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Archivio storico e innovazione per rilanciare l’orgoglio industriale

Archivio. La parola, nel discorso contemporaneo, ha scarso fascino. Sa di vecchio e polveroso, evoca luoghi in cui accatastare ciò che non è più d’attualità e dunque non serve. S’apparenta al magazzino degli scarti. Un ripostiglio dell’inutile memoria. Anche nei progetti di riorganizzazione del ministero del Beni e delle Attività Culturali (lodevole iniziativa di riforma avviata dal ministro Dario Franceschini, per valorizzare e rilanciare il patrimonio culturale italiano) agli Archivi e alle apposite Sovrintendenze è dedicato scarso spazio (tanto da sollecitare le critiche d’un grande storico come Giovanni De Luna: “Memoria usa e getta: le linee guida del ministro penalizzano gli archivi, un grave danno per gli storici”, su “La Stampa” del 25 luglio). Eppure, a pensarci bene, anche dal punto di vista della buona cultura d’impresa, gli archivi hanno una funzione essenziale: custodia della memoria aziendale, ma anche luogo in cui si raccoglie la testimonianza di come progetti e idee diventano prodotti e processi produttivi, dunque dimensioni esemplare del “costruire contemporaneità” nel fluire dei tempi, che poi si trasformano in storia.

Luna, da storico, chiede di “non penalizzare la gestione e la conservazione di un patrimonio culturale che ha bisogno di essere tutelato per ragioni che c’entrano poco con la sua capacità di generare profitti e molto con quelle del patto di memoria su cui si fonda lo spazio pubblico della cittadinanza”.

Qui, in questo blog di cultura d’impresa, vale la pena riflettere sul senso e sulle condizioni per custodire documenti, schede tecniche, grafiche pubblicitarie, filmati ma anche bilanci societari e fascicoli dei processi produttivi e delle relazioni industriali (l’organizzazione, le trattative sindacali, il welfare aziendale) non solo per non disperdere un patrimonio di grande cultura tecnologica e materiale, ma anche per proteggere e valorizzare le suggestioni e le testimonianze utili a rilanciare, in modo originale, l’industria italiana.

Lo sviluppo italiano, infatti, sta “nelle smart land dove la manifattura intreccia la cultura”, come documenta un sociologo attento alla buona economia, come Aldo Bonomi (IlSole24Ore, 6 luglio). E la documentazione di quella cultura (tecnologia ed estetica, il “bello e ben fatto”, il design d’avanguardia e la qualità) è un vero e proprio patrimonio collettivo indispensabile alla ricchezza italiana. Quella cultura, sintesi di tradizione consapevole e continua propensione all’innovazione, è il nostro miglior asset competitivo: proprio quello che rende preziose le nostre imprese e non riproducibili a basso costo i loro prodotti a maggior valore aggiunto.

Sta appunto in questa consapevolezza l’impegno di grandi imprese, come la Pirelli, ma anche di medie e piccole, a costituire fondazioni che custodiscano gli archivi storici, con attività di manutenzione, restauro, digitalizzazione dei loro documenti (e messa a disposizione del pubblico delle scuole, dei ricercatori, degli storici). E qui vive la scelta di pensare alla “contemporaneità dell’archivio storico”, non certo come ossimoro utile a una comunicazione a effetto, ma come strumento per fare vivere, anche all’interno dell’azienda, il gioco della creatività tra ricorsi storici e innovazione.

Sono un costo, naturalmente, archivi e fondazioni (con scarso inventivo fiscale, purtroppo): richiedono spazi, competenze tecniche, risorse per il restauro e la conservazione, investimenti per la pubblicazione e la diffusione. Ma sono anche un valore. Che parla all’identità aziendale. E al futuro. Hanno senso pure le iniziative, come Museimpresa di Confindustria e soprattutto come il Centro della cultura d’impresa (un’iniziativa in cui hanno funzione di primo piano la Camera di Commercio di Milano e l’Assolombarda), per sostenere anche le piccole imprese, custodire e valorizzare i loro archivi e farne occasione di comunicazione, diffondere una vera e proprio “cultura della memoria d’impresa”.

C’è bisogno di storia, infatti, anche per rilanciare l’orgoglio industriale italiano. E’ necessario fare vivere, nel discorso pubblico e nel sentimento popolare, la qualità della nostra manifattura. E rinsaldare il forte senso di responsabilità verso le nostre radici. Memoria e cultura d’impresa non solo come effimeri eventi e spettacolarizzazione dei successi industriali (utili comunque a una buona comunicazione). Ma soprattutto come conservazione dei nostri valori produttivi e sociali. Una bella Italia dei suoi monumenti. E delle sue fabbriche.

Archivio. La parola, nel discorso contemporaneo, ha scarso fascino. Sa di vecchio e polveroso, evoca luoghi in cui accatastare ciò che non è più d’attualità e dunque non serve. S’apparenta al magazzino degli scarti. Un ripostiglio dell’inutile memoria. Anche nei progetti di riorganizzazione del ministero del Beni e delle Attività Culturali (lodevole iniziativa di riforma avviata dal ministro Dario Franceschini, per valorizzare e rilanciare il patrimonio culturale italiano) agli Archivi e alle apposite Sovrintendenze è dedicato scarso spazio (tanto da sollecitare le critiche d’un grande storico come Giovanni De Luna: “Memoria usa e getta: le linee guida del ministro penalizzano gli archivi, un grave danno per gli storici”, su “La Stampa” del 25 luglio). Eppure, a pensarci bene, anche dal punto di vista della buona cultura d’impresa, gli archivi hanno una funzione essenziale: custodia della memoria aziendale, ma anche luogo in cui si raccoglie la testimonianza di come progetti e idee diventano prodotti e processi produttivi, dunque dimensioni esemplare del “costruire contemporaneità” nel fluire dei tempi, che poi si trasformano in storia.

Luna, da storico, chiede di “non penalizzare la gestione e la conservazione di un patrimonio culturale che ha bisogno di essere tutelato per ragioni che c’entrano poco con la sua capacità di generare profitti e molto con quelle del patto di memoria su cui si fonda lo spazio pubblico della cittadinanza”.

Qui, in questo blog di cultura d’impresa, vale la pena riflettere sul senso e sulle condizioni per custodire documenti, schede tecniche, grafiche pubblicitarie, filmati ma anche bilanci societari e fascicoli dei processi produttivi e delle relazioni industriali (l’organizzazione, le trattative sindacali, il welfare aziendale) non solo per non disperdere un patrimonio di grande cultura tecnologica e materiale, ma anche per proteggere e valorizzare le suggestioni e le testimonianze utili a rilanciare, in modo originale, l’industria italiana.

Lo sviluppo italiano, infatti, sta “nelle smart land dove la manifattura intreccia la cultura”, come documenta un sociologo attento alla buona economia, come Aldo Bonomi (IlSole24Ore, 6 luglio). E la documentazione di quella cultura (tecnologia ed estetica, il “bello e ben fatto”, il design d’avanguardia e la qualità) è un vero e proprio patrimonio collettivo indispensabile alla ricchezza italiana. Quella cultura, sintesi di tradizione consapevole e continua propensione all’innovazione, è il nostro miglior asset competitivo: proprio quello che rende preziose le nostre imprese e non riproducibili a basso costo i loro prodotti a maggior valore aggiunto.

Sta appunto in questa consapevolezza l’impegno di grandi imprese, come la Pirelli, ma anche di medie e piccole, a costituire fondazioni che custodiscano gli archivi storici, con attività di manutenzione, restauro, digitalizzazione dei loro documenti (e messa a disposizione del pubblico delle scuole, dei ricercatori, degli storici). E qui vive la scelta di pensare alla “contemporaneità dell’archivio storico”, non certo come ossimoro utile a una comunicazione a effetto, ma come strumento per fare vivere, anche all’interno dell’azienda, il gioco della creatività tra ricorsi storici e innovazione.

Sono un costo, naturalmente, archivi e fondazioni (con scarso inventivo fiscale, purtroppo): richiedono spazi, competenze tecniche, risorse per il restauro e la conservazione, investimenti per la pubblicazione e la diffusione. Ma sono anche un valore. Che parla all’identità aziendale. E al futuro. Hanno senso pure le iniziative, come Museimpresa di Confindustria e soprattutto come il Centro della cultura d’impresa (un’iniziativa in cui hanno funzione di primo piano la Camera di Commercio di Milano e l’Assolombarda), per sostenere anche le piccole imprese, custodire e valorizzare i loro archivi e farne occasione di comunicazione, diffondere una vera e proprio “cultura della memoria d’impresa”.

C’è bisogno di storia, infatti, anche per rilanciare l’orgoglio industriale italiano. E’ necessario fare vivere, nel discorso pubblico e nel sentimento popolare, la qualità della nostra manifattura. E rinsaldare il forte senso di responsabilità verso le nostre radici. Memoria e cultura d’impresa non solo come effimeri eventi e spettacolarizzazione dei successi industriali (utili comunque a una buona comunicazione). Ma soprattutto come conservazione dei nostri valori produttivi e sociali. Una bella Italia dei suoi monumenti. E delle sue fabbriche.

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