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“Utopia pragmatica e umanistica”, la lezione ancora attuale di Mendini

Empatie. Un viaggio da Proust a Cattelan”. E’ questo il titolo della mostra di Alessandro Mendini, uno dei più grandi designer italiani (accanto a Magistretti e ai fratelli Mari, a Sottsass e a Munari, a Gio Ponti e a Castiglioni), che s’è aperta ai primi di dicembre al Centro Saint-Bénin ad Aosta e durerà sino al 26 aprile. Realizzata dall’Assessorato alla Cultura della Val d’Aosta e curata da Alberto Fiz, espone 80 opere tra dipinti, disegni, progetti, sculture, mobili e oggetti d’arredamento creati dall’inizio degli anni 70 a oggi e pensati “in dialogo” con grandi esponenti della letteratura, dell’arte e del design.

E’ una presenza importante anche nella storia della cultura Pirelli, quella di Mendini. Sue, infatti, le illustrazioni di parecchie campagne pubblicitarie, tra il 1957 e il 1962, e molte immagini per la Rivista “Pirelli”, con quei disegni leggeri e ironici, fantasiosi e colorati, capaci, in pochi tratti originali, di raccontare un pneumatico e un materasso di gomma, un impermeabile e una maschera subacquea (gli originali di quei disegni sono custoditi nell’Archivio Storico della Fondazione Pirelli: ecco il link per accedere alla photogallery://goo.gl/OlkX4M ).

Empatie. E utopie. In che senso? “La mia utopia umanistica è pensare che i miei oggetti e le mie architetture possano essere immaginati e progettati così come la natura aveva creato e disegnato i fiori… Ma come posso permettermi questa ambizione? … Faccio così, anche se so che non riuscirò. Ma è questa una mia tensione, un mio destino, una mia testimonianza. Una mia utopia”. Le parole di Mendini sull’ ”utopia umanistica” stanno nel catalogo della mostra di Aosta. E danno bene il senso di una creatività che è ancora oggi vivace e vitale.

Milanese di colte radici borghesi, Mendini (la casa di famiglia era stata progettata dall’architetto Portaluppi) aveva cominciato a lavorare nell’Italia aperta, curiosa e creativa degli anni Cinquanta e Sessanta, la stagione del boom economico, dell’industria, dell’irrompere sulla scena di nuovi modelli di consumi e costumi. E il design è stato anche per lui un approdo felice, come anche i suoi disegni pubblicitari e i suoi oggetti dimostrano. Un’attitudine costante nel tempo. La rassegna di Aosta ne offre esemplari testimonianze. Tre, soprattutto: la celebre “Poltrona di Proust”, dipinta a mano, ironicamente “barocca”, la caffettiera Moka lunga lunga e coloratissima (esposta per la prima volta alla Biennale di Venezia del 1980) e “Anna G.” e “Alessandro M.”, i due cavatappi antropomorfi creati per Alessi, oramai due icone del migliore design italiano del Novecento. Anche negli anni Settanta della crisi e negli Ottanta della ripresa e dell’euforia, Mendini non smarrisce la strada della fantasia e dell’ironia. Progetta. E àncora il suo lavoro alla concretezza dell’esecuzione, appunto da sapiente designer. La direzione di riviste come “Modo” e soprattutto “Domus” (dal 1979 al 1985) lo aiuta sia a esplorare nuovi orizzonti sia a tenere i pieni ben saldi nella cultura del progetto e in quella del prodotto. Suggestioni artistiche e buona cultura d’impresa si saldano in una sintesi che ha ancora oggi molto da dire.

“Utopia pragmatica”, è la sua, oltre che “umanistica”, per “la capacità di raggiungere realmente un obiettivo pratico”, la definizione di un oggetto che abbia funzioni, utilità, servizio, che incida non solo sulla fantasia delle persone, ma anche e soprattutto sulla loro vita quotidiana, stabilendo però un forte rapporto con l’immaginazione.

Spiega Mendini: “Le definizioni del design oscillano tra due limiti estremi, come il moto di un pendolo. A un estremo c’è ‘l’utopia pragmatica’ del design inteso esclusivamente nella sua funzione, come freddo strumento d’uso. All’altro estremo c’è ‘l’utopia umanistica’ del design inteso come espressione poetica, come sentimento, addirittura come arte. Tecnologia contro emozione? Prodotto elettronico contro oggetto fatto a mano? Industria contro artigianato? In realtà il percorso avanti e indietro del pendolo dà luogo a infinite interpretazioni del design e a infiniti atteggiamenti e professioni. E così gli utenti che comprano gli oggetti possono scegliere tra infinite possibilità, secondo le loro ‘utopie personali’, le loro esigenze, il loro carattere, la loro attitudine razionale oppure romantica”.

C’è ancora una lezione di Mendini da non dimenticare: quella della semplicità: “L’emozione che un oggetto può contenere è inversamente proporzionale alla complessità del suo uso. Più l’oggetto è complesso, meno conterrà la libera e antica espressione dello spirito. Per esempio, tutta l’estetica del design informatico è giustamente concentrata nella sua funzionalità, limitata al progetto grafico. E all’opposto più l’oggetto è elementare e semplice, meno vincoli avrà l’estetica della sua forma. Un vaso è come un fiore tra i fiori. L’obiettivo della sua esistenza è proprio la ricerca della sua bellezza artistica”. Dunque, “in questo caso il design parte dalla forma invece che dalla funzione perché il suo obiettivo è quello di provocare emozione e la sua utopia è tutta simbolica. E allora in questi due punti limite del moto del pendolo, in questa dialettica tra ‘utopia tecnologica’ e ‘utopia poetica’ si concentra oggi la principale discussione tra noi designer. E, a pensarci bene, in questa dialettica è contenuto il futuro dell’umanità”.

Empatie. Un viaggio da Proust a Cattelan”. E’ questo il titolo della mostra di Alessandro Mendini, uno dei più grandi designer italiani (accanto a Magistretti e ai fratelli Mari, a Sottsass e a Munari, a Gio Ponti e a Castiglioni), che s’è aperta ai primi di dicembre al Centro Saint-Bénin ad Aosta e durerà sino al 26 aprile. Realizzata dall’Assessorato alla Cultura della Val d’Aosta e curata da Alberto Fiz, espone 80 opere tra dipinti, disegni, progetti, sculture, mobili e oggetti d’arredamento creati dall’inizio degli anni 70 a oggi e pensati “in dialogo” con grandi esponenti della letteratura, dell’arte e del design.

E’ una presenza importante anche nella storia della cultura Pirelli, quella di Mendini. Sue, infatti, le illustrazioni di parecchie campagne pubblicitarie, tra il 1957 e il 1962, e molte immagini per la Rivista “Pirelli”, con quei disegni leggeri e ironici, fantasiosi e colorati, capaci, in pochi tratti originali, di raccontare un pneumatico e un materasso di gomma, un impermeabile e una maschera subacquea (gli originali di quei disegni sono custoditi nell’Archivio Storico della Fondazione Pirelli: ecco il link per accedere alla photogallery://goo.gl/OlkX4M ).

Empatie. E utopie. In che senso? “La mia utopia umanistica è pensare che i miei oggetti e le mie architetture possano essere immaginati e progettati così come la natura aveva creato e disegnato i fiori… Ma come posso permettermi questa ambizione? … Faccio così, anche se so che non riuscirò. Ma è questa una mia tensione, un mio destino, una mia testimonianza. Una mia utopia”. Le parole di Mendini sull’ ”utopia umanistica” stanno nel catalogo della mostra di Aosta. E danno bene il senso di una creatività che è ancora oggi vivace e vitale.

Milanese di colte radici borghesi, Mendini (la casa di famiglia era stata progettata dall’architetto Portaluppi) aveva cominciato a lavorare nell’Italia aperta, curiosa e creativa degli anni Cinquanta e Sessanta, la stagione del boom economico, dell’industria, dell’irrompere sulla scena di nuovi modelli di consumi e costumi. E il design è stato anche per lui un approdo felice, come anche i suoi disegni pubblicitari e i suoi oggetti dimostrano. Un’attitudine costante nel tempo. La rassegna di Aosta ne offre esemplari testimonianze. Tre, soprattutto: la celebre “Poltrona di Proust”, dipinta a mano, ironicamente “barocca”, la caffettiera Moka lunga lunga e coloratissima (esposta per la prima volta alla Biennale di Venezia del 1980) e “Anna G.” e “Alessandro M.”, i due cavatappi antropomorfi creati per Alessi, oramai due icone del migliore design italiano del Novecento. Anche negli anni Settanta della crisi e negli Ottanta della ripresa e dell’euforia, Mendini non smarrisce la strada della fantasia e dell’ironia. Progetta. E àncora il suo lavoro alla concretezza dell’esecuzione, appunto da sapiente designer. La direzione di riviste come “Modo” e soprattutto “Domus” (dal 1979 al 1985) lo aiuta sia a esplorare nuovi orizzonti sia a tenere i pieni ben saldi nella cultura del progetto e in quella del prodotto. Suggestioni artistiche e buona cultura d’impresa si saldano in una sintesi che ha ancora oggi molto da dire.

“Utopia pragmatica”, è la sua, oltre che “umanistica”, per “la capacità di raggiungere realmente un obiettivo pratico”, la definizione di un oggetto che abbia funzioni, utilità, servizio, che incida non solo sulla fantasia delle persone, ma anche e soprattutto sulla loro vita quotidiana, stabilendo però un forte rapporto con l’immaginazione.

Spiega Mendini: “Le definizioni del design oscillano tra due limiti estremi, come il moto di un pendolo. A un estremo c’è ‘l’utopia pragmatica’ del design inteso esclusivamente nella sua funzione, come freddo strumento d’uso. All’altro estremo c’è ‘l’utopia umanistica’ del design inteso come espressione poetica, come sentimento, addirittura come arte. Tecnologia contro emozione? Prodotto elettronico contro oggetto fatto a mano? Industria contro artigianato? In realtà il percorso avanti e indietro del pendolo dà luogo a infinite interpretazioni del design e a infiniti atteggiamenti e professioni. E così gli utenti che comprano gli oggetti possono scegliere tra infinite possibilità, secondo le loro ‘utopie personali’, le loro esigenze, il loro carattere, la loro attitudine razionale oppure romantica”.

C’è ancora una lezione di Mendini da non dimenticare: quella della semplicità: “L’emozione che un oggetto può contenere è inversamente proporzionale alla complessità del suo uso. Più l’oggetto è complesso, meno conterrà la libera e antica espressione dello spirito. Per esempio, tutta l’estetica del design informatico è giustamente concentrata nella sua funzionalità, limitata al progetto grafico. E all’opposto più l’oggetto è elementare e semplice, meno vincoli avrà l’estetica della sua forma. Un vaso è come un fiore tra i fiori. L’obiettivo della sua esistenza è proprio la ricerca della sua bellezza artistica”. Dunque, “in questo caso il design parte dalla forma invece che dalla funzione perché il suo obiettivo è quello di provocare emozione e la sua utopia è tutta simbolica. E allora in questi due punti limite del moto del pendolo, in questa dialettica tra ‘utopia tecnologica’ e ‘utopia poetica’ si concentra oggi la principale discussione tra noi designer. E, a pensarci bene, in questa dialettica è contenuto il futuro dell’umanità”.

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