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Il “Rinascimento meccatronico” e l’industria in cerca d’ingegneri e tecnici un po’ umanisti

Rinascimento meccatronico”, scrive Franco Mosconi, professore di Economia e Politica Industriale all’Università di Parma, commentando la classifica delle piccole e medie imprese “Top Performing 2018” (“L’Economia- Corriere della Sera”, 5 marzo). E in due parole coglie uno dei nodi che determinano il lento sviluppo italiano: la relazione ancora incompiuta tra cultura e crescita economica, tra formazione e produttività.

Rinascimento, dunque. Il richiamo è alla stagione d’oro della storia italiana ed europea, a quel Quattrocento dell’Umanesimo e al Cinquecento degli artisti straordinari (Leonardo e Michelangelo, innanzitutto) in cui filosofia e scienza, creatività delle arti visive e scrittura, politica ed economia conoscevano un’incredibile capacità di pensare, progettare, costruire e raccontare un mondo in intenso cambiamento, sull’idea forte del connubio virtuoso ragione-fantasia, immaginazione e manifattura. Tutto fondato sulla centralità dell’uomo: una centralità non arrogante, ma pensosa, critica, forte della relazione tra creatività e limite. Una grande impresa.

Ed ecco la meccatronica: sintesi tra la manifattura metalmeccanica in cui proprio noi italiani continuiamo ad avere eccellenti posizioni competitive internazionali e i processi produttivi legati all’elettronica, all’informatica, al mondo digital. “Rinascimento meccatronico” dopo la stagione recente del “Rinascimento manifatturiero” definito dagli studiosi di Harvard, nel cuore della Grande Crisi esplosa nel 2007, per rilanciare la centralità dell’economia reale, dell’industria, contro la devastante rapacità della speculazione finanziaria. Una svolta culturale ed economica. Per capire meglio, vale la pena leggere le pagine di Ian Goldin e Chris Kutarna, economisti a Oxford, in “Nuova età dell’oro. Guida a un secondo Rinascimento economico e culturale”, per Il Saggiatore.

Che cultura serve, dunque, perché l’Italia e le sue imprese migliori rafforzino la propria capacità competitiva, in tempi di crescente concorrenza per Industry 4.0? “Scuole tecniche. Bisogna rinnovare radicalmente il sistema formativo. E investire sugli Its, gli Istituti tecnici superiori, secondo il modello tedesco: ogni anno la Germania fa uscire dai suoi Its 740mila diplomati, contro i circa 8mila degli Its italiani”, sostiene Alberto Bombassei, presidente della Brembo (freni e prodotti automotive d’eccellenza), lanciando a Bergamo un nuovo polo di formazione tra Confindustria, Manpower e Kilometro Rosso, uno dei migliori centri di ricerca e sviluppo del Nord industriale, per cercare di ovviare alle pesanti carenze di persone qualificare per fare crescere i nuovi processi produttivi.

Bombassei ha naturalmente ragione. Riprende un tema caro agli esperti di Confindustria e agli imprenditori (Attilio Oliva e soprattutto Gianfelice Rocca) che da anni individuano proprio nella scarsa diffusione della cultura e della formazione tecnica e scientifica una delle ragioni di fondo della asfittica crescita dell’Italia. E rilancia una delle scommesse più importanti nella storia della scuola italiana, fin dai tempi dell’Unità nazionale a metà Ottocento: costruire percorsi formativi popolari che facilitassero non solo la costruzione di una nuova Italia unificata, ma anche la sfida italiana nell’era dell’industrializzazione di massa. Vinse il primato della “scuola classica” e d’élite d’impronta storicistico-idealista, sostenuta da Benedetto Croce e messa in atto da Giovanni Gentile. E s’allargò il divario tra le cosiddette “due culture”, l’umanistica e la scientifica, a tutto danno della seconda e con conseguenze negative sulle dinamiche positive dell’economia e della società italiana (lo documentano anche due studiosi di grande qualità, Paolo Di Martino e Michelangelo Vasta, nelle pagine di “Ricchi per caso”, sulla “parabola dello sviluppo economico italiano”, per le edizioni de Il Mulino).

Ecco il punto: il falso dilemma tra le “due culture”. Servono tecnici. E intelligenze capaci di capire e guidare il cambiamento.

Da qualche tempo, infatti, proprio di fronte alle questioni poste dall’incredibile sviluppo delle tecnologie, cresce la consapevolezza del bisogno di un pensiero critico che sappia decifrare la complessità hi tech e indirizzare e governare i processi legati all’intelligenza artificiale, alle biotech, alle radicali modifiche determinate da robot, big data e processi produttivi digital all’organizzazione del lavoro. Affrontare le questioni di cyber security (le recenti vicende legate alle fake news e ai dati di Facebook ne sono solo un esempio). E cercare di comprendere e determinare le conseguenze economiche e sociali dei nuovi cicli di industrie, servizi, scambi globali.

Per dirla in sintesi: abbiamo un grande bisogno di tecnici, ben formati per lavorare con le nuove macchine e tenere alta la competitività italiana. Ma anche di filosofi, sociologi, economisti, psicologi, in grado di capire e camminare attraverso le nuove frontiere hi tech. E di artisti in grado di percepire, rappresentare, e raccontare il cambiamento. Lungo l’orizzonte di una nuova “civiltà delle macchine”.

Una svolta formativa, dunque. Non secondo dicotomie aut aut, o tecnici o umanisti. Ma costruendo sintesi et et, ingegneri e tecnici che siano anche un po’ filosofi e, perché no?, un po’ poeti. Gli ingegneri dei Politecnici di Milano e di Torino, ma anche quelli dell’Ecole Central di Parigi studiano seriamente filosofia e altre materie umanistiche, proprio per poter fare fronte alle sempre nuove dimensioni di tecnologie in continuo mutamento. E c’è un esempio di riferimento, cui guardare: Leonardo Sinisgalli, ingegnere alla Pirelli, poi all’Olivetti e alla Finmeccanica, negli anni Cinquanta, poeta di straordinaria efficacia: “Io entro in una fabbrica a capo scoperto, come si entra in una basilica, e guardo i movimenti degli uomini e dei congegni come si guarda un rito…”, scriveva nel 1949, raccontando i processi produttivi alla Pirelli Bicocca, che aveva contribuito a impostare e far funzionare.

Ecco il secondo punto chiave di questo ragionamento: se industria e laboratori di ricerca devono recuperare “lo spirito del Rinascimento” (hi tech e umanesimo), le donne e gli uomini impegnati nel mondo della letteratura, del cinema, del teatro, dell’arte devono tornare in fabbrica, per capire e raccontare, dare voce “all’orgoglio industriale” e fare della loro cultura umanistica un cardine d’un migliore sviluppo economico.

Proprio gli anni Cinquanta e Sessanta italiani ne hanno dato ottima testimonianza (lo documentano le pagine di “Fabbrica di carta”, un’antologia curata da Giorgio Bigatti e Giuseppe Lupo su “i libri che raccontano l’Italia industriale”, Laterza 2013). E in quella stagione di ripresa e impegno, verso il “boom economico”, tecnologia e racconto, industria e letteratura sono andate d’accordo. Un esempio per tutti: il testo di Dino Buzzati, grande giornalista e scrittore, “firma” di punta del “Corriere della Sera”, per “Il pianeta acciaio”, un film del 1962 per l’Italsider: esempio di capacità di misurarsi con il lavoro, i cantieri, le fabbriche e definire un linguaggio esatto, né retorico né apocalittico, per costruire un coinvolgente racconto (il film è stato proiettato di recente, il 19 marzo, a un pubblico di studenti nella rassegna “Fabbriche come cattedrali: il cinema industriale racconta l’estetica della produzione”, su iniziativa di Assolombarda, Università Statale di Milano e Università Cattaneo di Castellanza).

Le frontiere della formazione si delineano così più compiutamente. Maggiori investimenti sugli Istituti tecnici superiori. E contemporaneamente sui licei. Con intelligenza critica. Come suggeriscono Claudio Giunta, professore di Letteratura all’Università di Trento (“E se non fosse la buona battaglia? Sul futuro dell’istruzione umanistica”, Il Mulino, fuori da ogni retorica sul primato del “classico”) e Lucio Russo, storico della scienza (“Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista”, Mondadori). Studi non “classici”, ma “critici”. Come proprio i nostri tempi così controversi ci chiedono.

Rinascimento meccatronico”, scrive Franco Mosconi, professore di Economia e Politica Industriale all’Università di Parma, commentando la classifica delle piccole e medie imprese “Top Performing 2018” (“L’Economia- Corriere della Sera”, 5 marzo). E in due parole coglie uno dei nodi che determinano il lento sviluppo italiano: la relazione ancora incompiuta tra cultura e crescita economica, tra formazione e produttività.

Rinascimento, dunque. Il richiamo è alla stagione d’oro della storia italiana ed europea, a quel Quattrocento dell’Umanesimo e al Cinquecento degli artisti straordinari (Leonardo e Michelangelo, innanzitutto) in cui filosofia e scienza, creatività delle arti visive e scrittura, politica ed economia conoscevano un’incredibile capacità di pensare, progettare, costruire e raccontare un mondo in intenso cambiamento, sull’idea forte del connubio virtuoso ragione-fantasia, immaginazione e manifattura. Tutto fondato sulla centralità dell’uomo: una centralità non arrogante, ma pensosa, critica, forte della relazione tra creatività e limite. Una grande impresa.

Ed ecco la meccatronica: sintesi tra la manifattura metalmeccanica in cui proprio noi italiani continuiamo ad avere eccellenti posizioni competitive internazionali e i processi produttivi legati all’elettronica, all’informatica, al mondo digital. “Rinascimento meccatronico” dopo la stagione recente del “Rinascimento manifatturiero” definito dagli studiosi di Harvard, nel cuore della Grande Crisi esplosa nel 2007, per rilanciare la centralità dell’economia reale, dell’industria, contro la devastante rapacità della speculazione finanziaria. Una svolta culturale ed economica. Per capire meglio, vale la pena leggere le pagine di Ian Goldin e Chris Kutarna, economisti a Oxford, in “Nuova età dell’oro. Guida a un secondo Rinascimento economico e culturale”, per Il Saggiatore.

Che cultura serve, dunque, perché l’Italia e le sue imprese migliori rafforzino la propria capacità competitiva, in tempi di crescente concorrenza per Industry 4.0? “Scuole tecniche. Bisogna rinnovare radicalmente il sistema formativo. E investire sugli Its, gli Istituti tecnici superiori, secondo il modello tedesco: ogni anno la Germania fa uscire dai suoi Its 740mila diplomati, contro i circa 8mila degli Its italiani”, sostiene Alberto Bombassei, presidente della Brembo (freni e prodotti automotive d’eccellenza), lanciando a Bergamo un nuovo polo di formazione tra Confindustria, Manpower e Kilometro Rosso, uno dei migliori centri di ricerca e sviluppo del Nord industriale, per cercare di ovviare alle pesanti carenze di persone qualificare per fare crescere i nuovi processi produttivi.

Bombassei ha naturalmente ragione. Riprende un tema caro agli esperti di Confindustria e agli imprenditori (Attilio Oliva e soprattutto Gianfelice Rocca) che da anni individuano proprio nella scarsa diffusione della cultura e della formazione tecnica e scientifica una delle ragioni di fondo della asfittica crescita dell’Italia. E rilancia una delle scommesse più importanti nella storia della scuola italiana, fin dai tempi dell’Unità nazionale a metà Ottocento: costruire percorsi formativi popolari che facilitassero non solo la costruzione di una nuova Italia unificata, ma anche la sfida italiana nell’era dell’industrializzazione di massa. Vinse il primato della “scuola classica” e d’élite d’impronta storicistico-idealista, sostenuta da Benedetto Croce e messa in atto da Giovanni Gentile. E s’allargò il divario tra le cosiddette “due culture”, l’umanistica e la scientifica, a tutto danno della seconda e con conseguenze negative sulle dinamiche positive dell’economia e della società italiana (lo documentano anche due studiosi di grande qualità, Paolo Di Martino e Michelangelo Vasta, nelle pagine di “Ricchi per caso”, sulla “parabola dello sviluppo economico italiano”, per le edizioni de Il Mulino).

Ecco il punto: il falso dilemma tra le “due culture”. Servono tecnici. E intelligenze capaci di capire e guidare il cambiamento.

Da qualche tempo, infatti, proprio di fronte alle questioni poste dall’incredibile sviluppo delle tecnologie, cresce la consapevolezza del bisogno di un pensiero critico che sappia decifrare la complessità hi tech e indirizzare e governare i processi legati all’intelligenza artificiale, alle biotech, alle radicali modifiche determinate da robot, big data e processi produttivi digital all’organizzazione del lavoro. Affrontare le questioni di cyber security (le recenti vicende legate alle fake news e ai dati di Facebook ne sono solo un esempio). E cercare di comprendere e determinare le conseguenze economiche e sociali dei nuovi cicli di industrie, servizi, scambi globali.

Per dirla in sintesi: abbiamo un grande bisogno di tecnici, ben formati per lavorare con le nuove macchine e tenere alta la competitività italiana. Ma anche di filosofi, sociologi, economisti, psicologi, in grado di capire e camminare attraverso le nuove frontiere hi tech. E di artisti in grado di percepire, rappresentare, e raccontare il cambiamento. Lungo l’orizzonte di una nuova “civiltà delle macchine”.

Una svolta formativa, dunque. Non secondo dicotomie aut aut, o tecnici o umanisti. Ma costruendo sintesi et et, ingegneri e tecnici che siano anche un po’ filosofi e, perché no?, un po’ poeti. Gli ingegneri dei Politecnici di Milano e di Torino, ma anche quelli dell’Ecole Central di Parigi studiano seriamente filosofia e altre materie umanistiche, proprio per poter fare fronte alle sempre nuove dimensioni di tecnologie in continuo mutamento. E c’è un esempio di riferimento, cui guardare: Leonardo Sinisgalli, ingegnere alla Pirelli, poi all’Olivetti e alla Finmeccanica, negli anni Cinquanta, poeta di straordinaria efficacia: “Io entro in una fabbrica a capo scoperto, come si entra in una basilica, e guardo i movimenti degli uomini e dei congegni come si guarda un rito…”, scriveva nel 1949, raccontando i processi produttivi alla Pirelli Bicocca, che aveva contribuito a impostare e far funzionare.

Ecco il secondo punto chiave di questo ragionamento: se industria e laboratori di ricerca devono recuperare “lo spirito del Rinascimento” (hi tech e umanesimo), le donne e gli uomini impegnati nel mondo della letteratura, del cinema, del teatro, dell’arte devono tornare in fabbrica, per capire e raccontare, dare voce “all’orgoglio industriale” e fare della loro cultura umanistica un cardine d’un migliore sviluppo economico.

Proprio gli anni Cinquanta e Sessanta italiani ne hanno dato ottima testimonianza (lo documentano le pagine di “Fabbrica di carta”, un’antologia curata da Giorgio Bigatti e Giuseppe Lupo su “i libri che raccontano l’Italia industriale”, Laterza 2013). E in quella stagione di ripresa e impegno, verso il “boom economico”, tecnologia e racconto, industria e letteratura sono andate d’accordo. Un esempio per tutti: il testo di Dino Buzzati, grande giornalista e scrittore, “firma” di punta del “Corriere della Sera”, per “Il pianeta acciaio”, un film del 1962 per l’Italsider: esempio di capacità di misurarsi con il lavoro, i cantieri, le fabbriche e definire un linguaggio esatto, né retorico né apocalittico, per costruire un coinvolgente racconto (il film è stato proiettato di recente, il 19 marzo, a un pubblico di studenti nella rassegna “Fabbriche come cattedrali: il cinema industriale racconta l’estetica della produzione”, su iniziativa di Assolombarda, Università Statale di Milano e Università Cattaneo di Castellanza).

Le frontiere della formazione si delineano così più compiutamente. Maggiori investimenti sugli Istituti tecnici superiori. E contemporaneamente sui licei. Con intelligenza critica. Come suggeriscono Claudio Giunta, professore di Letteratura all’Università di Trento (“E se non fosse la buona battaglia? Sul futuro dell’istruzione umanistica”, Il Mulino, fuori da ogni retorica sul primato del “classico”) e Lucio Russo, storico della scienza (“Perché la cultura classica. La risposta di un non classicista”, Mondadori). Studi non “classici”, ma “critici”. Come proprio i nostri tempi così controversi ci chiedono.

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