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L’Italia nella morsa dei giovani che non trovano lavoro e d’un governo che continua a fare scelte contro le imprese

L’Italia della torrida estate 2019 è lacerata, ancora una volta, da profonde contraddizioni. Tra un’economia stagnante, a crescita zero o poco più (a dispetto delle previsioni del premier Giuseppe Conte che ancora pochi mesi fa preannunciava “un anno bellissimo” e dell’ex ministro Paolo Savona che proclamava una crescita del 2% ) e un “Decreto Crescita” che promette vaghezze ma in concreto paralizza ancora di più il paese e suscita critiche sia di Confindustria che dei sindacati. Tra un governo che si muove pesantemente contro le imprese (gli attacchi del vicepremier Di Maio contro Atlantia-Autostrade, giudicata “decotta” a mercati aperti e all’Ilva sono solo l’ultima testimonianza, che suscita comunque una dura replica del presidente di Assolombarda Carlo Bonomi: “Le aziende non possono più subire ricatti da chi governa” e del presidente di Confindustria Vicenza Luciano Vescovi: “Dal governo una gestione disastrosa della politica industriale”)) e il bisogno di fare crescere gli investimenti internazionali per risollevare l’economia: c’è un’Italia bipolare degli investimenti, “il Paese reale attira i capitali esteri, ma la politica può spaventarli”, secondo Ferruccio de Bortoli sul “Corriere Economia”, 1 luglio. Corrado Passera. Tra un Nord che, anche in tempi di crisi, fa passi avanti verso una sempre più evidente integrazione con il cuore forte dell’Europa (la vittoria per le Olimpiadi invernali di Milano e Cortina ne è solo l’ultimo esempio) e un Sud che invece arranca tra povertà crescenti, lavoro nero, illusioni sul reddito di cittadinanza e vincoli di vecchie e nuove clientele.

C’è una contraddizione ancora più drammatica, perché condiziona negativamente il futuro del Paese: tra una condizione giovanile di lavoro insufficiente e precario e una ricerca delle imprese che offrono occupazione qualificata ma non trovano più di 200mila persone che vogliano o siano in grado di rispondere. E, ancora peggio, tra giovani che si sono arresi, non studiano né lavorano e altri giovani che fuggono dall’Italia e, soprattutto, dal Sud, per cercare all’estero nuove e migliori condizioni di lavoro e di vita.

Ci sono dati recenti che rilanciano proprio questa drammatica situazione delle nuove generazioni. L’Eurostat, il 28 giugno, ha diffuso le statistiche sui neet (la sigla sta per noi in employment education or training), assegnando all’Italia il record negativo della Ue: il 28,9% dei giovani tra i 20 e i 34 anni non studia né lavora. Un po’ più di uno su quattro. Un disastro sociale (ne avevamo già fatto cenno nel blog della scorsa settimana, a proposito del libro di Niccolò Zancan intitolato appunto “Uno su quattro – Storie di ragazzi senza studio né lavoro”, Laterza). E’ il dato peggiore in Europa, quasi il doppio della media europea: il 16,5% della Ue, il 17,2% dell’eurozona. Prima di noi, viene la Grecia, con il 26,8%. I “grandi” europei, la Francia e la Germania, quanto mai distanti. I dati Eurostat dicono che, in Italia, va un po’ meglio dell’anno scorso, quando i neet erano il 29,5%. Ma quel lievissimo miglioramento statistico non indica affatto un’inversione di tendenza d’un fenomeno gravissimo che matura da tempo e che avrebbe bisogno di forti investimenti pubblici e privati in formazione, processi culturali e sociali inclusivi, ricostruzione di un clima di fiducia generale nelle possibilità d’un futuro migliore. Tutto il contrario dell’anti-industrialismo e dell’assistenzialismo da spesa pubblica di sussistenza tanto amati dal governo.

I giovani sfiduciati. E i “cervelli in fuga”. “I giovani invisibili, cittadini di seconda classe”, scrive Ferruccio de Bortoli sul “Corriere della Sera”, commentando i dati della Banca d’Italia, secondo cui nel 2018 sono andati all’estero 120mila italiani, aggravando un fenomeno migratorio già noto e sempre più allarmante (ne abbiamo parlato altre volte proprio su queste pagine). Moltissimi, appunto, i giovani, in tanti con un ottimo titolo di studio, grande intraprendenza, ambiziosa determinatezza.

I dati del Sud sono ben peggiori della media nazionale: nel decennio 2007-2017, sempre secondo la Banca d’Italia, il Mezzogiorno ha registrato un deflusso netto verso le altre regioni di 480mila persone (equivalenti più o meno alla metà degli abitanti di Palermo). 193mila i laureati (165mila se ne sono andati nelle regioni del Nord, in cerca di migliori condizioni di lavoro e di vita).

Nello stesso periodo dal Nord sono andati via, all’estero 300mila italiani, di cui 69mila laureati. Fatte le somme, anche Milano e Torino, Brescia, Verona e Bologna perdono intelligenze e competenze, ottimo capitale umano. Ma soprattutto Milano resta comunque forte per il crescente arrivo di ragazzi dal Sud (il 28% dei laureati in Ingegneria non viene dalla Lombardia e la percentuale sale al 62,5% per i laureati in Medicina: lo documenta il Cineca, il Consorzio degli atenei che tiene l’anagrafe degli studenti universitari).

Ancora un dato: per attrattività dei talenti, l’Italia è quart’ultima tra i Paesi Ocse, prima di Grecia, Turchia e Messico, per i lavoratori altamente specializzati, con master o dottorati.

L’Italia, insomma, continua a bruciare le sue risorse migliori, le intelligenze, la cultura e la volontà di cambiamento dei suoi giovani e dunque la nostra economia è piatta, stagnante, con crescenti disparità territoriali e generazionali.

Chi governa, non se ne occupa adeguatamente: distribuisce pensioni e redditi di cittadinanza, condoni e sussidi ma nulla fa per garantire ai ragazzi un destino migliore. Diventiamo un paese di vecchi (tra 25 anni un italiano su tre sarà over 65). Ma non ci sono scelte di politica fiscale, industriale e sociale che investano sull’innovazione, la ricerca, la formazione, il lavoro, la valorizzazione del capitale sociale e culturale. II ricambio generazionale è carente, l’ascensore sociale bloccato. Un po’ in tutta Italia. Nel Mezzogiorno più e peggio che altrove.

L’unico ascensore che funziona, pur condizionato dai guasti del sistema Paese e dalla scadente produttività della Pubblica Amministrazione, è quello delle imprese: per potere competere su mercati esigenti e selettivi, hanno bisogno di assumere, fare crescere e valorizzare persone brave, a prescindere da vincoli familiari, razziali, religiosi, culturali. Le imprese competitive sono responsabili e inclusive, tengono in piedi l’economia e la socialità italiana. Proprio quelle imprese contro cui, giorno dopo giorno, si muove il governo più anti-industriale della storia italiana.

L’Italia della torrida estate 2019 è lacerata, ancora una volta, da profonde contraddizioni. Tra un’economia stagnante, a crescita zero o poco più (a dispetto delle previsioni del premier Giuseppe Conte che ancora pochi mesi fa preannunciava “un anno bellissimo” e dell’ex ministro Paolo Savona che proclamava una crescita del 2% ) e un “Decreto Crescita” che promette vaghezze ma in concreto paralizza ancora di più il paese e suscita critiche sia di Confindustria che dei sindacati. Tra un governo che si muove pesantemente contro le imprese (gli attacchi del vicepremier Di Maio contro Atlantia-Autostrade, giudicata “decotta” a mercati aperti e all’Ilva sono solo l’ultima testimonianza, che suscita comunque una dura replica del presidente di Assolombarda Carlo Bonomi: “Le aziende non possono più subire ricatti da chi governa” e del presidente di Confindustria Vicenza Luciano Vescovi: “Dal governo una gestione disastrosa della politica industriale”)) e il bisogno di fare crescere gli investimenti internazionali per risollevare l’economia: c’è un’Italia bipolare degli investimenti, “il Paese reale attira i capitali esteri, ma la politica può spaventarli”, secondo Ferruccio de Bortoli sul “Corriere Economia”, 1 luglio. Corrado Passera. Tra un Nord che, anche in tempi di crisi, fa passi avanti verso una sempre più evidente integrazione con il cuore forte dell’Europa (la vittoria per le Olimpiadi invernali di Milano e Cortina ne è solo l’ultimo esempio) e un Sud che invece arranca tra povertà crescenti, lavoro nero, illusioni sul reddito di cittadinanza e vincoli di vecchie e nuove clientele.

C’è una contraddizione ancora più drammatica, perché condiziona negativamente il futuro del Paese: tra una condizione giovanile di lavoro insufficiente e precario e una ricerca delle imprese che offrono occupazione qualificata ma non trovano più di 200mila persone che vogliano o siano in grado di rispondere. E, ancora peggio, tra giovani che si sono arresi, non studiano né lavorano e altri giovani che fuggono dall’Italia e, soprattutto, dal Sud, per cercare all’estero nuove e migliori condizioni di lavoro e di vita.

Ci sono dati recenti che rilanciano proprio questa drammatica situazione delle nuove generazioni. L’Eurostat, il 28 giugno, ha diffuso le statistiche sui neet (la sigla sta per noi in employment education or training), assegnando all’Italia il record negativo della Ue: il 28,9% dei giovani tra i 20 e i 34 anni non studia né lavora. Un po’ più di uno su quattro. Un disastro sociale (ne avevamo già fatto cenno nel blog della scorsa settimana, a proposito del libro di Niccolò Zancan intitolato appunto “Uno su quattro – Storie di ragazzi senza studio né lavoro”, Laterza). E’ il dato peggiore in Europa, quasi il doppio della media europea: il 16,5% della Ue, il 17,2% dell’eurozona. Prima di noi, viene la Grecia, con il 26,8%. I “grandi” europei, la Francia e la Germania, quanto mai distanti. I dati Eurostat dicono che, in Italia, va un po’ meglio dell’anno scorso, quando i neet erano il 29,5%. Ma quel lievissimo miglioramento statistico non indica affatto un’inversione di tendenza d’un fenomeno gravissimo che matura da tempo e che avrebbe bisogno di forti investimenti pubblici e privati in formazione, processi culturali e sociali inclusivi, ricostruzione di un clima di fiducia generale nelle possibilità d’un futuro migliore. Tutto il contrario dell’anti-industrialismo e dell’assistenzialismo da spesa pubblica di sussistenza tanto amati dal governo.

I giovani sfiduciati. E i “cervelli in fuga”. “I giovani invisibili, cittadini di seconda classe”, scrive Ferruccio de Bortoli sul “Corriere della Sera”, commentando i dati della Banca d’Italia, secondo cui nel 2018 sono andati all’estero 120mila italiani, aggravando un fenomeno migratorio già noto e sempre più allarmante (ne abbiamo parlato altre volte proprio su queste pagine). Moltissimi, appunto, i giovani, in tanti con un ottimo titolo di studio, grande intraprendenza, ambiziosa determinatezza.

I dati del Sud sono ben peggiori della media nazionale: nel decennio 2007-2017, sempre secondo la Banca d’Italia, il Mezzogiorno ha registrato un deflusso netto verso le altre regioni di 480mila persone (equivalenti più o meno alla metà degli abitanti di Palermo). 193mila i laureati (165mila se ne sono andati nelle regioni del Nord, in cerca di migliori condizioni di lavoro e di vita).

Nello stesso periodo dal Nord sono andati via, all’estero 300mila italiani, di cui 69mila laureati. Fatte le somme, anche Milano e Torino, Brescia, Verona e Bologna perdono intelligenze e competenze, ottimo capitale umano. Ma soprattutto Milano resta comunque forte per il crescente arrivo di ragazzi dal Sud (il 28% dei laureati in Ingegneria non viene dalla Lombardia e la percentuale sale al 62,5% per i laureati in Medicina: lo documenta il Cineca, il Consorzio degli atenei che tiene l’anagrafe degli studenti universitari).

Ancora un dato: per attrattività dei talenti, l’Italia è quart’ultima tra i Paesi Ocse, prima di Grecia, Turchia e Messico, per i lavoratori altamente specializzati, con master o dottorati.

L’Italia, insomma, continua a bruciare le sue risorse migliori, le intelligenze, la cultura e la volontà di cambiamento dei suoi giovani e dunque la nostra economia è piatta, stagnante, con crescenti disparità territoriali e generazionali.

Chi governa, non se ne occupa adeguatamente: distribuisce pensioni e redditi di cittadinanza, condoni e sussidi ma nulla fa per garantire ai ragazzi un destino migliore. Diventiamo un paese di vecchi (tra 25 anni un italiano su tre sarà over 65). Ma non ci sono scelte di politica fiscale, industriale e sociale che investano sull’innovazione, la ricerca, la formazione, il lavoro, la valorizzazione del capitale sociale e culturale. II ricambio generazionale è carente, l’ascensore sociale bloccato. Un po’ in tutta Italia. Nel Mezzogiorno più e peggio che altrove.

L’unico ascensore che funziona, pur condizionato dai guasti del sistema Paese e dalla scadente produttività della Pubblica Amministrazione, è quello delle imprese: per potere competere su mercati esigenti e selettivi, hanno bisogno di assumere, fare crescere e valorizzare persone brave, a prescindere da vincoli familiari, razziali, religiosi, culturali. Le imprese competitive sono responsabili e inclusive, tengono in piedi l’economia e la socialità italiana. Proprio quelle imprese contro cui, giorno dopo giorno, si muove il governo più anti-industriale della storia italiana.

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