italia è passata dal 29° al 19° posto grazie agli investimenti in Avio.

Migliorata la posizione di Edison, Luxottica, Poste ed Esselunga (i supermarket di Bernardo Caprotti), ma anche di Salini (costruzioni) dopo l’acquisizione di Impregilo. Lavorare, insomma, per diventare grandi, competitivi, redditizi.

Sempre guardando alle prime 20 società, si vede che nove appartengono al settore energetico, sei al manifatturiero (oltre a Exor-Fca da primato e GE Italia nuova entrata, ci sono Finmeccanica, Luxottica, Prysmian, Pirelli, tutte con robusti fatturati all’estero), cinque al comparto infrastrutture e servizi. Sette gruppi sono di proprietà pubblica. Cinque a controllo estero.

Nell’elenco Mediobanca ci sono solo i gruppi che hanno sede in Italia: mancano dunque la Techint della famiglia Rocca, che con 19,1 miliardi di giro d’affari sarebbe sesta dietro Telecom, la StMicroelectronics che con 6,1 miliardi sarebbe 20°, la Ferrero, con 8,1 miliardi, cui toccherebbe il 12° posto: la loro presenza rafforzerebbe il peso del manifatturiero. Così come non ci sono le attività italiane della francese Lactalis, proprietaria di Parmalat.

Ultima nota guardando la classifica: migliorano le imprese medie manifatturiere, che in molti casi hanno mostrato incrementi di ricavi dal 20 al 55% (SimiGroup, Stevanato, Ballarini, Stefano Ricci, Uteco Converting, Casa Vinicola Botter, Ecuador, Fosber, Chimec, Euroitalia, MczGroup), vere e proprie “multinazionali tascabili” dinamiche, efficienti, competitive: la testimonianza che il buon capitalismo industriale italiano ha ancora molte buone carte da giocare.

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