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Come rimettere in moto la fragile economia italiana e costruire nuove dimensioni di lavoro e solidarietà

L’economia italiana è sempre fragile, cresce poco e male, nonostante la presenza di imprese forti, dinamiche, competitive sui mercati del mondo. Siamo da mesi in recessione e le previsioni per il 2019 vanno dalla crescita zero secondo il Centro Studi Confindustria all’analogo 0,1% stimato da S&P, se non addirittura il -0,5 previsto da LC Macro Advisor, la società di consulenza di Lorenzo Codogno, ex capo economista del ministero dell’Economia e professore alla London School of Economics. Una congiuntura pesantemente negativa, tra crescita piatta e condizione recessiva per tutto il corso dell’anno, smentendo clamorosamente le ottimistiche (e infondate) previsioni del governo Conte. Uno stop grave, insomma, che adesso finalmente comincia a preoccupare anche il ministero dell’Economia, tanto che il ministro Giovanni Tria, al recente Festival dell’economia civile, ha ammesso: “Si va verso la crescita zero… s’è fermata la parte più produttiva dell’Italia” (i partiti giallo-verdi di governo hammo pèerò poco apprezzato questo momento di chiarezza, di sincerità).

Ma siamo di fronte anche a una crisi strutturale, segno di un paese che, negli ultimi vent’anni, non ha saputo costruire un ciclo positivo dello sviluppo e della produttività. In condizioni di crescita delle economie mondiali ed europee arranchiamo, in coda agli altri paesi Ue. In fasi di rallentamento andiamo peggio di tutti e ci ritroviamo, unici in Europa, in recessione. Perché?

Prova a spiegarlo Pierluigi Ciocca, economista tra i più autorevoli, per molti anni direttore della ricerca economica della Banca d’Italia, nelle pagine di “Tornare alla crescita”, Donzelli. Il quadro è drammatico: “L’Italia non produce più di quanto produceva quindici anni fa; la disoccupazione, non solo quella dei giovani, è alta, il lavoro mal pagato, precario; la povertà si estende; il debito pubblico spaventa i mercati; la questione meridionale si è incrudita; la produttività delle imprese ristagna. La cultura, le istituzioni, la politica, la società civile stentano a scuotersi, a fare fronte”. Nel corso degli anni, ricorda Ciocca, non sono state fatte né attuate riforme in grado di superare le fragilità dell’economia. La politica economica non ha affrontato gli squilibri generazionali, sociali, geografici e di reddito. Gli investimenti pubblici e privati ristagnano. L’ordinamento giuridico non ha stimolato la competitività e la crescita. Le imprese si sono a lungo adagiate su cambio debole, prima dell’euro, moderazione salariale, “scandalosa evasione fiscale” e sussidi statali. E adesso, in tempi di radicali cambiamenti economici, tecnologici e di relazioni politiche globali, non reggiamo le nuove ragioni della competitività. Eppure, da una crisi così lunga e profonda, secondo Ciocca, si può ancora uscire: risanare i conti pubblici, investire, puntare su conoscenza e innovazione, cambiare le leggi che ostacolano la concorrenza, rilanciare il Sud: “L’economia va ricostruita, rifondata”.

Serve, insomma, una nuova politica per lo sviluppo. Ben diversa da quella fatta di spesa pubblica assistenziale e blocco delle infrastrutture cui stiamo assistendo. Semmai, vanno stimolate e fatte crescere proprio quelle imprese che nel tempo, nonostante i vincoli del sistema Paese, hanno innovato, investito, esportato, conquistato posizioni di rilievo nelle nicchie ad alto valore aggiunto sui mercati globali. Non sono molte, probabilmente un quarto dell’intero panorama delle imprese italiane. Dunque non potranno fare da motore determinante dello sviluppo, se non in presenza di una ben diversa e migliore politica economica, nel contesto di strategie di sviluppo della Ue.

Un altro modo per affrontare la crisi è insistere sulla “economia civile”, come suggerisce Jeffrey Sachs, direttore di “The Earth Institute” della Columbia University di New York (ne ha parlato la scorsa settimana al festival dedicato appunto all’economia civile, a Firenze): meno diseguaglianze, più fiducia, scelte più chiare di ambientalismo sostenibile, di green economy come vero e proprio fattore di competitività (le imprese italiane sono, su questa dimensione, in prima fila, come documenta anno dopo anno Symbola). E dunque, anche lavorare sulle “Tessiture sociali”, come suggerisce il titolo del libro, edito da Egea e scritto da Aldo Bonomi, sociologo e Francesco Pugliese, amministratore delegato di Conad, vivace struttura cooperativa della grande distruzione. Quattro i termini di riferimento: “La comunità, l’impresa, il mutualismo, la solidarietà”. Sono tempi di sharing economy e dirompenti innovazioni. E in un’Italia fatta non solo di metropoli ma d’una miriade di realtà locali, bisogna impegnarsi per tenere insieme competitività e solidarietà. Il volume raccolta un viaggio in quaranta città, “in luoghi, al crocevia di flussi, nei quali la prossimità territoriale, il radicamento e il fare comunità” emergono come fattori economici e di competitività, tra manifattura, commercio, distribuzione globale e valori del “chilometro 0”. Lo sviluppo italiano è possibile, appunto, solo nel segno della sostenibilità, ambientale e sociale.

Sono sfide culturali, sociali e politiche. Come sostiene da tempo anche Marco Bentivogli, segretario dei metalmeccanici Cisl, e ribadisce nel suo nuovo libro di cui molto si parla, “Contrordine compagni”, un “manuale di resistenza alla tecnofobia per la riscossa del lavoro e dell’Italia”, Rizzoli.

Bentivogli ragiona d’innovazione e nuovi e vecchi mestieri, superamento delle divisioni tra formazione scientifica e umanistica, bisogni popolari cui rispondere senza cedere alle tentazioni populiste né alle chiusure nazionalistiche impaurite. Nessun catastrofismo, insomma, per affrontare le questioni del mercato e le diseguaglianze provocante dalla globalizzazione, nessun timore del futuro. Semmai, un robusto e lungimirante riformismo che affronti i temi della competitività, della sostenibilità, dei nuovi equilibri sociali, della costruzione di originali dimensioni del lavoro.

Insiste Bentivogli (sul “Corriere Innovazione”, 29 marzo): “Fermare il progresso non solo non è possibile, ma è quanto di più pericoloso si possa fare per l’occupazione”. I robot sono nelle aziende da almeno trent’anni, hanno migliorato la qualità del lavoro, ridotto la fatica sulle mansioni più ripetitive, stimolato creatività, innovazione, responsabile partecipazione. Spiega appunto Bentivogli: “Si riducono le mansioni ripetitive, operaie e impiegatizie, ma il lavoro cambia, non muore”. Come? E’ un processo in corso, da continuare a costruire con creatività e senso di responsabilità.

C’è chi, maestro di catastrofismo e seminatore di paure, come lo Studio Casaleggio Associati (la “testa” del Movimento 5Stelle) sostiene che finirà il lavoro nel 2054. “Un’attendibilità simile alle interpretazioni del calendario dei Maya sulla fine del mondo nel 2012”, ironizza Bentivogli. Meglio, semmai, puntare su formazione, politiche del lavoro e uso intelligente del welfare non per distribuire risorse a pioggia come il reddito di cittadinanza caro al M5S ma per fare da ammortizzatore sociale durante i periodi di cambio di lavoro e impegno di studio per nuove qualificazioni. Un atteggiamento responsabile, appunto, di cui anche il sindacato sta dando prove positive. Ottimismo critico, consapevole, ragionevole.

L’economia italiana è sempre fragile, cresce poco e male, nonostante la presenza di imprese forti, dinamiche, competitive sui mercati del mondo. Siamo da mesi in recessione e le previsioni per il 2019 vanno dalla crescita zero secondo il Centro Studi Confindustria all’analogo 0,1% stimato da S&P, se non addirittura il -0,5 previsto da LC Macro Advisor, la società di consulenza di Lorenzo Codogno, ex capo economista del ministero dell’Economia e professore alla London School of Economics. Una congiuntura pesantemente negativa, tra crescita piatta e condizione recessiva per tutto il corso dell’anno, smentendo clamorosamente le ottimistiche (e infondate) previsioni del governo Conte. Uno stop grave, insomma, che adesso finalmente comincia a preoccupare anche il ministero dell’Economia, tanto che il ministro Giovanni Tria, al recente Festival dell’economia civile, ha ammesso: “Si va verso la crescita zero… s’è fermata la parte più produttiva dell’Italia” (i partiti giallo-verdi di governo hammo pèerò poco apprezzato questo momento di chiarezza, di sincerità).

Ma siamo di fronte anche a una crisi strutturale, segno di un paese che, negli ultimi vent’anni, non ha saputo costruire un ciclo positivo dello sviluppo e della produttività. In condizioni di crescita delle economie mondiali ed europee arranchiamo, in coda agli altri paesi Ue. In fasi di rallentamento andiamo peggio di tutti e ci ritroviamo, unici in Europa, in recessione. Perché?

Prova a spiegarlo Pierluigi Ciocca, economista tra i più autorevoli, per molti anni direttore della ricerca economica della Banca d’Italia, nelle pagine di “Tornare alla crescita”, Donzelli. Il quadro è drammatico: “L’Italia non produce più di quanto produceva quindici anni fa; la disoccupazione, non solo quella dei giovani, è alta, il lavoro mal pagato, precario; la povertà si estende; il debito pubblico spaventa i mercati; la questione meridionale si è incrudita; la produttività delle imprese ristagna. La cultura, le istituzioni, la politica, la società civile stentano a scuotersi, a fare fronte”. Nel corso degli anni, ricorda Ciocca, non sono state fatte né attuate riforme in grado di superare le fragilità dell’economia. La politica economica non ha affrontato gli squilibri generazionali, sociali, geografici e di reddito. Gli investimenti pubblici e privati ristagnano. L’ordinamento giuridico non ha stimolato la competitività e la crescita. Le imprese si sono a lungo adagiate su cambio debole, prima dell’euro, moderazione salariale, “scandalosa evasione fiscale” e sussidi statali. E adesso, in tempi di radicali cambiamenti economici, tecnologici e di relazioni politiche globali, non reggiamo le nuove ragioni della competitività. Eppure, da una crisi così lunga e profonda, secondo Ciocca, si può ancora uscire: risanare i conti pubblici, investire, puntare su conoscenza e innovazione, cambiare le leggi che ostacolano la concorrenza, rilanciare il Sud: “L’economia va ricostruita, rifondata”.

Serve, insomma, una nuova politica per lo sviluppo. Ben diversa da quella fatta di spesa pubblica assistenziale e blocco delle infrastrutture cui stiamo assistendo. Semmai, vanno stimolate e fatte crescere proprio quelle imprese che nel tempo, nonostante i vincoli del sistema Paese, hanno innovato, investito, esportato, conquistato posizioni di rilievo nelle nicchie ad alto valore aggiunto sui mercati globali. Non sono molte, probabilmente un quarto dell’intero panorama delle imprese italiane. Dunque non potranno fare da motore determinante dello sviluppo, se non in presenza di una ben diversa e migliore politica economica, nel contesto di strategie di sviluppo della Ue.

Un altro modo per affrontare la crisi è insistere sulla “economia civile”, come suggerisce Jeffrey Sachs, direttore di “The Earth Institute” della Columbia University di New York (ne ha parlato la scorsa settimana al festival dedicato appunto all’economia civile, a Firenze): meno diseguaglianze, più fiducia, scelte più chiare di ambientalismo sostenibile, di green economy come vero e proprio fattore di competitività (le imprese italiane sono, su questa dimensione, in prima fila, come documenta anno dopo anno Symbola). E dunque, anche lavorare sulle “Tessiture sociali”, come suggerisce il titolo del libro, edito da Egea e scritto da Aldo Bonomi, sociologo e Francesco Pugliese, amministratore delegato di Conad, vivace struttura cooperativa della grande distruzione. Quattro i termini di riferimento: “La comunità, l’impresa, il mutualismo, la solidarietà”. Sono tempi di sharing economy e dirompenti innovazioni. E in un’Italia fatta non solo di metropoli ma d’una miriade di realtà locali, bisogna impegnarsi per tenere insieme competitività e solidarietà. Il volume raccolta un viaggio in quaranta città, “in luoghi, al crocevia di flussi, nei quali la prossimità territoriale, il radicamento e il fare comunità” emergono come fattori economici e di competitività, tra manifattura, commercio, distribuzione globale e valori del “chilometro 0”. Lo sviluppo italiano è possibile, appunto, solo nel segno della sostenibilità, ambientale e sociale.

Sono sfide culturali, sociali e politiche. Come sostiene da tempo anche Marco Bentivogli, segretario dei metalmeccanici Cisl, e ribadisce nel suo nuovo libro di cui molto si parla, “Contrordine compagni”, un “manuale di resistenza alla tecnofobia per la riscossa del lavoro e dell’Italia”, Rizzoli.

Bentivogli ragiona d’innovazione e nuovi e vecchi mestieri, superamento delle divisioni tra formazione scientifica e umanistica, bisogni popolari cui rispondere senza cedere alle tentazioni populiste né alle chiusure nazionalistiche impaurite. Nessun catastrofismo, insomma, per affrontare le questioni del mercato e le diseguaglianze provocante dalla globalizzazione, nessun timore del futuro. Semmai, un robusto e lungimirante riformismo che affronti i temi della competitività, della sostenibilità, dei nuovi equilibri sociali, della costruzione di originali dimensioni del lavoro.

Insiste Bentivogli (sul “Corriere Innovazione”, 29 marzo): “Fermare il progresso non solo non è possibile, ma è quanto di più pericoloso si possa fare per l’occupazione”. I robot sono nelle aziende da almeno trent’anni, hanno migliorato la qualità del lavoro, ridotto la fatica sulle mansioni più ripetitive, stimolato creatività, innovazione, responsabile partecipazione. Spiega appunto Bentivogli: “Si riducono le mansioni ripetitive, operaie e impiegatizie, ma il lavoro cambia, non muore”. Come? E’ un processo in corso, da continuare a costruire con creatività e senso di responsabilità.

C’è chi, maestro di catastrofismo e seminatore di paure, come lo Studio Casaleggio Associati (la “testa” del Movimento 5Stelle) sostiene che finirà il lavoro nel 2054. “Un’attendibilità simile alle interpretazioni del calendario dei Maya sulla fine del mondo nel 2012”, ironizza Bentivogli. Meglio, semmai, puntare su formazione, politiche del lavoro e uso intelligente del welfare non per distribuire risorse a pioggia come il reddito di cittadinanza caro al M5S ma per fare da ammortizzatore sociale durante i periodi di cambio di lavoro e impegno di studio per nuove qualificazioni. Un atteggiamento responsabile, appunto, di cui anche il sindacato sta dando prove positive. Ottimismo critico, consapevole, ragionevole.

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