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Imprese e lavoro: più fiducia nell’Europa e un no deciso contro il “dumping sociale”

“Le imprese italiane hanno fiducia nell’Europa, insistono su una strada comune che rafforzi, contemporaneamente, sia la competitività sia l’inclusione sociale (la fabbrica, paradigma del lavoro, è appunto un luogo straordinario che, dalla seconda metà del Novecento, proprio in Italia,  lega diritti e doveri, cittadinanza e senso di responsabilità). Ma dicono anche un “no” molto netto al dumping sociale e sollecitano “la promozione di standard comuni di protezione del lavoro nei paesi membri, inclusa una maggiore armonizzazione dei sistemi esistenti di salario minimo”: non si fa concorrenza abbattendo salari e costruendo vantaggi fiscali nei singoli paesi con i contributi della Ue. Il mercato comune, insomma, è un luogo aperto e ben regolato, guidato da principi di concorrenza, ma certo non uno spazio di furbizie e scorciatoie.

L’appello alla Ue è contenuto in un documento firmato da Abi (le banche), Ania (le assicurazioni), Assonime (le imprese quotate in Borsa), Confindustria e Febaf (la federazione delle associazioni delle imprese finanziarie) diffuso nei giorni scorsi (Il Sole24Ore, 22 febbraio). E ha un forte sapore d’attualità, proprio negli ultimi giorni di una campagna elettorale gonfia di umori negativi contro l’Europa, di rancori sociali e di cupe tentazioni verso il nazionalismo e il protezionismo economico (con tanto di bizzarra riscoperta dei dazi, dichiarando una improbabile protezione delle imprese). L’Europa, dicono le associazioni d’impresa, non è in discussione. Semmai l’integrazione europea va rafforzata e migliorata, anche con impegni più robusti dei principali paesi: un nucleo forte e più dinamico, di cui è essenziale faccia parte, accanto a Germania e Francia (un asse oramai solido), anche l’Italia, terza economia europea, paese fondatore, convinto sostenitore, fin dai tempi di De Gasperi negli anni Cinquanta, dell’idea che sia proprio l’Europa a essere tanto il vincolo positivo quanto lo stimolo per un migliore sviluppo economico.

L’attualità del documento di Confindustria e delle altre organizzazioni è anche un’interessante presa di posizione che parte dalla cronaca (il caso Embraco-Whirlpool, la chiusura dello stabilimento industriale di Chieri, in Piemonte, per andare a produrre accumulatori in Slovacchia) per ragionare più in generale su investimenti, competitività dei territori, concorrenza.

La Embraco (società brasiliana della multinazionale Usa Whirlpool, leader mondiale dell’industria del “bianco”: lavatrici, lavastoviglie, frigoriferi, etc.) ha appena annunciato la chiusura della fabbrica piemontese (500 dipendenti) per andare a Spisska Nova Ves, nell’est slovacco: salari operai della metà (900 euro contro i 1700 italiani), sindacato più debole, vantaggi fiscali (che abbattono ancora il costo del lavoro). L’impresa non ha voluto sentire ragioni su mediazioni, soluzioni intermedie da approfondire, cassa integrazione, insistendo sui licenziamenti, tanto da suscitare l’ira del ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda (“Non mi era mai capitato di sentire un’impresa che dice che deve licenziare adesso perché altrimenti ha problemi con la Borsa, dimostrando così una totale mancanza di attenzione verso le persone e la responsabilità sociale”).

Ecco il problema del dumping sociale: ne parla il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e il ministro Calenda scrive a Bruxelles, al Commissario per la Concorrenza Margrethe Vestager per chiedere chiarimenti sul regime di agevolazioni fiscali applicato dalla Slovacchia alle imprese straniere. C’è un dumping fiscale che mette in crisi le regole della concorrenza all’interno della Ue e supporta il dumping sociale, la competizione ingiusta su retribuzioni e condizioni di lavoro. E l’Europa, perché continui a essere cornice comune e riferimento di valori e di regole, ha bisogno di trasparenza e correttezza.

Si torna, così, ai temi posti dal documento di Confindustria, Abi, Ania, Assonime e Febaf. L’Italia è un paese dinamico, con forte e radicata tendenza all’export. Per crescere, deve attrarre investimenti internazionali e spingere le proprie imprese a investire all’estero, essere ben inserita nelle evoluzioni dei mercati globali. E anche per questi motivi la relazione corretta con l’Europa è essenziale.

Nel documento, in 11 punti, si parla dell’Europa come “modello economico e sociale”, tenendo insieme competitività delle imprese e solidarietà tra i cittadini (un tema caro in particolare all’Assolombarda, che da anni a Milano porta avanti politiche che legano crescita economica e inclusione sociale, secondo la storica lezione dell’accoglienza ambrosiana) e di “tutela degli interessi” degli Stati membri europei in una cornice di “mondo globalizzato”, senza rifugiarsi in improduttive e antistoriche chiusure nei “nazionalismi”. Bisogna camminare lungo “la strada verso l’integrazione”, con “un nucleo di Stati organizzati attorno alla moneta comune” e costruire “politiche credibili su debito, produttività e sostenibilità”: non la rigida austerity e l’equilibrio solo formale dei conti, ma l’abbattimento di debito e deficit con politiche di investimenti e sviluppo”: una indicazione che mette in evidenza ruolo e responsabilità dell’Italia.

Un altro capitolo riguarda le iniziative per fare ripartire il mercato interno, puntando sulle nuove tecnologie su scala europea “per mobilitare importanti investimenti privati volti alla crescita di occupazione ed economia”. E ancora: “accrescere gli investimenti per rafforzare la competitività delle imprese”, definire “un mix di rigore e crescita”, decidere come “riassorbire le sacche di disoccupazione” e avviare “politiche per combattere il dumping sociale” (ne abbiamo parlato all’inizio”. Gli ultimi punti riguardano “la politica comune di governo delle frontiere”, ripartendo i costi delle scelte sull’immigrazione e l’accoglienza “fra tutti i paesi della Ue”; e “le responsabilità maggiori nelle politiche per la sicurezza”, definendo una “operatività militare comune”. Più Europa, dunque. Ed Europa migliore.

“Le imprese italiane hanno fiducia nell’Europa, insistono su una strada comune che rafforzi, contemporaneamente, sia la competitività sia l’inclusione sociale (la fabbrica, paradigma del lavoro, è appunto un luogo straordinario che, dalla seconda metà del Novecento, proprio in Italia,  lega diritti e doveri, cittadinanza e senso di responsabilità). Ma dicono anche un “no” molto netto al dumping sociale e sollecitano “la promozione di standard comuni di protezione del lavoro nei paesi membri, inclusa una maggiore armonizzazione dei sistemi esistenti di salario minimo”: non si fa concorrenza abbattendo salari e costruendo vantaggi fiscali nei singoli paesi con i contributi della Ue. Il mercato comune, insomma, è un luogo aperto e ben regolato, guidato da principi di concorrenza, ma certo non uno spazio di furbizie e scorciatoie.

L’appello alla Ue è contenuto in un documento firmato da Abi (le banche), Ania (le assicurazioni), Assonime (le imprese quotate in Borsa), Confindustria e Febaf (la federazione delle associazioni delle imprese finanziarie) diffuso nei giorni scorsi (Il Sole24Ore, 22 febbraio). E ha un forte sapore d’attualità, proprio negli ultimi giorni di una campagna elettorale gonfia di umori negativi contro l’Europa, di rancori sociali e di cupe tentazioni verso il nazionalismo e il protezionismo economico (con tanto di bizzarra riscoperta dei dazi, dichiarando una improbabile protezione delle imprese). L’Europa, dicono le associazioni d’impresa, non è in discussione. Semmai l’integrazione europea va rafforzata e migliorata, anche con impegni più robusti dei principali paesi: un nucleo forte e più dinamico, di cui è essenziale faccia parte, accanto a Germania e Francia (un asse oramai solido), anche l’Italia, terza economia europea, paese fondatore, convinto sostenitore, fin dai tempi di De Gasperi negli anni Cinquanta, dell’idea che sia proprio l’Europa a essere tanto il vincolo positivo quanto lo stimolo per un migliore sviluppo economico.

L’attualità del documento di Confindustria e delle altre organizzazioni è anche un’interessante presa di posizione che parte dalla cronaca (il caso Embraco-Whirlpool, la chiusura dello stabilimento industriale di Chieri, in Piemonte, per andare a produrre accumulatori in Slovacchia) per ragionare più in generale su investimenti, competitività dei territori, concorrenza.

La Embraco (società brasiliana della multinazionale Usa Whirlpool, leader mondiale dell’industria del “bianco”: lavatrici, lavastoviglie, frigoriferi, etc.) ha appena annunciato la chiusura della fabbrica piemontese (500 dipendenti) per andare a Spisska Nova Ves, nell’est slovacco: salari operai della metà (900 euro contro i 1700 italiani), sindacato più debole, vantaggi fiscali (che abbattono ancora il costo del lavoro). L’impresa non ha voluto sentire ragioni su mediazioni, soluzioni intermedie da approfondire, cassa integrazione, insistendo sui licenziamenti, tanto da suscitare l’ira del ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda (“Non mi era mai capitato di sentire un’impresa che dice che deve licenziare adesso perché altrimenti ha problemi con la Borsa, dimostrando così una totale mancanza di attenzione verso le persone e la responsabilità sociale”).

Ecco il problema del dumping sociale: ne parla il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e il ministro Calenda scrive a Bruxelles, al Commissario per la Concorrenza Margrethe Vestager per chiedere chiarimenti sul regime di agevolazioni fiscali applicato dalla Slovacchia alle imprese straniere. C’è un dumping fiscale che mette in crisi le regole della concorrenza all’interno della Ue e supporta il dumping sociale, la competizione ingiusta su retribuzioni e condizioni di lavoro. E l’Europa, perché continui a essere cornice comune e riferimento di valori e di regole, ha bisogno di trasparenza e correttezza.

Si torna, così, ai temi posti dal documento di Confindustria, Abi, Ania, Assonime e Febaf. L’Italia è un paese dinamico, con forte e radicata tendenza all’export. Per crescere, deve attrarre investimenti internazionali e spingere le proprie imprese a investire all’estero, essere ben inserita nelle evoluzioni dei mercati globali. E anche per questi motivi la relazione corretta con l’Europa è essenziale.

Nel documento, in 11 punti, si parla dell’Europa come “modello economico e sociale”, tenendo insieme competitività delle imprese e solidarietà tra i cittadini (un tema caro in particolare all’Assolombarda, che da anni a Milano porta avanti politiche che legano crescita economica e inclusione sociale, secondo la storica lezione dell’accoglienza ambrosiana) e di “tutela degli interessi” degli Stati membri europei in una cornice di “mondo globalizzato”, senza rifugiarsi in improduttive e antistoriche chiusure nei “nazionalismi”. Bisogna camminare lungo “la strada verso l’integrazione”, con “un nucleo di Stati organizzati attorno alla moneta comune” e costruire “politiche credibili su debito, produttività e sostenibilità”: non la rigida austerity e l’equilibrio solo formale dei conti, ma l’abbattimento di debito e deficit con politiche di investimenti e sviluppo”: una indicazione che mette in evidenza ruolo e responsabilità dell’Italia.

Un altro capitolo riguarda le iniziative per fare ripartire il mercato interno, puntando sulle nuove tecnologie su scala europea “per mobilitare importanti investimenti privati volti alla crescita di occupazione ed economia”. E ancora: “accrescere gli investimenti per rafforzare la competitività delle imprese”, definire “un mix di rigore e crescita”, decidere come “riassorbire le sacche di disoccupazione” e avviare “politiche per combattere il dumping sociale” (ne abbiamo parlato all’inizio”. Gli ultimi punti riguardano “la politica comune di governo delle frontiere”, ripartendo i costi delle scelte sull’immigrazione e l’accoglienza “fra tutti i paesi della Ue”; e “le responsabilità maggiori nelle politiche per la sicurezza”, definendo una “operatività militare comune”. Più Europa, dunque. Ed Europa migliore.

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