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Ecco perché c’è un’Italia “buy” e non “sell”, con imprese che si ostinano a crescere e costruire un migliore futuro

“L’Italia è un buy, non un sell”. Francesco Daveri e Gianmario Verona usano il linguaggio degli investitori di Borsa per parlare delle prospettive dell’economia italiana, sostenendo, in sintesi, che nonostante tutto, ci si più ancora fidare del nostro Paese. Nonostante la fragilità di una crescita economica inchiodata sullo “zero virgola”, visto che le nostre esportazioni, comunque, vanno bene. E nonostante la crescita del debito pubblico, perché riusciamo sempre a non essere, anche in tempi di crisi, debitori morosi.

Daveri e Verona sono economisti autorevoli, direttore del Master in Business Administration della Sda Bocconi il primo, Rettore della Bocconi il secondo. E hanno affidato alle pagine del “Corriere della Sera” (12 gennaio) la loro opinione a effetto, per cercare di introdurre alcuni elementi di riflessione critica in un coro, soprattutto internazionale, che guarda all’economia italiana come a un punto di crisi per tutta la Ue e che trova ampia eco sulla grande stampa (“The New York Times”, “The Economist”).

Sostengono Daveri e Verona che i timori di recessione sono stati sopravvalutati, visto che “negli ultimi due anni l’economia italiana è rimasta più o meno ferma dov’era” e che comunque “la sua incapacità di crescere a tassi decenti non è una novità”: siamo più o meno fermi da vent’anni. Eppure, in questo quadro, molte imprese, soprattutto nelle regioni del Nord, innovano, investono, crescono, cambiano lo stile manageriale (pure in tante piccole e medie d’origine familiare) ed esportano, per 655 miliardi di dollari, confermandoci all’ottavo posto nel mondo dopo Cina, Usa, Germania, Giappone, Francia, Regno Unito e Corea.

Siamo, insomma un paese con un alto livello di “resilienza” e anche nel Mezzogiorno, in piena crisi di deindustrializzazione, ci sono aree dinamiche, come dimostra, per esempio, “il duraturo successo dell’industria meccatronica di Bari”. Senza negare e dimenticare tutte le nostre negatività, dunque, all’Italia si può guardare con interesse e attenzione, anche per importanti investimenti internazionali. Un altro economista bocconiano di gran nome, Francesco Giavazzi, usa toni critici ma lontani dal pessimismo totale: “Tornare a crescere si può. Proviamoci insieme”, è il titolo di un lungo editoriale su “Sette”, il magazine del “Corriere della Sera” (10 gennaio), in cui si nota che “ci sono due paesi: uno che lotta per dividersi una torta sempre più piccola, un altro che compete nel mondo” e si insiste sulla necessità di aiutare le imprese a crescere, sviluppare le tecnologie 4.0 e “spostare le risorse dalle aziende improduttive a quelle produttive”, con scelte opportune di politica industriale e fiscale. E’ vero, “queste riallocazioni hanno dei costi” politici e sociali, rompono abitudini, clientele, aspettative, spostano equilibri. Ma “vale la pena pagarli”, proprio in nome dello sviluppo, del lavoro, delle prospettive delle nuove generazioni.

C’è un’altra voce rilevante da ascoltare, in questo contesto di cauto, critico ottimismo sull’Italia: quella di Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison, economista tra i più competenti sui movimenti dell’economia reale. Guardando agli andamenti di lungo periodo, Fortis, in un articolo su “Il Sole24Ore” (7 gennaio) intitolato “Pil, quando l’Italia fa meglio della Germania”, documenta che da 2015 al 2017 “la nostra manifattura ha creato più valore aggiunto di tedeschi e francesi, sostenendo gli investimenti”, mentre “il periodo 2010-2014 è stato segnato da un eccesso d’austerità che ha colpito la crescita economica”. Bisogna puntare sull’industria, dunque,  per rimettere in moto la crescita e riequilibrare così deficit e debito. Non tagli (se non alla spesa pubblica improduttiva), ma investimenti produttivi. Una indicazione chiara per tutta la strategia dell’Europa.

Cosa ricavare da questi interessanti punti di vista? Nessuno, naturalmente, nega “la stagnazione” (confermata proprio ieri dagli ultimi dati del Centro Studi Confindustria) né la perdurante stasi della produttività in Italia. Così come vanno registrati con preoccupazione i dati che dicono di un rallentamento dell’industria anche nelle aree forti del Paese, in Lombardia, Emilia e Nord Est (lo rivelano anche le più recenti indagini del Centro Studi Assolombarda). E, quanto all’occupazione, è vero che sono cresciuti i posti di lavoro, ma non le ore lavorate, segno di un peggioramento di condizioni, redditi e, appunto, produttività, come nota un giornalista acuto e ben informato, Dario Di Vico, evidenziando “lo strano caso del divorzio tra Pil e occupazione” (“Corriere della Sera”, 11 gennaio) e documentando “il boom dei ‘lavoretti’, il nodo del terziario debole, a basso valore aggiunto e l’industria che frena”.

Eppure, nonostante tutto, ci sono margini per la ripresa (il governo prevede una crescita 2020 dello 0,6% del Pil), con “fondamentali economici” da non dimenticare. Come? Il “cambio di paradigma” necessario per la nostra economia, secondo criteri di sostenibilità ambientale e sociale, facendo leva sul green new deal tanto caro alla Ue e sulle misure contro le diseguaglianze sociali e per un miglioramento della formazione e della “economia della conoscenza” trova molte delle nostre imprese in piena sintonia, per caratteristiche sociali e culturali di fondo, per diffusa sensibilità verso l’inclusione sociale e il welfare, per consapevolezza del legame stretto tra competitività e solidarietà (lo documentano bene le pagine delle ricerche di Symbola e del Centro Studi Confindustria).

La crescita, pur in tempi di crisi, delle imprese più dinamiche (proprio quelle cui guardano gli economisti citati in questo blog) conferma un’innovativa forza di larghi settori della nostra economia, in grado di reggere la concorrenza. Lo racconta anche Federico Fubini su “L’Economia” del “Corriere della Sera”, 13 gennaio: “Sommersi & salvati, l’industria che resiste al passo della recessione: farmaceutica, macchine, food e beverage sono tornati ben oltre i livelli di fatturato pre-Lehman, anche con politiche di investimento sostenute e sopra la media”, anche se “i quattro quinti del manifatturiero restano in mezzo al guado”. In sintesi: c’è da essere preoccupati, ma non disperati. E – ecco un punto importante – tutto questo succede in tempi di disattenzione se non di vera e propria ostilità verso le imprese presente in ambienti di governo. Una ostilità irresponsabile, un grave errore politico. Cui le imprese, comunque reagiscono, come possono e come sanno.

Al quadro va aggiunta pure la vitalità che si registra in ampie zone dell’Italia, nel Nord ma anche nel Mezzogiorno (qui purtroppo molto più sporadicamente) e che rivela una grande voglia di sviluppo, fuori dalle secche della crescita stentata e dalle irresponsabili derive della “decrescita infelice”. Sono, tutti questi, elementi cui il mondo politico deve guardare con molta attenzione e profondo senso di responsabilità. Le imprese, i lavoratori italiani, i nostri giovani, meritano scelte politiche e di governo che sappiano valorizzare e dare prospettive a quando di buono sta maturando, senza nutrire, con la propaganda cinica sulla crisi, disperazioni e rancori, ma dando forza alle speranze e alla volontà ragionevole di cambiamento. Spazio a un’Italia, appunto, buy e non sell. Nonostante tutto.

“L’Italia è un buy, non un sell”. Francesco Daveri e Gianmario Verona usano il linguaggio degli investitori di Borsa per parlare delle prospettive dell’economia italiana, sostenendo, in sintesi, che nonostante tutto, ci si più ancora fidare del nostro Paese. Nonostante la fragilità di una crescita economica inchiodata sullo “zero virgola”, visto che le nostre esportazioni, comunque, vanno bene. E nonostante la crescita del debito pubblico, perché riusciamo sempre a non essere, anche in tempi di crisi, debitori morosi.

Daveri e Verona sono economisti autorevoli, direttore del Master in Business Administration della Sda Bocconi il primo, Rettore della Bocconi il secondo. E hanno affidato alle pagine del “Corriere della Sera” (12 gennaio) la loro opinione a effetto, per cercare di introdurre alcuni elementi di riflessione critica in un coro, soprattutto internazionale, che guarda all’economia italiana come a un punto di crisi per tutta la Ue e che trova ampia eco sulla grande stampa (“The New York Times”, “The Economist”).

Sostengono Daveri e Verona che i timori di recessione sono stati sopravvalutati, visto che “negli ultimi due anni l’economia italiana è rimasta più o meno ferma dov’era” e che comunque “la sua incapacità di crescere a tassi decenti non è una novità”: siamo più o meno fermi da vent’anni. Eppure, in questo quadro, molte imprese, soprattutto nelle regioni del Nord, innovano, investono, crescono, cambiano lo stile manageriale (pure in tante piccole e medie d’origine familiare) ed esportano, per 655 miliardi di dollari, confermandoci all’ottavo posto nel mondo dopo Cina, Usa, Germania, Giappone, Francia, Regno Unito e Corea.

Siamo, insomma un paese con un alto livello di “resilienza” e anche nel Mezzogiorno, in piena crisi di deindustrializzazione, ci sono aree dinamiche, come dimostra, per esempio, “il duraturo successo dell’industria meccatronica di Bari”. Senza negare e dimenticare tutte le nostre negatività, dunque, all’Italia si può guardare con interesse e attenzione, anche per importanti investimenti internazionali. Un altro economista bocconiano di gran nome, Francesco Giavazzi, usa toni critici ma lontani dal pessimismo totale: “Tornare a crescere si può. Proviamoci insieme”, è il titolo di un lungo editoriale su “Sette”, il magazine del “Corriere della Sera” (10 gennaio), in cui si nota che “ci sono due paesi: uno che lotta per dividersi una torta sempre più piccola, un altro che compete nel mondo” e si insiste sulla necessità di aiutare le imprese a crescere, sviluppare le tecnologie 4.0 e “spostare le risorse dalle aziende improduttive a quelle produttive”, con scelte opportune di politica industriale e fiscale. E’ vero, “queste riallocazioni hanno dei costi” politici e sociali, rompono abitudini, clientele, aspettative, spostano equilibri. Ma “vale la pena pagarli”, proprio in nome dello sviluppo, del lavoro, delle prospettive delle nuove generazioni.

C’è un’altra voce rilevante da ascoltare, in questo contesto di cauto, critico ottimismo sull’Italia: quella di Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison, economista tra i più competenti sui movimenti dell’economia reale. Guardando agli andamenti di lungo periodo, Fortis, in un articolo su “Il Sole24Ore” (7 gennaio) intitolato “Pil, quando l’Italia fa meglio della Germania”, documenta che da 2015 al 2017 “la nostra manifattura ha creato più valore aggiunto di tedeschi e francesi, sostenendo gli investimenti”, mentre “il periodo 2010-2014 è stato segnato da un eccesso d’austerità che ha colpito la crescita economica”. Bisogna puntare sull’industria, dunque,  per rimettere in moto la crescita e riequilibrare così deficit e debito. Non tagli (se non alla spesa pubblica improduttiva), ma investimenti produttivi. Una indicazione chiara per tutta la strategia dell’Europa.

Cosa ricavare da questi interessanti punti di vista? Nessuno, naturalmente, nega “la stagnazione” (confermata proprio ieri dagli ultimi dati del Centro Studi Confindustria) né la perdurante stasi della produttività in Italia. Così come vanno registrati con preoccupazione i dati che dicono di un rallentamento dell’industria anche nelle aree forti del Paese, in Lombardia, Emilia e Nord Est (lo rivelano anche le più recenti indagini del Centro Studi Assolombarda). E, quanto all’occupazione, è vero che sono cresciuti i posti di lavoro, ma non le ore lavorate, segno di un peggioramento di condizioni, redditi e, appunto, produttività, come nota un giornalista acuto e ben informato, Dario Di Vico, evidenziando “lo strano caso del divorzio tra Pil e occupazione” (“Corriere della Sera”, 11 gennaio) e documentando “il boom dei ‘lavoretti’, il nodo del terziario debole, a basso valore aggiunto e l’industria che frena”.

Eppure, nonostante tutto, ci sono margini per la ripresa (il governo prevede una crescita 2020 dello 0,6% del Pil), con “fondamentali economici” da non dimenticare. Come? Il “cambio di paradigma” necessario per la nostra economia, secondo criteri di sostenibilità ambientale e sociale, facendo leva sul green new deal tanto caro alla Ue e sulle misure contro le diseguaglianze sociali e per un miglioramento della formazione e della “economia della conoscenza” trova molte delle nostre imprese in piena sintonia, per caratteristiche sociali e culturali di fondo, per diffusa sensibilità verso l’inclusione sociale e il welfare, per consapevolezza del legame stretto tra competitività e solidarietà (lo documentano bene le pagine delle ricerche di Symbola e del Centro Studi Confindustria).

La crescita, pur in tempi di crisi, delle imprese più dinamiche (proprio quelle cui guardano gli economisti citati in questo blog) conferma un’innovativa forza di larghi settori della nostra economia, in grado di reggere la concorrenza. Lo racconta anche Federico Fubini su “L’Economia” del “Corriere della Sera”, 13 gennaio: “Sommersi & salvati, l’industria che resiste al passo della recessione: farmaceutica, macchine, food e beverage sono tornati ben oltre i livelli di fatturato pre-Lehman, anche con politiche di investimento sostenute e sopra la media”, anche se “i quattro quinti del manifatturiero restano in mezzo al guado”. In sintesi: c’è da essere preoccupati, ma non disperati. E – ecco un punto importante – tutto questo succede in tempi di disattenzione se non di vera e propria ostilità verso le imprese presente in ambienti di governo. Una ostilità irresponsabile, un grave errore politico. Cui le imprese, comunque reagiscono, come possono e come sanno.

Al quadro va aggiunta pure la vitalità che si registra in ampie zone dell’Italia, nel Nord ma anche nel Mezzogiorno (qui purtroppo molto più sporadicamente) e che rivela una grande voglia di sviluppo, fuori dalle secche della crescita stentata e dalle irresponsabili derive della “decrescita infelice”. Sono, tutti questi, elementi cui il mondo politico deve guardare con molta attenzione e profondo senso di responsabilità. Le imprese, i lavoratori italiani, i nostri giovani, meritano scelte politiche e di governo che sappiano valorizzare e dare prospettive a quando di buono sta maturando, senza nutrire, con la propaganda cinica sulla crisi, disperazioni e rancori, ma dando forza alle speranze e alla volontà ragionevole di cambiamento. Spazio a un’Italia, appunto, buy e non sell. Nonostante tutto.

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