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Il Papa e l’etica d’impresa su “lavoro e genio creativo” e l’impegno dell’industria sullo sviluppo sostenibile

“Lavoro e genio creativo per un nuovo ordine economico”, ha detto di recente Papa Francesco (intervista a “Il Sole24Ore”, 7 settembre). Sono indicazioni importanti. Riprendono i temi della sua enciclica “Laudato si’” sulla “cura della casa comune”, per lavoro e dignità, persona, sviluppo e giustizia sociale e della “Evangelii Gaudium” (“La vocazione di un imprenditore è un nobile lavoro, sempre che si lasci interrogare da un significato più ampio della vita”, nel contesto di una ‘economia giusta’ che sappia andare oltre ‘il feticismo del denaro’”). E rilanciano in modo nuovo i grandi temi del rapporto tra la Chiesa e l’economia, dalla “Gaudium et spes” di Giovanni XXIII del 1965 alla “Populorum progressio” di Paolo VI del marzo 1967 sino alla “Caritas in veritate” di Benedetto XVI del giugno 2009, sulla grande traccia della “Rerum novarum” di Leone XIII del 1891, le radici della “dottrina sociale” della Chiesa. E nel radicale cambio di paradigma, imposto dalla Grande Crisi esplosa a livello internazionale giusto dieci anni fa su produzioni, consumi, mercati, equilibri economici e sociali, insistono su temi cui è legata ogni prospettiva di migliore sviluppo: la sostenibilità ambientale e sociale delle scelte economiche, la relazione positiva tra impresa e territorio, la centralità dell’economia reale rispetto alla rapacità della finanza speculativa (il “feticismo del denaro”, appunto), la politica economica e le decisioni fondamentali per limitare al massimo squilibri di ricchezza e benessere e garantire invece dignità delle persone e inclusione sociale nella fitta rete d’uno sviluppo migliore.

Le parole del Papa sullo “sviluppo integrale” investono in pieno il mondo dell’impresa in cerca di nuovo senso del proprio agire e di nuova legittimazione sociale. E impongono un reale approfondimento della riflessione sulle ragioni e le finalità dell’impresa stessa.

“Bisogna uscire – ha detto il Papa – dall’economia dello scarto, perché il lavoro crei lavoro e il denaro non sia un idolo”. E ancora: “L’attuale centralità dell’attività finanziaria rispetto all’economia reale non è casuale: dietro a ciò c’è la scelta di qualcuno che pensa, sbagliando, che i soldi si fanno con i soldi. I soldi, quelli veri, si fanno con il lavoro. E’ il lavoro che conferisce la dignità all’uomo, non il denaro”. Né l’assistenzialismo dei sussidi: “I sussidi, quando non legati al preciso obiettivo di ridare lavoro e occupazione, creano dipendenza e deresponsabilizzano”. E’ insomma tempo di considerare che “l’attività economica non riguarda solo il profitto, ma comprende relazioni e significati, non è solo tecnica ma anche etica”.

C’è un’indicazione chiara, di valori e di comportamenti: “Lottiamo tutti insieme perché al centro ci siano la famiglia e le persone, e si possa andare avanti senza perdere la speranza. La distribuzione e la partecipazione alla ricchezza prodotta, l’inserimento dell’azienda in un territorio, la responsabilità sociale, il welfare aziendale, la parità di trattamento salariale tra uomo e donna, la coniugazione tra i tempi di lavoro e i tempi di vita, il rispetto dell’ambiente, il rinascimento dell’importanza dell’uomo rispetto alla macchina e il riconoscimento del giusto salario, la capacità di innovazione sono elementi importanti che tengono viva la dimensione comunitaria di un’azienda. Perseguire uni sviluppo integrale chiede attenzione a tutti questi temi”.

In una frase di sintesi, “agire bene, rispettando la dignità delle persone e perseguendo il bene comune fa bene all’azienda”. E ancora: “L’uomo è  la risorsa più importante di ogni azienda, operando alla costruzione del bene comune, avendo attenzione ai poveri”. E insistendo sulla sua formazione: “Gioverebbe molto all’azienda completare la formazione tecnica con una formazione ai valori: solidarietà, etica, giustizia, dignità, sostenibilità, contenuti che arricchiscono il pensiero e la capacità operativa”.

In sintesi estrema: fare, fare bene, fare del bene.

L’intervista del Papa al quotidiano economico di proprietà della Confindustria continua e approfondisce un dialogo che fa avanti da tempo. E che ha avuto un momento importante di riferimento alla fine di febbraio del 2016 con il “Giubileo dell’industria”, settemila imprenditori italiani riuniti nella grande Sala Nervi del Vaticano per ascoltare le parole di Papa Francesco, sulla reazione tra impresa e carità, innovazione e lavoro, doveri e diritti dell’impresa, importanza del lavoro e del benessere diffuso. “Fare impresa per creare valori”, aveva detto nel seminario di preparazione del Giubileo il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, discutendo di un “ethos comune” su temi come “la giustizia, la libertà, la dignità della persona, la solidarietà, la conoscenza e l’istruzione, la responsabilità e i diritti individuali e sociali, il lavoro, la fede autentica e la morale”. Temi essenziali, da approfondire “liberandoli dagli stereotipi vagamente moraleggianti” e dando loro invece, nuovo senso concreto di vita vissuta, di orizzonti possibili di lavoro comune tra la Chiesa e le imprese.

“Un nuovo contratto sociale da definire insieme”, aveva detto, durante quel Giubileo, l’allora presidente di Confindustria Giorgio Squinzi. “Fare impresa è una vocazione, salverà il mondo dalla povertà”, aveva commentato il filosofo Michael Novak. Il discorso resta aperto. E vale la pena riprenderlo con crescente attenzione. Ragionando appunto su “il valore” e “i valori” e le loro sinergie obbligate. Su una vera e propria “morale del tornio” sempre più diffusa nel mondo dell’impresa, nella manifattura soprattutto. E da continuare a fare vivere nell’impegno imprenditoriale quotidiano. Una sfida culturale e morale, con evidenze economiche di sviluppo equilibrato.

C’è il “valore per gli azionisti” e cioè la redditività, il profitto che premia gli investimenti e l’impegno dinamico dell’imprenditore e permette altri investimenti, crescita, lavoro e benessere diffuso (anche grazie al prelievo fiscale sulla ricchezza creata). E ci sono i valori su cui si fonda l’impresa e ne stimolano lo sviluppo e il successo (l’intraprendenza, la creatività, la ricerca, l’innovazione, la competitività, l’inclusione delle competenze, il miglioramento delle condizioni delle persone, il riconoscimento del merito) e che anche l’impresa deve rispettare (in Italia, secondo l’articolo 41 della Costituzione su “l’iniziativa privata è libera” e “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”). Serve pensare al valore/profitto, per andare avanti. Ma non se ne crea se non in un contesto di adesione convinta e coerente ai valori e a una vera e propria “etica d’impresa”.

La migliore letteratura economica (Stiglitz, Krugman, Fitoussi, ma anche Mario Draghi presidente della Bce e tanti altri) insiste da tempo sulla necessità di una migliore qualità dello sviluppo, che punti su qualità della vita e del lavoro, ambiente, cura delle comunità, economia “circolare” ed “economia civile” (riprendendo proprio la lezione di un economista italiano del Settecento, Antonio Genovesi, uno dei maestri dello stesso Adam Smith, padre della scienza economica liberale): una condivisione degli orizzonti di crescita e una competitività memore delle proprio stesse origini (“cum” e “petere”, andare insieme verso obiettivi comuni). E sono parecchie le imprese che, sulla base di una scelta sostanziale di sostenibilità delle prospettive di sviluppo, considerano la responsabilità sociale come cardine della propria capacità competitiva in Italia e all’estero: la “fabbrica bella” e cioè ben progettata, luminosa, trasparente, sicura, con basso impatto ambientale e ridottissimo consumo energetico comunque da fonti rinnovabili è oramai sempre più diffusa sui territori italiani (Pirelli, Lavazza e L’Oreal a Settimo Torinese, Zambon a Bresso e Vicenza, Ge Avio a Cameri, Loccioni nelle Marche e ancora Maserati, Tod’s, Siemens, sino al borso tessile di Solomeo in Umbria, ristrutturato da Brunello Cucinelli, un’eccellenza dell’industria tessile e tante altre imprese ancora).

Nel “cambio di paradigma” verso la qualità dello sviluppo e la crescita equilibrata, le imprese hanno fatto grandi passi avanti, nonostante tutti i vincoli del sistema Paese. Polemiche sterili, quelle sulla presunta “arretratezza del capitalismo italiano”, fondate su una scarsa conoscenza del nostro apparato produttivo diffuso. Importante, semmai, è continuare a fare leva sulla qualità, per fare crescere meglio le imprese e il Paese. Facendo tesoro anche delle parole del Papa su “lavoro e genio creativo”.

“Lavoro e genio creativo per un nuovo ordine economico”, ha detto di recente Papa Francesco (intervista a “Il Sole24Ore”, 7 settembre). Sono indicazioni importanti. Riprendono i temi della sua enciclica “Laudato si’” sulla “cura della casa comune”, per lavoro e dignità, persona, sviluppo e giustizia sociale e della “Evangelii Gaudium” (“La vocazione di un imprenditore è un nobile lavoro, sempre che si lasci interrogare da un significato più ampio della vita”, nel contesto di una ‘economia giusta’ che sappia andare oltre ‘il feticismo del denaro’”). E rilanciano in modo nuovo i grandi temi del rapporto tra la Chiesa e l’economia, dalla “Gaudium et spes” di Giovanni XXIII del 1965 alla “Populorum progressio” di Paolo VI del marzo 1967 sino alla “Caritas in veritate” di Benedetto XVI del giugno 2009, sulla grande traccia della “Rerum novarum” di Leone XIII del 1891, le radici della “dottrina sociale” della Chiesa. E nel radicale cambio di paradigma, imposto dalla Grande Crisi esplosa a livello internazionale giusto dieci anni fa su produzioni, consumi, mercati, equilibri economici e sociali, insistono su temi cui è legata ogni prospettiva di migliore sviluppo: la sostenibilità ambientale e sociale delle scelte economiche, la relazione positiva tra impresa e territorio, la centralità dell’economia reale rispetto alla rapacità della finanza speculativa (il “feticismo del denaro”, appunto), la politica economica e le decisioni fondamentali per limitare al massimo squilibri di ricchezza e benessere e garantire invece dignità delle persone e inclusione sociale nella fitta rete d’uno sviluppo migliore.

Le parole del Papa sullo “sviluppo integrale” investono in pieno il mondo dell’impresa in cerca di nuovo senso del proprio agire e di nuova legittimazione sociale. E impongono un reale approfondimento della riflessione sulle ragioni e le finalità dell’impresa stessa.

“Bisogna uscire – ha detto il Papa – dall’economia dello scarto, perché il lavoro crei lavoro e il denaro non sia un idolo”. E ancora: “L’attuale centralità dell’attività finanziaria rispetto all’economia reale non è casuale: dietro a ciò c’è la scelta di qualcuno che pensa, sbagliando, che i soldi si fanno con i soldi. I soldi, quelli veri, si fanno con il lavoro. E’ il lavoro che conferisce la dignità all’uomo, non il denaro”. Né l’assistenzialismo dei sussidi: “I sussidi, quando non legati al preciso obiettivo di ridare lavoro e occupazione, creano dipendenza e deresponsabilizzano”. E’ insomma tempo di considerare che “l’attività economica non riguarda solo il profitto, ma comprende relazioni e significati, non è solo tecnica ma anche etica”.

C’è un’indicazione chiara, di valori e di comportamenti: “Lottiamo tutti insieme perché al centro ci siano la famiglia e le persone, e si possa andare avanti senza perdere la speranza. La distribuzione e la partecipazione alla ricchezza prodotta, l’inserimento dell’azienda in un territorio, la responsabilità sociale, il welfare aziendale, la parità di trattamento salariale tra uomo e donna, la coniugazione tra i tempi di lavoro e i tempi di vita, il rispetto dell’ambiente, il rinascimento dell’importanza dell’uomo rispetto alla macchina e il riconoscimento del giusto salario, la capacità di innovazione sono elementi importanti che tengono viva la dimensione comunitaria di un’azienda. Perseguire uni sviluppo integrale chiede attenzione a tutti questi temi”.

In una frase di sintesi, “agire bene, rispettando la dignità delle persone e perseguendo il bene comune fa bene all’azienda”. E ancora: “L’uomo è  la risorsa più importante di ogni azienda, operando alla costruzione del bene comune, avendo attenzione ai poveri”. E insistendo sulla sua formazione: “Gioverebbe molto all’azienda completare la formazione tecnica con una formazione ai valori: solidarietà, etica, giustizia, dignità, sostenibilità, contenuti che arricchiscono il pensiero e la capacità operativa”.

In sintesi estrema: fare, fare bene, fare del bene.

L’intervista del Papa al quotidiano economico di proprietà della Confindustria continua e approfondisce un dialogo che fa avanti da tempo. E che ha avuto un momento importante di riferimento alla fine di febbraio del 2016 con il “Giubileo dell’industria”, settemila imprenditori italiani riuniti nella grande Sala Nervi del Vaticano per ascoltare le parole di Papa Francesco, sulla reazione tra impresa e carità, innovazione e lavoro, doveri e diritti dell’impresa, importanza del lavoro e del benessere diffuso. “Fare impresa per creare valori”, aveva detto nel seminario di preparazione del Giubileo il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, discutendo di un “ethos comune” su temi come “la giustizia, la libertà, la dignità della persona, la solidarietà, la conoscenza e l’istruzione, la responsabilità e i diritti individuali e sociali, il lavoro, la fede autentica e la morale”. Temi essenziali, da approfondire “liberandoli dagli stereotipi vagamente moraleggianti” e dando loro invece, nuovo senso concreto di vita vissuta, di orizzonti possibili di lavoro comune tra la Chiesa e le imprese.

“Un nuovo contratto sociale da definire insieme”, aveva detto, durante quel Giubileo, l’allora presidente di Confindustria Giorgio Squinzi. “Fare impresa è una vocazione, salverà il mondo dalla povertà”, aveva commentato il filosofo Michael Novak. Il discorso resta aperto. E vale la pena riprenderlo con crescente attenzione. Ragionando appunto su “il valore” e “i valori” e le loro sinergie obbligate. Su una vera e propria “morale del tornio” sempre più diffusa nel mondo dell’impresa, nella manifattura soprattutto. E da continuare a fare vivere nell’impegno imprenditoriale quotidiano. Una sfida culturale e morale, con evidenze economiche di sviluppo equilibrato.

C’è il “valore per gli azionisti” e cioè la redditività, il profitto che premia gli investimenti e l’impegno dinamico dell’imprenditore e permette altri investimenti, crescita, lavoro e benessere diffuso (anche grazie al prelievo fiscale sulla ricchezza creata). E ci sono i valori su cui si fonda l’impresa e ne stimolano lo sviluppo e il successo (l’intraprendenza, la creatività, la ricerca, l’innovazione, la competitività, l’inclusione delle competenze, il miglioramento delle condizioni delle persone, il riconoscimento del merito) e che anche l’impresa deve rispettare (in Italia, secondo l’articolo 41 della Costituzione su “l’iniziativa privata è libera” e “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”). Serve pensare al valore/profitto, per andare avanti. Ma non se ne crea se non in un contesto di adesione convinta e coerente ai valori e a una vera e propria “etica d’impresa”.

La migliore letteratura economica (Stiglitz, Krugman, Fitoussi, ma anche Mario Draghi presidente della Bce e tanti altri) insiste da tempo sulla necessità di una migliore qualità dello sviluppo, che punti su qualità della vita e del lavoro, ambiente, cura delle comunità, economia “circolare” ed “economia civile” (riprendendo proprio la lezione di un economista italiano del Settecento, Antonio Genovesi, uno dei maestri dello stesso Adam Smith, padre della scienza economica liberale): una condivisione degli orizzonti di crescita e una competitività memore delle proprio stesse origini (“cum” e “petere”, andare insieme verso obiettivi comuni). E sono parecchie le imprese che, sulla base di una scelta sostanziale di sostenibilità delle prospettive di sviluppo, considerano la responsabilità sociale come cardine della propria capacità competitiva in Italia e all’estero: la “fabbrica bella” e cioè ben progettata, luminosa, trasparente, sicura, con basso impatto ambientale e ridottissimo consumo energetico comunque da fonti rinnovabili è oramai sempre più diffusa sui territori italiani (Pirelli, Lavazza e L’Oreal a Settimo Torinese, Zambon a Bresso e Vicenza, Ge Avio a Cameri, Loccioni nelle Marche e ancora Maserati, Tod’s, Siemens, sino al borso tessile di Solomeo in Umbria, ristrutturato da Brunello Cucinelli, un’eccellenza dell’industria tessile e tante altre imprese ancora).

Nel “cambio di paradigma” verso la qualità dello sviluppo e la crescita equilibrata, le imprese hanno fatto grandi passi avanti, nonostante tutti i vincoli del sistema Paese. Polemiche sterili, quelle sulla presunta “arretratezza del capitalismo italiano”, fondate su una scarsa conoscenza del nostro apparato produttivo diffuso. Importante, semmai, è continuare a fare leva sulla qualità, per fare crescere meglio le imprese e il Paese. Facendo tesoro anche delle parole del Papa su “lavoro e genio creativo”.

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