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All’Italia disinformata servono scienza e competenza, altro che la demagogia social del “così è se vi pare”

Ecco l’Italia che nulla sa di sé, si percepisce e si racconta male, amplifica i suoi pur reali disagi e, disinformata, finisce preda dei demagoghi. Un’indagine ben fatta da Ipsos, uno dei più autorevoli centri di ricerca del mondo e pubblicata dal Corriere della Sera (31 agosto) documenta (sulla base di 50mila interviste nell’arco degli ultimi cinque anni) come sia proprio l’Italia, fra i 13 paesi coinvolti, ad avere “l’indice di percezione” della realtà più sbagliato, su una varietà di temi economici e sociali.  Prendiamo, tanto per fare un solo esempio d’attualità, “gli altri”, gli stranieri fra noi. Alla domanda su “quanti cittadini musulmani pensi ci siano ogni cento abitanti”, gli italiani rispondono 20, mentre in realtà sono solo  3,7. E “su 100 carcerati, quanti sono nati in un paese straniero?” gli italiani dicono 48, quasi uno su due, mentre realmente sono 34,4, uno su tre. Analoghi gli scostamenti tra percezione e fatti veri per quel che riguarda la salute, la diffusione delle tecnologie, il lavoro e la disoccupazione, gli indici di natalità. Rispetto all’“indice della percezione”, noi italiani siamo a quota 100 (il massimo divario tra percezione e fatti) e la Svezia, il paese meglio informato e più consapevole, a quota 53. In mezzo, subito dopo di noi, gli Usa (90) e la Francia (86), mentre dall’altro lato della scala ci sono Regno Unito (76), Giappone (72) e Germania (64).

“The perils of perception”, è il titolo del libro scritto dall’autore della ricerca, Bobby Duffy, politologo e direttore della sezione inglese di Ipsos, appena pubblicato da Atlantic Books, con un sottotitolo molto  esplicito:  “Why we’re wrong about nearly everything”. Già, perchè così disinformati? Per eccesso di flussi informativi, soprattutto sui media più sbrigativi e confusi, a cominciare dai social media e per una sempre più scarsa capacità critica. Gli effetti: una grave crisi di consapevolezza, un abbandonarsi a credenze, pregiudizi e “fake news” con un forte danno per la convivenza civile, per l’equilibrio dei mercati e per la stessa democrazia. In Italia, come abbiamo visto, più e peggio che altrove.

Volendo trovare delle ragioni nobili di tanta separatezza tra percezione e fatti reali, potremmo pur buttarla in letteratura. “Così è se vi pare”, scriveva nel 1917 Luigi Pirandello, mettendo in scena l’inconoscibilità della realtà. Straordinario gioco teatrale, penetrante analisi poetica dell’incertezza in un mondo in rapido cambiamento, ma anche dilemmi d’un secolo fa. Nell’Italia contemporanea in cui arraffano spazio l’approssimazione culturale e ignoranza, la dialettica volgare dei “social” e la propaganda più sbrigativa, forse non vale la pena affidarsi alle interpretazioni di Pirandello sul disagio della conoscenza o ricorrere al sarcasmo di Jean Cocteau:  “Il dramma della nostra epoca è che la stupidità si è messa a pensare”.

Meglio, invece, provare a capire radici e senso politico di quello che sta avvenendo e ragionare sui modi e sui luoghi in cui ricostruire un rapporto corretto tra realtà e rappresentazione. Conoscenza, competenza, scienza, dati chiari e attendibili, sono fondamentali per la democrazia liberale ma anche per lo sviluppo economico equilibrato e sostenibile (protezionismo, chiusure, nazionalizzazioni anti-crisi, vantati come rimedi alla crisi, ne aggravano invece le conseguenze, come gran parte della lketteratura economica dimostra) . Altro, insomma, che vaghezze da storytelling o “narrazione”, termini distorti del dibattito pubblico. Si tratta invece di imparare a ragionare sulla base di una buona informazione (che spesso in questi anni è mancata) e di insistere sulla essenzialità dei valori della scienza, dei dati attendibili (raccolti ed eaborati con autonomia da centri di ricerca autorevoli) e dello spirito critico.

In tempi di crisi e di complessità delle situazioni, di conflitti e di divergenza di interessi, la scorciatoia è la semplificazione della propaganda o segue le contorsioni dell’irrazionalismo emotivo o del “pensiero magico” (quello che sedusse l’opinione pubblica tedesca durante la crisi di Weimar nei primi anni Trenta e aprì la porta al nazismo, come ricostruisce con acutezza Benjamin Carter Hett in un libro appena pubblicato negli Usa, “The death of democracy”, “La morte della democrazia – L’ascesa di Hitler e la caduta della Repubblica di Weimar”: la razionalità cede il passo alle emozioni, il disagio sociale cerca non soluzioni ma capri espiatori, l’opinione pubblica critica si trasforma in folla rancorosa e rabbiosa).

Bisogna ragionare dunque su dati e fatti, analisi documentate e informazioni attendibili. Leggere di economia e scienza. E sottoporre a verifica affermazioni e programmi. È una sfida di cultura. E proprio la cultura d’impresa ne è leva essenziale, fondata com’è sulla razionalità delle scelte essenziali, la solidità delle competenze, i risconti numerici delle attività, il merito delle questioni e la conoscenza come base essenziale della competitività.

Lo conferma, proprio sulla base della ricerca di cui stiamo parlando, Nando Pagnoncelli,  presidente di Ipsos Italia: “I risultati della ricerca rendono l’idea della gravità di almeno due piaghe della nostra società, ben note e quanto mai allarmanti. Da un lato, il livello d’istruzione molto basso, con quel 16,3% di laureati sulla forza lavoro, che continua a condannarci in fondo del ranking Ue; dall’altro, la moderna dieta mediatica in cui primeggia, accanto alla Tv, l’informazione ‘fai-da-te’ su Internet e i social media”. Scarsa cultura, disinformazione, incompetenza, approssimazione nei giudizi. Le cronache sociali e politiche ne offrono, da tempo, testimonianze inquietanti.

Come uscirne? “Ci vorranno tempi lunghi”, sostiene Pagnoncelli. E comunque “l’unica ricetta è quella di un’assunzione di responsabilità da parte di tutti e tre i soggetti chiave della società: le istituzioni, il mondo dell’informazione e i cittadini stessi”.  Aggiugendo la scuola e, appunto, le imprese, luoghi della ricerca, della scienza, della verifica dei risultati. La cultura politecnica si rivela, anche in questo, strumento di democrazia liberale e di rapporto essenziale con la verità e lo sviluppo.

Ecco l’Italia che nulla sa di sé, si percepisce e si racconta male, amplifica i suoi pur reali disagi e, disinformata, finisce preda dei demagoghi. Un’indagine ben fatta da Ipsos, uno dei più autorevoli centri di ricerca del mondo e pubblicata dal Corriere della Sera (31 agosto) documenta (sulla base di 50mila interviste nell’arco degli ultimi cinque anni) come sia proprio l’Italia, fra i 13 paesi coinvolti, ad avere “l’indice di percezione” della realtà più sbagliato, su una varietà di temi economici e sociali.  Prendiamo, tanto per fare un solo esempio d’attualità, “gli altri”, gli stranieri fra noi. Alla domanda su “quanti cittadini musulmani pensi ci siano ogni cento abitanti”, gli italiani rispondono 20, mentre in realtà sono solo  3,7. E “su 100 carcerati, quanti sono nati in un paese straniero?” gli italiani dicono 48, quasi uno su due, mentre realmente sono 34,4, uno su tre. Analoghi gli scostamenti tra percezione e fatti veri per quel che riguarda la salute, la diffusione delle tecnologie, il lavoro e la disoccupazione, gli indici di natalità. Rispetto all’“indice della percezione”, noi italiani siamo a quota 100 (il massimo divario tra percezione e fatti) e la Svezia, il paese meglio informato e più consapevole, a quota 53. In mezzo, subito dopo di noi, gli Usa (90) e la Francia (86), mentre dall’altro lato della scala ci sono Regno Unito (76), Giappone (72) e Germania (64).

“The perils of perception”, è il titolo del libro scritto dall’autore della ricerca, Bobby Duffy, politologo e direttore della sezione inglese di Ipsos, appena pubblicato da Atlantic Books, con un sottotitolo molto  esplicito:  “Why we’re wrong about nearly everything”. Già, perchè così disinformati? Per eccesso di flussi informativi, soprattutto sui media più sbrigativi e confusi, a cominciare dai social media e per una sempre più scarsa capacità critica. Gli effetti: una grave crisi di consapevolezza, un abbandonarsi a credenze, pregiudizi e “fake news” con un forte danno per la convivenza civile, per l’equilibrio dei mercati e per la stessa democrazia. In Italia, come abbiamo visto, più e peggio che altrove.

Volendo trovare delle ragioni nobili di tanta separatezza tra percezione e fatti reali, potremmo pur buttarla in letteratura. “Così è se vi pare”, scriveva nel 1917 Luigi Pirandello, mettendo in scena l’inconoscibilità della realtà. Straordinario gioco teatrale, penetrante analisi poetica dell’incertezza in un mondo in rapido cambiamento, ma anche dilemmi d’un secolo fa. Nell’Italia contemporanea in cui arraffano spazio l’approssimazione culturale e ignoranza, la dialettica volgare dei “social” e la propaganda più sbrigativa, forse non vale la pena affidarsi alle interpretazioni di Pirandello sul disagio della conoscenza o ricorrere al sarcasmo di Jean Cocteau:  “Il dramma della nostra epoca è che la stupidità si è messa a pensare”.

Meglio, invece, provare a capire radici e senso politico di quello che sta avvenendo e ragionare sui modi e sui luoghi in cui ricostruire un rapporto corretto tra realtà e rappresentazione. Conoscenza, competenza, scienza, dati chiari e attendibili, sono fondamentali per la democrazia liberale ma anche per lo sviluppo economico equilibrato e sostenibile (protezionismo, chiusure, nazionalizzazioni anti-crisi, vantati come rimedi alla crisi, ne aggravano invece le conseguenze, come gran parte della lketteratura economica dimostra) . Altro, insomma, che vaghezze da storytelling o “narrazione”, termini distorti del dibattito pubblico. Si tratta invece di imparare a ragionare sulla base di una buona informazione (che spesso in questi anni è mancata) e di insistere sulla essenzialità dei valori della scienza, dei dati attendibili (raccolti ed eaborati con autonomia da centri di ricerca autorevoli) e dello spirito critico.

In tempi di crisi e di complessità delle situazioni, di conflitti e di divergenza di interessi, la scorciatoia è la semplificazione della propaganda o segue le contorsioni dell’irrazionalismo emotivo o del “pensiero magico” (quello che sedusse l’opinione pubblica tedesca durante la crisi di Weimar nei primi anni Trenta e aprì la porta al nazismo, come ricostruisce con acutezza Benjamin Carter Hett in un libro appena pubblicato negli Usa, “The death of democracy”, “La morte della democrazia – L’ascesa di Hitler e la caduta della Repubblica di Weimar”: la razionalità cede il passo alle emozioni, il disagio sociale cerca non soluzioni ma capri espiatori, l’opinione pubblica critica si trasforma in folla rancorosa e rabbiosa).

Bisogna ragionare dunque su dati e fatti, analisi documentate e informazioni attendibili. Leggere di economia e scienza. E sottoporre a verifica affermazioni e programmi. È una sfida di cultura. E proprio la cultura d’impresa ne è leva essenziale, fondata com’è sulla razionalità delle scelte essenziali, la solidità delle competenze, i risconti numerici delle attività, il merito delle questioni e la conoscenza come base essenziale della competitività.

Lo conferma, proprio sulla base della ricerca di cui stiamo parlando, Nando Pagnoncelli,  presidente di Ipsos Italia: “I risultati della ricerca rendono l’idea della gravità di almeno due piaghe della nostra società, ben note e quanto mai allarmanti. Da un lato, il livello d’istruzione molto basso, con quel 16,3% di laureati sulla forza lavoro, che continua a condannarci in fondo del ranking Ue; dall’altro, la moderna dieta mediatica in cui primeggia, accanto alla Tv, l’informazione ‘fai-da-te’ su Internet e i social media”. Scarsa cultura, disinformazione, incompetenza, approssimazione nei giudizi. Le cronache sociali e politiche ne offrono, da tempo, testimonianze inquietanti.

Come uscirne? “Ci vorranno tempi lunghi”, sostiene Pagnoncelli. E comunque “l’unica ricetta è quella di un’assunzione di responsabilità da parte di tutti e tre i soggetti chiave della società: le istituzioni, il mondo dell’informazione e i cittadini stessi”.  Aggiugendo la scuola e, appunto, le imprese, luoghi della ricerca, della scienza, della verifica dei risultati. La cultura politecnica si rivela, anche in questo, strumento di democrazia liberale e di rapporto essenziale con la verità e lo sviluppo.

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