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Senza manifattura non c’è sviluppo per i servizi: una strategia virtuosa dell’economia italiana

“Senza manifattura, niente servizi”. Tocca al Centro Studi Confindustria, diretto da un bravo economista come Luca Paolazzi, dare un lucido contributo di chiarezza sulle false dicotomie dello sviluppo che hanno animato uno scadente discorso pubblico negli anni Duemila  (tra abbandono dell’industria e prevalenza del terziario, per esempio, con un’economia dei paesi sviluppati sempre più “emancipata dal sudicio coinvolgimento con il mondo fisico”, per usare la provocatoria espressione di Krugman del 1996, insomma la fabbrica brutta, sporca e cattiva). Nelle pagine di “Scenari Industriali” di giugno, infatti, un capitolo, denso di dati e fatti, è dedicato a “L’importanza del fare manifattura, il ruolo complementare dei servizi e il territorio. Verso politiche industriali ‘localizzate’”. La sintesi è chiara: “Una head quarter economy, specializzata esclusivamente nella produzione di serizi ad alto valore aggiunto, non è sostenibile nel lungo periodo. Senza manifattura, insomma, senza factory economy, non c’è futuro neanche per una fetta rilevante del terziario” .

Le considerazioni del CSC (il Centro Studi Confindustria, appunto) si inquadrano in un contesto, oramai solido, di rilancio della centralità della manifattura, sia negli Usa di Obama (che punta sullo sviluppo delle tecnologie digitali applicate alla produzione industriale su larga scala) sia nella Ue impegnata a elaborare un buon industrial compact (con investimenti per circa 150 miliardi destinati a reindustrializzare l’Europa, portando entro il 2020 al 20% l’incidenza della manifattura sul Pil, cinque punti più di adesso, cioè). E danno conto di una tendenza crescente, quella del reshoring e cioè di un ritorno degli investimenti industriali dalle aree di delocalizzazione per basso costo del lavoro ai paesi di più antica e solida industrializzazione, in cerca di qualità e alto valore aggiunto delle produzioni, strumenti d’eccellenza competitiva (in Italia, negli ultimi anni, sono stati censiti 79 casi di back-reshoring e altri 12 di near-reshoring e cioè di investimenti in aree geograficamente molto vicine al centro produttivo principale e all’head quarter dell’impresa. Perché? Perchè solo così si possono godere i vantaggi di competenze sofisticate, di supply chain di qualità e di una serie di servizi innovativi legati appunto alla produzione e indispensabili alle nuove ragioni della competitività.

Documenta il CSC che “in Italia la domanda di servizi da parte dei settori manifatturieri arriva al 17% del valore della produzione industriale”, una quota peraltro uniforme tra i diversi comparti produttivi, con poche eccezioni. E la prima voce tra gli acquisti di servizi è rappresentata da quelli di analisi e consulenza tecnico-scientifica (33% del totale dei servizi richiesti), seguiti dai servizi di trasporto e vendita (24%) e dai servizi finanziari (10%). D’altronde, “la stessa manifattura produce servizi”, in Italia “per oltre il 6% del valore totale della produzione, con una forte eterogeneità tra i diversi comparti, con picchi superiori al 15% per apparecchiature elettroniche e grandi mezzi di trasporto”.

A guardar bene l’evoluzione delle attività produttive, d’altronde, si nota con facilità come la manifattura sia al centro di una vera e propria ragnatela che lega la fabbrica ai servizi per il business e alla logistica, alle telecomunicazioni e ai trasporti e alle utilities, alla finanza e alle costruzioni, all’agricoltura e alle attività estrattive. Una serie complessa di relazioni virtuose che si influenzano e vivono sia della forza dei territori ad alta intensità  di specializzazione sia delle competenze delle filiere produttive e dei cosiddetti metadistretti.  E la manifattura ha il principale ruolo strategico “nel connettere i diversi nodi della rete produttiva di cui si compone l’economia”.

Tornare a  produrre in Italia, dunque. E rafforzare la nostra fortunatamente non sopita capacità manifatturiera. Riscoprire “l’orgoglio industriale” e considerare l’industria come strumento di “riscatto” o di “riscossa” (per usare titoli di una vivace pubblicistica, in cui si inserisce anche il recente volume di Filippo Astone pubblicato da Magenes e dedicato a “fabbriche & Europa per far decollare l’economia italiana”).  Il CSC conferma infatti “le basi fattuali dell’economia della conoscenza” e ribadisce “le interconnessioni vitali che legano la fabbricazione di un prodotto alle attività di servizio che la precedono e la seguono e che richiedono per lo più un contiguità geografica perché l’intero processo abbia luogo. Senza la produzione manifatturiera, in altre parole,  la domanda di quei servizi semplicemente non esisterebbe e senza il confronto costante con il fare manifatturiero quei servizi a loro volta non avanzerebbero qualitativamente oltre che quantitativamente e la conoscenza (di cui il know how è insieme fonte e parte integrante) non progredirebbe”.

Sta proprio qui il senso dell’urgenza di definire, da parte del governo e delle amministrazioni pubbliche, “politiche industriali” che vadano oltre i vecchi e inutili “piani di settore” e gli attuali “incentivi a pioggia” e intervengano invece sulle ragioni di fondo della produttività (ad alto valore agginto) e della competitività del sistema Italia. Con sintesi di manifattura e servizi alle imprese. Sostiene appunto il CSC: “L’intervento pubblico trova una sua giustificazione teorica in quanto orientato a favorire una progressiva aggregazione di attività imprenditoriali intorno a progetti industriali innovativi, in un’ottica di sistema – ossia tale da coinvolgere una pluralità di soggetti, non solo appartenenti alla manifattura – con specializzazioni complementari”. Una buona strada. Da seguire rapidamente ed efficacemente, con l’attenzione rivolta sia ai territori dell’industria sia alle strategie dell’Europa.

“Senza manifattura, niente servizi”. Tocca al Centro Studi Confindustria, diretto da un bravo economista come Luca Paolazzi, dare un lucido contributo di chiarezza sulle false dicotomie dello sviluppo che hanno animato uno scadente discorso pubblico negli anni Duemila  (tra abbandono dell’industria e prevalenza del terziario, per esempio, con un’economia dei paesi sviluppati sempre più “emancipata dal sudicio coinvolgimento con il mondo fisico”, per usare la provocatoria espressione di Krugman del 1996, insomma la fabbrica brutta, sporca e cattiva). Nelle pagine di “Scenari Industriali” di giugno, infatti, un capitolo, denso di dati e fatti, è dedicato a “L’importanza del fare manifattura, il ruolo complementare dei servizi e il territorio. Verso politiche industriali ‘localizzate’”. La sintesi è chiara: “Una head quarter economy, specializzata esclusivamente nella produzione di serizi ad alto valore aggiunto, non è sostenibile nel lungo periodo. Senza manifattura, insomma, senza factory economy, non c’è futuro neanche per una fetta rilevante del terziario” .

Le considerazioni del CSC (il Centro Studi Confindustria, appunto) si inquadrano in un contesto, oramai solido, di rilancio della centralità della manifattura, sia negli Usa di Obama (che punta sullo sviluppo delle tecnologie digitali applicate alla produzione industriale su larga scala) sia nella Ue impegnata a elaborare un buon industrial compact (con investimenti per circa 150 miliardi destinati a reindustrializzare l’Europa, portando entro il 2020 al 20% l’incidenza della manifattura sul Pil, cinque punti più di adesso, cioè). E danno conto di una tendenza crescente, quella del reshoring e cioè di un ritorno degli investimenti industriali dalle aree di delocalizzazione per basso costo del lavoro ai paesi di più antica e solida industrializzazione, in cerca di qualità e alto valore aggiunto delle produzioni, strumenti d’eccellenza competitiva (in Italia, negli ultimi anni, sono stati censiti 79 casi di back-reshoring e altri 12 di near-reshoring e cioè di investimenti in aree geograficamente molto vicine al centro produttivo principale e all’head quarter dell’impresa. Perché? Perchè solo così si possono godere i vantaggi di competenze sofisticate, di supply chain di qualità e di una serie di servizi innovativi legati appunto alla produzione e indispensabili alle nuove ragioni della competitività.

Documenta il CSC che “in Italia la domanda di servizi da parte dei settori manifatturieri arriva al 17% del valore della produzione industriale”, una quota peraltro uniforme tra i diversi comparti produttivi, con poche eccezioni. E la prima voce tra gli acquisti di servizi è rappresentata da quelli di analisi e consulenza tecnico-scientifica (33% del totale dei servizi richiesti), seguiti dai servizi di trasporto e vendita (24%) e dai servizi finanziari (10%). D’altronde, “la stessa manifattura produce servizi”, in Italia “per oltre il 6% del valore totale della produzione, con una forte eterogeneità tra i diversi comparti, con picchi superiori al 15% per apparecchiature elettroniche e grandi mezzi di trasporto”.

A guardar bene l’evoluzione delle attività produttive, d’altronde, si nota con facilità come la manifattura sia al centro di una vera e propria ragnatela che lega la fabbrica ai servizi per il business e alla logistica, alle telecomunicazioni e ai trasporti e alle utilities, alla finanza e alle costruzioni, all’agricoltura e alle attività estrattive. Una serie complessa di relazioni virtuose che si influenzano e vivono sia della forza dei territori ad alta intensità  di specializzazione sia delle competenze delle filiere produttive e dei cosiddetti metadistretti.  E la manifattura ha il principale ruolo strategico “nel connettere i diversi nodi della rete produttiva di cui si compone l’economia”.

Tornare a  produrre in Italia, dunque. E rafforzare la nostra fortunatamente non sopita capacità manifatturiera. Riscoprire “l’orgoglio industriale” e considerare l’industria come strumento di “riscatto” o di “riscossa” (per usare titoli di una vivace pubblicistica, in cui si inserisce anche il recente volume di Filippo Astone pubblicato da Magenes e dedicato a “fabbriche & Europa per far decollare l’economia italiana”).  Il CSC conferma infatti “le basi fattuali dell’economia della conoscenza” e ribadisce “le interconnessioni vitali che legano la fabbricazione di un prodotto alle attività di servizio che la precedono e la seguono e che richiedono per lo più un contiguità geografica perché l’intero processo abbia luogo. Senza la produzione manifatturiera, in altre parole,  la domanda di quei servizi semplicemente non esisterebbe e senza il confronto costante con il fare manifatturiero quei servizi a loro volta non avanzerebbero qualitativamente oltre che quantitativamente e la conoscenza (di cui il know how è insieme fonte e parte integrante) non progredirebbe”.

Sta proprio qui il senso dell’urgenza di definire, da parte del governo e delle amministrazioni pubbliche, “politiche industriali” che vadano oltre i vecchi e inutili “piani di settore” e gli attuali “incentivi a pioggia” e intervengano invece sulle ragioni di fondo della produttività (ad alto valore agginto) e della competitività del sistema Italia. Con sintesi di manifattura e servizi alle imprese. Sostiene appunto il CSC: “L’intervento pubblico trova una sua giustificazione teorica in quanto orientato a favorire una progressiva aggregazione di attività imprenditoriali intorno a progetti industriali innovativi, in un’ottica di sistema – ossia tale da coinvolgere una pluralità di soggetti, non solo appartenenti alla manifattura – con specializzazioni complementari”. Una buona strada. Da seguire rapidamente ed efficacemente, con l’attenzione rivolta sia ai territori dell’industria sia alle strategie dell’Europa.

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