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Ecco perché un buon libro aiuta il manager e l’impresa a crescere meglio

Cosa leggono gli imprenditori e i manager? Libri di management, se va bene. Storie esemplari sui successi di note imprese. Manuali “how to do it”. E quasi nulla più. Il 38% di dirigenti, imprenditori e liberi professionisti dedica rapidi tempi di lettura a testi strettamente professionali, documenta infatti Giovanni Solimine in “L’Italia che legge”, un saggio pubblicato da Laterza nel 2010 ma ancora attuale. Pagine d’uso, dunque. E pochissimi romanzi, poca saggistica d’attualità, storia, filosofia, perfino economia. L’opinione diffusa, nel mondo dell’impresa, è che ci sia ben altro da fare che non leggere, se non “cose tecniche, utili”. Peccato. Per loro, e naturalmente per le loro imprese. “Capire l’uomo, i suoi difetti, le sue passioni è assolutamente indispensabile per chi fa impresa. E la letteratura è tra i migliori strumenti disponibili per riuscirci”, sostiene Ivan Lo Bello, vicepresidente di Confindustria per l’education, l’imprenditore che ha profondamente rinnovato i comportamenti degli industriali siciliani, rilanciando l’impegno per la legalità e contro le collusioni mafiose. Lo Bello ne parla a Filippo Astone sulle pagine della “Domenica” de “Il Sole24Ore” (un inserto culturale che manager e imprenditori farebbero davvero bene a leggere). E insiste sull’essenzialità di una buona cultura di fondo e sulla responsabilità di chi fa impresa nell’avere un ruolo attivo, nel determinare la propria vita: “La grande letteratura è indispensabile per tutti, imprenditori e non, perché è bellezza. E la bellezza dà senso e profondità al nostro vivere. Ti fa capire che la nostra vita va inventata, che c’è sempre una possibilità di determinazione”. Insiste, sempre sulla “Domenica” de “Il Sole24Ore” Oscar Farinetti: “La capacità di narrazione per valorizzare e vendere i prodotti dei nostri territori viene proprio dal rapporto con i buoni libri”. E Severino Salvemini, professore d’organizzazione aziendale alla Bocconi e studioso di punta delle relazioni tra cultura e impresa: “Le persone d’azienda che si occupano di prodotti e di mercati contemporanei devono per forza essere in sintonia con i linguaggi contemporanei e dunque leggere. Anche buona letteratura”.

Leggere cosa? Le indicazioni possono essere infinite. I classici latini, per ragionare sulla sostanza della leadership, per esempio, cominciando proprio con il “De bello gallico” di Cesare e poi con gli ammonimenti sull’etica, la politica, la responsabilità, di Cicerone, Seneca e Tacito. O le grandi opere di teatro: c’è nulla meglio del “Re Lear” di Shakespeare per indagare sull’avidità, sulla menzogna e sull’inganno, perfino dei familiari, nei confronti del potere e sugli errori nella scelta delle persone di fiducia. “L’elogio della follia” di Erasmo da Rotterdam, per cercare nei meandri del pensiero inconsueto e, perché no? eretico, la scintilla libera della creatività innovativa, anche dell’imprenditorialità. O la buona letteratura italiana, Manzoni e Leopardi. “Il Consiglio d’Egitto” di Sciascia, sull’impostura ela verità. “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, sulla fierezza dell’identità e la malinconia del tramonto. “Bouvard e Pecuchet” di Flaubert, per avere consapevolezza delle dimensioni della stupidità quotidiana (sulla stessa scia, “Allegro ma non troppo” di Carlo M. Cipolla). “La chiave a stella” di Levi, sull’orgoglio industriale. E così via continuando, sino a “Il falò delle vanità” di Tom Wolfe o “Il cardellino” di Donna Tart, best seller che rivela cosa abiti nel profondo del cuore di noi contemporanei.

Elenco lungo, anzi lunghissimo. Ogni lettore, anzi ogni manager che per sua fortuna (e della sua impresa) sia un robusto lettore, può continuarlo a suo piacere. Qui lo si conclude solo con un suggerimento: “Curarsi con i libri” ovvero “rimedi letterari per ogni malanno” di Ella Berthoud e Susan Elderkin, Sellerio. Ogni crisi ha un libro per cercare di venirne fuori. Più esattamente: quasi ogni crisi, tranne quella della non lettura. Che non è solo una crisi. Ma una terribile scelta di povertà.

Cosa leggono gli imprenditori e i manager? Libri di management, se va bene. Storie esemplari sui successi di note imprese. Manuali “how to do it”. E quasi nulla più. Il 38% di dirigenti, imprenditori e liberi professionisti dedica rapidi tempi di lettura a testi strettamente professionali, documenta infatti Giovanni Solimine in “L’Italia che legge”, un saggio pubblicato da Laterza nel 2010 ma ancora attuale. Pagine d’uso, dunque. E pochissimi romanzi, poca saggistica d’attualità, storia, filosofia, perfino economia. L’opinione diffusa, nel mondo dell’impresa, è che ci sia ben altro da fare che non leggere, se non “cose tecniche, utili”. Peccato. Per loro, e naturalmente per le loro imprese. “Capire l’uomo, i suoi difetti, le sue passioni è assolutamente indispensabile per chi fa impresa. E la letteratura è tra i migliori strumenti disponibili per riuscirci”, sostiene Ivan Lo Bello, vicepresidente di Confindustria per l’education, l’imprenditore che ha profondamente rinnovato i comportamenti degli industriali siciliani, rilanciando l’impegno per la legalità e contro le collusioni mafiose. Lo Bello ne parla a Filippo Astone sulle pagine della “Domenica” de “Il Sole24Ore” (un inserto culturale che manager e imprenditori farebbero davvero bene a leggere). E insiste sull’essenzialità di una buona cultura di fondo e sulla responsabilità di chi fa impresa nell’avere un ruolo attivo, nel determinare la propria vita: “La grande letteratura è indispensabile per tutti, imprenditori e non, perché è bellezza. E la bellezza dà senso e profondità al nostro vivere. Ti fa capire che la nostra vita va inventata, che c’è sempre una possibilità di determinazione”. Insiste, sempre sulla “Domenica” de “Il Sole24Ore” Oscar Farinetti: “La capacità di narrazione per valorizzare e vendere i prodotti dei nostri territori viene proprio dal rapporto con i buoni libri”. E Severino Salvemini, professore d’organizzazione aziendale alla Bocconi e studioso di punta delle relazioni tra cultura e impresa: “Le persone d’azienda che si occupano di prodotti e di mercati contemporanei devono per forza essere in sintonia con i linguaggi contemporanei e dunque leggere. Anche buona letteratura”.

Leggere cosa? Le indicazioni possono essere infinite. I classici latini, per ragionare sulla sostanza della leadership, per esempio, cominciando proprio con il “De bello gallico” di Cesare e poi con gli ammonimenti sull’etica, la politica, la responsabilità, di Cicerone, Seneca e Tacito. O le grandi opere di teatro: c’è nulla meglio del “Re Lear” di Shakespeare per indagare sull’avidità, sulla menzogna e sull’inganno, perfino dei familiari, nei confronti del potere e sugli errori nella scelta delle persone di fiducia. “L’elogio della follia” di Erasmo da Rotterdam, per cercare nei meandri del pensiero inconsueto e, perché no? eretico, la scintilla libera della creatività innovativa, anche dell’imprenditorialità. O la buona letteratura italiana, Manzoni e Leopardi. “Il Consiglio d’Egitto” di Sciascia, sull’impostura ela verità. “Il Gattopardo” di Tomasi di Lampedusa, sulla fierezza dell’identità e la malinconia del tramonto. “Bouvard e Pecuchet” di Flaubert, per avere consapevolezza delle dimensioni della stupidità quotidiana (sulla stessa scia, “Allegro ma non troppo” di Carlo M. Cipolla). “La chiave a stella” di Levi, sull’orgoglio industriale. E così via continuando, sino a “Il falò delle vanità” di Tom Wolfe o “Il cardellino” di Donna Tart, best seller che rivela cosa abiti nel profondo del cuore di noi contemporanei.

Elenco lungo, anzi lunghissimo. Ogni lettore, anzi ogni manager che per sua fortuna (e della sua impresa) sia un robusto lettore, può continuarlo a suo piacere. Qui lo si conclude solo con un suggerimento: “Curarsi con i libri” ovvero “rimedi letterari per ogni malanno” di Ella Berthoud e Susan Elderkin, Sellerio. Ogni crisi ha un libro per cercare di venirne fuori. Più esattamente: quasi ogni crisi, tranne quella della non lettura. Che non è solo una crisi. Ma una terribile scelta di povertà.

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