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Ecco la “politica industriale”: infrastrutture, ricerca e formazione per fare crescere le imprese

Serve, all’Italia, una “politica industriale”. O, per essere più esatti, una nuova e migliore politica industriale. Non certo l’intervento dello Stato a supporto di particolari settori definiti “strategici”. O, peggio ancora, il sostegno per imprese in difficoltà. E nemmeno la tutela della cosiddetta “italianità” delle imprese (della permanenza cioè della loro proprietà in mani italiane). Servono, semmai, le scelte e gli investimenti pubblici per stimolare e attrarre investimenti privati, interni e internazionali. Le infrastrutture materiali e immateriali. La ricerca e la formazione di qualità. La creazione di condizioni per fare crescere le imprese, a cominciare da un’efficiente pubblica amministrazione.

Se ne riparla, da qualche tempo. E la questione del ”se fare” e “come fare” politica industriale torna al centro del discorso pubblico economico anche grazie ai dibattiti legati alla recente assemblea di Confindustria (è stato eletto un nuovo presidente, Vincenzo Boccia), alle prese di posizione del nuovo ministro dello Sviluppo Carlo Calenda (“Niente più incentivi a pioggia”, “fine dei circoli illuminati chiusi nelle stanze di un ministero” per decidere chi e cosa finanziare) e alla pubblicazione di un nuovo libro di Franco Debenedetti, “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti”, Marsilio, che fin dal titolo esprime un’idea netta, un no “all’insana idea della politica industriale”.

E’ un liberale liberista, Debenedetti. Con un passato da imprenditore e da manager (dunque un’esperienza economica sul campo, non solo intellettuale) e poi da politico, parlamentare nelle file del Pd, con posizioni spesso disomogenee rispetto alle tradizioni dell’economia “di sinistra”, incline all’intervento pubblico. Qui, nelle pagine del volume, documentato e impegnativo, la polemica “contro la politica industriale” è esplicita. Non senza buone ragioni, ricordando le infauste esperienze di certe stagioni dell’Iri, dell’Eni ma anche dell’Efim e dell’Egam, le dissipazioni del “panettone di Stato”, la violazione della concorrenza, lo spreco di risorse pubbliche.

Discussione aperta, dunque. Storica. E contemporanea.

Era servito, il ruolo dello Stato, con le scelte degli investimenti pubblici per costruire le grandi infrastrutture e con le attività di Iri, Eni e Cassa del Mezzogiorno nel sostenere la trasformazione dell’Italia da paese agricolo a potenza industriale europea. Ma poi tutto s’era appannato nello scambio distorto tra spesa pubblica e costruzione del consenso. Su un altro versante, quello privato, ecco il “capitalismo senza capitali”, il controverso ruolo di Mediobanca, la protezione dei patti di sindacato, il “capitalismo di relazione” nei cosiddetti “salotti buoni”. Si salvano in qualche modo le grandi famiglie, si tiene ai margini il mercato. C’è un perverso intreccio tra imprenditori e politici, con sostegno alle posizioni di potere e di rendita, dagli anni Cinquanta a Tangentopoli. E l’idea distorta del “primato della politica” e le tentazioni protezionistiche di parte della grande impresa (l’auto, innanzitutto), legate alle invadenze e alle resistenze di un’inefficiente Pubblica Amministrazione impediscono per lungo tempo, in Italia, la crescita di una robusta “cultura del mercato” e della concorrenza.

La crisi della grande impresa, soprattutto pubblica, che ha scarsa cultura di mercato e il contemporaneo fiorire (anni Settanta e Ottanta) d’una diffusa rete di medie e piccole imprese che si muovono sul mercato, il successo delle “multinazionali tascabili”, le “privatizzazioni” firmate da Carlo Azeglio Ciampi e Giuliano Amato in chiave Ue (importanti, anche quando limitate e inefficienti, come il “nocciolino duro” di Telecom) e le nuove ragioni della competizione internazionale cambiano radicalmente il quadro macro e micro-economico anche in Italia.

Non mancano le resistenze, politiche, sindacali, ma anche di ambienti di potere economico e finanziario. E restano sempre vivi, a dispetto delle intenzioni di riforma, il “capitalismo municipale” mai messo in crisi e le dominanze della mano pubblica nel settore dei servizi, dall’energia ai trasporti. E’ la cattiva politica industriale, quella da criticare e finalmente archiviare.

Vale la pena, invece, puntare sulle qualità di un’Italia che rimane, anche dopo la crisi, il secondo paese manifatturiero europeo, con un’incidenza della manifattura sul Pil del 29% in Lombardia, ma sfiora anche il 27% nell’area Toscana, Marche e Umbria (media dell’Italia 17%, obiettivo Ue 20% entro il 2020). E’ un’Italia che cresce, nonostante tutto, grazie al dinamismo delle imprese che hanno una cultura di mercato internazionale.

La nuova politica industriale va costruita partendo da qui. Da una relazione positiva tra le sfide poste dalle nuove tecnologie (industry 4.0, digital manufacturing, big data, cloud computing), rafforzando la competitività delle imprese.

Risorse per Industry 4.0”, ha promesso il ministro Calenda all’assemblea di Confindustria. Non incentivi per la chimica o la meccanica, per chi costruisce navi o automobili (la vecchia politica industriale, appunto). Ma infrastrutture (a cominciare dalla banda larga, senza cui non si può fare alcun digital manufacturing) e sostegni alle imprese che innovano, migliorano la qualità del prodotto e la sostenibilità della produzione (minori consumi di acqua ed energia, un’industria “green”), fanno ricerca con le università e i centri di ricerca pubblici e privati, rafforzano la loro capitalizzazione, aumentano di dimensione, vanno all’estero per conquistare nicchie di mercato e acquisire altre imprese. Nessun nazionalismo economico, nessuna protezione alla cosiddetta “italianità della proprietà”. “Per me è italiana un’impresa che lavora in Italia”, taglia corto Calenda.

Oggi dunque “fare politica industriale” significa porre le condizioni per la crescita del mercato e delle imprese: oltre alle infrastrutture materiali e immateriali migliori, servono investimenti pubblici in formazione e ricerca, pubblica amministrazione “leggera” e trasparente, giustizia e fisco efficienti ed efficaci.

La “politica industriale” è, in buona sostanza, favorire la “cultura del mercato”. E fornire “beni pubblici” (la formazione di ingegneri e tecnici, tanto per fare ancora un esempio) per consentire alle imprese di stare bene sul mercato, sui mercati europei e internazionali, reggendo la sfida della competizione per qualità.

Che cultura, dunque? Dell’innovazione. E della sostenibilità, ambientale e sociale. Della cultura legata all’impresa. E dell’impresa che sa competere. In che settori? Non tocca allo Stato né alle Regioni indicarli. Sono scelte autonome delle imprese. Anche se in ritardo, in Italia si parla finalmente di politica industriale che serve al mercato.

Serve, all’Italia, una “politica industriale”. O, per essere più esatti, una nuova e migliore politica industriale. Non certo l’intervento dello Stato a supporto di particolari settori definiti “strategici”. O, peggio ancora, il sostegno per imprese in difficoltà. E nemmeno la tutela della cosiddetta “italianità” delle imprese (della permanenza cioè della loro proprietà in mani italiane). Servono, semmai, le scelte e gli investimenti pubblici per stimolare e attrarre investimenti privati, interni e internazionali. Le infrastrutture materiali e immateriali. La ricerca e la formazione di qualità. La creazione di condizioni per fare crescere le imprese, a cominciare da un’efficiente pubblica amministrazione.

Se ne riparla, da qualche tempo. E la questione del ”se fare” e “come fare” politica industriale torna al centro del discorso pubblico economico anche grazie ai dibattiti legati alla recente assemblea di Confindustria (è stato eletto un nuovo presidente, Vincenzo Boccia), alle prese di posizione del nuovo ministro dello Sviluppo Carlo Calenda (“Niente più incentivi a pioggia”, “fine dei circoli illuminati chiusi nelle stanze di un ministero” per decidere chi e cosa finanziare) e alla pubblicazione di un nuovo libro di Franco Debenedetti, “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti”, Marsilio, che fin dal titolo esprime un’idea netta, un no “all’insana idea della politica industriale”.

E’ un liberale liberista, Debenedetti. Con un passato da imprenditore e da manager (dunque un’esperienza economica sul campo, non solo intellettuale) e poi da politico, parlamentare nelle file del Pd, con posizioni spesso disomogenee rispetto alle tradizioni dell’economia “di sinistra”, incline all’intervento pubblico. Qui, nelle pagine del volume, documentato e impegnativo, la polemica “contro la politica industriale” è esplicita. Non senza buone ragioni, ricordando le infauste esperienze di certe stagioni dell’Iri, dell’Eni ma anche dell’Efim e dell’Egam, le dissipazioni del “panettone di Stato”, la violazione della concorrenza, lo spreco di risorse pubbliche.

Discussione aperta, dunque. Storica. E contemporanea.

Era servito, il ruolo dello Stato, con le scelte degli investimenti pubblici per costruire le grandi infrastrutture e con le attività di Iri, Eni e Cassa del Mezzogiorno nel sostenere la trasformazione dell’Italia da paese agricolo a potenza industriale europea. Ma poi tutto s’era appannato nello scambio distorto tra spesa pubblica e costruzione del consenso. Su un altro versante, quello privato, ecco il “capitalismo senza capitali”, il controverso ruolo di Mediobanca, la protezione dei patti di sindacato, il “capitalismo di relazione” nei cosiddetti “salotti buoni”. Si salvano in qualche modo le grandi famiglie, si tiene ai margini il mercato. C’è un perverso intreccio tra imprenditori e politici, con sostegno alle posizioni di potere e di rendita, dagli anni Cinquanta a Tangentopoli. E l’idea distorta del “primato della politica” e le tentazioni protezionistiche di parte della grande impresa (l’auto, innanzitutto), legate alle invadenze e alle resistenze di un’inefficiente Pubblica Amministrazione impediscono per lungo tempo, in Italia, la crescita di una robusta “cultura del mercato” e della concorrenza.

La crisi della grande impresa, soprattutto pubblica, che ha scarsa cultura di mercato e il contemporaneo fiorire (anni Settanta e Ottanta) d’una diffusa rete di medie e piccole imprese che si muovono sul mercato, il successo delle “multinazionali tascabili”, le “privatizzazioni” firmate da Carlo Azeglio Ciampi e Giuliano Amato in chiave Ue (importanti, anche quando limitate e inefficienti, come il “nocciolino duro” di Telecom) e le nuove ragioni della competizione internazionale cambiano radicalmente il quadro macro e micro-economico anche in Italia.

Non mancano le resistenze, politiche, sindacali, ma anche di ambienti di potere economico e finanziario. E restano sempre vivi, a dispetto delle intenzioni di riforma, il “capitalismo municipale” mai messo in crisi e le dominanze della mano pubblica nel settore dei servizi, dall’energia ai trasporti. E’ la cattiva politica industriale, quella da criticare e finalmente archiviare.

Vale la pena, invece, puntare sulle qualità di un’Italia che rimane, anche dopo la crisi, il secondo paese manifatturiero europeo, con un’incidenza della manifattura sul Pil del 29% in Lombardia, ma sfiora anche il 27% nell’area Toscana, Marche e Umbria (media dell’Italia 17%, obiettivo Ue 20% entro il 2020). E’ un’Italia che cresce, nonostante tutto, grazie al dinamismo delle imprese che hanno una cultura di mercato internazionale.

La nuova politica industriale va costruita partendo da qui. Da una relazione positiva tra le sfide poste dalle nuove tecnologie (industry 4.0, digital manufacturing, big data, cloud computing), rafforzando la competitività delle imprese.

Risorse per Industry 4.0”, ha promesso il ministro Calenda all’assemblea di Confindustria. Non incentivi per la chimica o la meccanica, per chi costruisce navi o automobili (la vecchia politica industriale, appunto). Ma infrastrutture (a cominciare dalla banda larga, senza cui non si può fare alcun digital manufacturing) e sostegni alle imprese che innovano, migliorano la qualità del prodotto e la sostenibilità della produzione (minori consumi di acqua ed energia, un’industria “green”), fanno ricerca con le università e i centri di ricerca pubblici e privati, rafforzano la loro capitalizzazione, aumentano di dimensione, vanno all’estero per conquistare nicchie di mercato e acquisire altre imprese. Nessun nazionalismo economico, nessuna protezione alla cosiddetta “italianità della proprietà”. “Per me è italiana un’impresa che lavora in Italia”, taglia corto Calenda.

Oggi dunque “fare politica industriale” significa porre le condizioni per la crescita del mercato e delle imprese: oltre alle infrastrutture materiali e immateriali migliori, servono investimenti pubblici in formazione e ricerca, pubblica amministrazione “leggera” e trasparente, giustizia e fisco efficienti ed efficaci.

La “politica industriale” è, in buona sostanza, favorire la “cultura del mercato”. E fornire “beni pubblici” (la formazione di ingegneri e tecnici, tanto per fare ancora un esempio) per consentire alle imprese di stare bene sul mercato, sui mercati europei e internazionali, reggendo la sfida della competizione per qualità.

Che cultura, dunque? Dell’innovazione. E della sostenibilità, ambientale e sociale. Della cultura legata all’impresa. E dell’impresa che sa competere. In che settori? Non tocca allo Stato né alle Regioni indicarli. Sono scelte autonome delle imprese. Anche se in ritardo, in Italia si parla finalmente di politica industriale che serve al mercato.

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