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Per lo sviluppo, più investimenti in formazione e più donne ingegneri

Nell’Italia in caduta di competitività ci sono due dati su cui riflettere: le percentuali sul Pil degli investimenti per la formazione e per la ricerca. Entrambi al di sotto delle medie europee. Con grave danno non solo per il sistema Paese, ma anche per le imprese italiane, che devono reggere una concorrenza internazionale in cui contano sempre più il capitale umano e il “capitale di innovazione”. Ecco i dati: per l’istruzione si spende il 4,7% del Pil, rispetto al 6,3% della media dei paesi Ocse, mentre per la ricerca, com’è noto, l’1% appena. A guardare ancora meglio i dati Ocse, si scopre che l’Italia scivola al penultimo posto (31esima su 32 paesi) per la spesa destinata all’l’istruzione, con il 9% del totale degli investimenti pubblici, contro una media Ocse del 13%. Aumentano i laureati (15% della popolazione), ma la percentuale è la metà della media OCSE (31 %). Se si guarda soprattutto alla fascia tra i 25 e i 34 anni, la generazione che arriva nel mondo del lavoro, il capitale umano cui affidare le nuove sfide della crescita, abbiamo solo il 21% di laureati, contro il 39% della media Ocse. Mancano, qui, soprattutto le figure più ricercate dalle imprese, gli ingegneri e i laureati in economia e in materie scientifiche (senza contare il fatto che molti dei laureati più brillanti e preparati se ne vanno all’estero, a cercare migliori condizioni di lavoro e di vita). E sono carenti anche i profili professionali delle lauree in scienze umane cui industria e servizi potrebbero guardare con interesse (i giuristi d’impresa, i sociologhi attenti ai cambiamenti del mondo del lavoro, i filosofi in grado di decrittare la complessità dei processi sociali e dei cambiamenti dei mercati e delle aspettative di consumatori e produttori). Formazione inadeguata, insomma, quantitativamente e, tutto sommato, qualitativamente (anche se con non poche eccezioni di grande rilievo).

Va un po’ meglio se si guarda al mondo femminile. Avanzano infatti le donne: nel 2010 una su quattro aveva un’istruzione universitaria (59%) a fronte di uno su sei tra gli uomini, stando così in linea con la media Ocse. L’Italia è inoltre al secondo posto per le donne laureate in campo scientifico (52%) e raggiunge una delle percentuali più alte dell’Ocse (33%) di quelle laureate in ingegneria. Una strada da seguire con maggior decisione. E su cui ci sono già, proprio nelle migliori realtà formative italiane, dei significativi processi da sottolineare: al Politecnico di Milano le donne laureate erano il 20,6% nel 2008, oggi sono il 23,9%.

Più tecnologia e più donne per la ripresa”, ha titolato “La Stampa” (27 settembre) per la cronaca di un incontro tra il presidente della Fiat John Elkann, l’amministratore delegato di Luxottica Andrea Guerra e un gruppo di donne ricercatrici e manager, dalla neo senatrice a vita Elena Cattaneo ad alcune donne ingegneri di Pirelli, Telecom, del Politecnico di Milano, etc, tutte riunite dall’associazione “Valore D” (impegnata a sostenere la leadership femminile in azienda). Il ministro della Pubblica Istruzione Maria Chiara Carrozza ne ha indicato ruolo e prospettive: “Il declino dell’Italia non è irreversibile e avere cura del contributo femminile è il primo passo da fare per rialzarsi”.

Più formazione, maggiori investimenti pubblici e privati in “ricerca e sviluppo”, dunque, più attenzione a valorizzare i talenti, a cominciare proprio dal contributo delle donne, le ingegneri di cui si parla, ma naturalmente anche tutte coloro in grado di dare un contributo originale nei loro ambienti di lavoro per formazione, attitudini umane, capacità di tradurre in modo nuovo quella “intelligenza del cuore” di cui proprio le donne sono particolarmente dotate. Con effetti positivi per le imprese. E per il peso professionale delle donne che scelgono una carriera nel mondo della scienza e in quello delle aziende più attente alle nuove tecnologie e all’innovazione in generale. Sono il 66%, infatti, le donne che trovano un lavoro a un anno dalla laurea in ingegneria, il 91 per cento entro cinque anni. Una buona strada, su cui continuare a camminare.

Nell’Italia in caduta di competitività ci sono due dati su cui riflettere: le percentuali sul Pil degli investimenti per la formazione e per la ricerca. Entrambi al di sotto delle medie europee. Con grave danno non solo per il sistema Paese, ma anche per le imprese italiane, che devono reggere una concorrenza internazionale in cui contano sempre più il capitale umano e il “capitale di innovazione”. Ecco i dati: per l’istruzione si spende il 4,7% del Pil, rispetto al 6,3% della media dei paesi Ocse, mentre per la ricerca, com’è noto, l’1% appena. A guardare ancora meglio i dati Ocse, si scopre che l’Italia scivola al penultimo posto (31esima su 32 paesi) per la spesa destinata all’l’istruzione, con il 9% del totale degli investimenti pubblici, contro una media Ocse del 13%. Aumentano i laureati (15% della popolazione), ma la percentuale è la metà della media OCSE (31 %). Se si guarda soprattutto alla fascia tra i 25 e i 34 anni, la generazione che arriva nel mondo del lavoro, il capitale umano cui affidare le nuove sfide della crescita, abbiamo solo il 21% di laureati, contro il 39% della media Ocse. Mancano, qui, soprattutto le figure più ricercate dalle imprese, gli ingegneri e i laureati in economia e in materie scientifiche (senza contare il fatto che molti dei laureati più brillanti e preparati se ne vanno all’estero, a cercare migliori condizioni di lavoro e di vita). E sono carenti anche i profili professionali delle lauree in scienze umane cui industria e servizi potrebbero guardare con interesse (i giuristi d’impresa, i sociologhi attenti ai cambiamenti del mondo del lavoro, i filosofi in grado di decrittare la complessità dei processi sociali e dei cambiamenti dei mercati e delle aspettative di consumatori e produttori). Formazione inadeguata, insomma, quantitativamente e, tutto sommato, qualitativamente (anche se con non poche eccezioni di grande rilievo).

Va un po’ meglio se si guarda al mondo femminile. Avanzano infatti le donne: nel 2010 una su quattro aveva un’istruzione universitaria (59%) a fronte di uno su sei tra gli uomini, stando così in linea con la media Ocse. L’Italia è inoltre al secondo posto per le donne laureate in campo scientifico (52%) e raggiunge una delle percentuali più alte dell’Ocse (33%) di quelle laureate in ingegneria. Una strada da seguire con maggior decisione. E su cui ci sono già, proprio nelle migliori realtà formative italiane, dei significativi processi da sottolineare: al Politecnico di Milano le donne laureate erano il 20,6% nel 2008, oggi sono il 23,9%.

Più tecnologia e più donne per la ripresa”, ha titolato “La Stampa” (27 settembre) per la cronaca di un incontro tra il presidente della Fiat John Elkann, l’amministratore delegato di Luxottica Andrea Guerra e un gruppo di donne ricercatrici e manager, dalla neo senatrice a vita Elena Cattaneo ad alcune donne ingegneri di Pirelli, Telecom, del Politecnico di Milano, etc, tutte riunite dall’associazione “Valore D” (impegnata a sostenere la leadership femminile in azienda). Il ministro della Pubblica Istruzione Maria Chiara Carrozza ne ha indicato ruolo e prospettive: “Il declino dell’Italia non è irreversibile e avere cura del contributo femminile è il primo passo da fare per rialzarsi”.

Più formazione, maggiori investimenti pubblici e privati in “ricerca e sviluppo”, dunque, più attenzione a valorizzare i talenti, a cominciare proprio dal contributo delle donne, le ingegneri di cui si parla, ma naturalmente anche tutte coloro in grado di dare un contributo originale nei loro ambienti di lavoro per formazione, attitudini umane, capacità di tradurre in modo nuovo quella “intelligenza del cuore” di cui proprio le donne sono particolarmente dotate. Con effetti positivi per le imprese. E per il peso professionale delle donne che scelgono una carriera nel mondo della scienza e in quello delle aziende più attente alle nuove tecnologie e all’innovazione in generale. Sono il 66%, infatti, le donne che trovano un lavoro a un anno dalla laurea in ingegneria, il 91 per cento entro cinque anni. Una buona strada, su cui continuare a camminare.

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