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Symbola: l’orgoglio dell’industria da far crescere e il pregiudizio sul declino da combattere

L’evocazione è letteraria: “Orgoglio e pregiudizio”. Ma l’indicazione programmatica è molto concreta: “Perché l’Italia deve fare l’Italia”. Il luogo è Treia, un bellissimo borgo sulle colline di Macerata (ambiente naturale ben conservato, cultura diffusa, agricoltura efficiente, industria manifatturiera di qualità: a due passi, nella piana di Tolentino, ci sono anche gli stabilimenti di Poltrona Frau, un’eccellenza internazionale del made in Italy). L’occasione, nello scorso fine settimana, è il XIII Seminario Estivo di Symbola, la dinamica associazione della “soft economy” presieduta da Ermete Realacci. Nella sala del Teatro Comunale, ministri, politici, imprenditori e manager, economisti, uomini e donne di cultura e di scienza. L’orgoglio è quello del “bello e ben fatto”. Il pregiudizio è una convinzione diffusa d’essere di fronte all’irreversibile declino dell’Italia. Tutt’altro, si è detto e documentato. Quel pregiudizio è da sfatare. I dati del “Rapporto Italia – Geografie del nuovo made in Italy” (realizzato da Symbola con Unioncamere e Fondazione Edison) testimoniano infatti che ci sono quasi mille prodotti “da podio mondiale nell’export”, con un saldo commerciale attivo da record, punto di forza di un Paese che è i primi cinque al mondo a vantare un surplus manifatturiero superiore ai 100 miliardi di dollari (in buona compagnia con Cina, Germania, Giappone e Corea). E secondo un sondaggio Ipsos, circa l’80% degli americani e dei cinesi associa al made in Italy un valore positivo”. C’è una domanda mondiale di qualità italiana da soddisfare. Ed eccole, dunque, le eccellenze su cui puntare: la nostra manifattura, nelle “4A” di automazione industriale, agro-industria, arredamento e abbigliamento, ma anche l’automotive (grandi apprezzamenti per il rilancio dell’Alfa Romeo, con la nuova Giulia), la chimica, la gomma, la plastica, il farmaceutico, la meccatronica e la domotica, etc. Dunque, è necessario fare crescere la nostra industria di qualità. Più Italia nel mondo. E più mondo in Italia (Expo e dopo Expo possono ben aiutare).

I dati sul Pil dicono che siano in ripresa, pur debole e fragile. E cresce, anche se timidamente, la fiducia di imprese e consumatori. Sono condizioni da valorizzare, dopo una lunghissima e deprimente stagione di crisi. Ma anche da rafforzare. Vale la pena dare ascolto alle indicazioni di Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria, al recente convegno dei Cavalieri del Lavoro, sabato, a Milano: “L’andamento declinante della nostra economia si è interrotto quest’anno con un piccolo ma significativo incremento nell’andamento del Pil. Ma questi decimali di punto non diventeranno più robusti se non vi saranno interventi incisivi in termini di una vera policy per l’ industria”, oltre alle riforme per modernizzare il sistema Paese, troppo a lungo rinviate e ancora troppo timidamente avviate, per avere risultati stabili ci vuole una visione di politica industriale, delle regole moderne che favoriscano gli investimenti e politiche con strumenti affidabili e di cui si possano misurare i risultati nel tempo, correggendo gli errori”. Si torna dunque a parlare, dopo anni, di politica industriale, sia in Italia che a livello europeo. Con una netta modifica rispetto al passato. Non più contributi, incentivi, sostegni settoriali. Ma la costruzione di un ambiente favorevole alle imprese, alla crescita, agli investimenti interni e internazionali. Come? Puntando su innovazione, ricerca, formazione, semplificazione amministrativa, efficienza di fisco e giustizia civile, regole efficaci per aumentare la concorrenza, infrastrutture (la banda larga). Una miscela virtuosa, appunto, di riforme e “policy per l’industria”. In Italia, come abbiamo visto dai dati di Symbola, c’è un patrimonio di imprenditorialità e una grande forza delle imprese. Una leva essenziale, per lo sviluppo. Da usare bene. Un compito per la buona politica, no?

L’evocazione è letteraria: “Orgoglio e pregiudizio”. Ma l’indicazione programmatica è molto concreta: “Perché l’Italia deve fare l’Italia”. Il luogo è Treia, un bellissimo borgo sulle colline di Macerata (ambiente naturale ben conservato, cultura diffusa, agricoltura efficiente, industria manifatturiera di qualità: a due passi, nella piana di Tolentino, ci sono anche gli stabilimenti di Poltrona Frau, un’eccellenza internazionale del made in Italy). L’occasione, nello scorso fine settimana, è il XIII Seminario Estivo di Symbola, la dinamica associazione della “soft economy” presieduta da Ermete Realacci. Nella sala del Teatro Comunale, ministri, politici, imprenditori e manager, economisti, uomini e donne di cultura e di scienza. L’orgoglio è quello del “bello e ben fatto”. Il pregiudizio è una convinzione diffusa d’essere di fronte all’irreversibile declino dell’Italia. Tutt’altro, si è detto e documentato. Quel pregiudizio è da sfatare. I dati del “Rapporto Italia – Geografie del nuovo made in Italy” (realizzato da Symbola con Unioncamere e Fondazione Edison) testimoniano infatti che ci sono quasi mille prodotti “da podio mondiale nell’export”, con un saldo commerciale attivo da record, punto di forza di un Paese che è i primi cinque al mondo a vantare un surplus manifatturiero superiore ai 100 miliardi di dollari (in buona compagnia con Cina, Germania, Giappone e Corea). E secondo un sondaggio Ipsos, circa l’80% degli americani e dei cinesi associa al made in Italy un valore positivo”. C’è una domanda mondiale di qualità italiana da soddisfare. Ed eccole, dunque, le eccellenze su cui puntare: la nostra manifattura, nelle “4A” di automazione industriale, agro-industria, arredamento e abbigliamento, ma anche l’automotive (grandi apprezzamenti per il rilancio dell’Alfa Romeo, con la nuova Giulia), la chimica, la gomma, la plastica, il farmaceutico, la meccatronica e la domotica, etc. Dunque, è necessario fare crescere la nostra industria di qualità. Più Italia nel mondo. E più mondo in Italia (Expo e dopo Expo possono ben aiutare).

I dati sul Pil dicono che siano in ripresa, pur debole e fragile. E cresce, anche se timidamente, la fiducia di imprese e consumatori. Sono condizioni da valorizzare, dopo una lunghissima e deprimente stagione di crisi. Ma anche da rafforzare. Vale la pena dare ascolto alle indicazioni di Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria, al recente convegno dei Cavalieri del Lavoro, sabato, a Milano: “L’andamento declinante della nostra economia si è interrotto quest’anno con un piccolo ma significativo incremento nell’andamento del Pil. Ma questi decimali di punto non diventeranno più robusti se non vi saranno interventi incisivi in termini di una vera policy per l’ industria”, oltre alle riforme per modernizzare il sistema Paese, troppo a lungo rinviate e ancora troppo timidamente avviate, per avere risultati stabili ci vuole una visione di politica industriale, delle regole moderne che favoriscano gli investimenti e politiche con strumenti affidabili e di cui si possano misurare i risultati nel tempo, correggendo gli errori”. Si torna dunque a parlare, dopo anni, di politica industriale, sia in Italia che a livello europeo. Con una netta modifica rispetto al passato. Non più contributi, incentivi, sostegni settoriali. Ma la costruzione di un ambiente favorevole alle imprese, alla crescita, agli investimenti interni e internazionali. Come? Puntando su innovazione, ricerca, formazione, semplificazione amministrativa, efficienza di fisco e giustizia civile, regole efficaci per aumentare la concorrenza, infrastrutture (la banda larga). Una miscela virtuosa, appunto, di riforme e “policy per l’industria”. In Italia, come abbiamo visto dai dati di Symbola, c’è un patrimonio di imprenditorialità e una grande forza delle imprese. Una leva essenziale, per lo sviluppo. Da usare bene. Un compito per la buona politica, no?

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