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In memoria di Falcone e Borsellino: il maxiprocesso antimafia, monumento giuridico ancora d’attualità

Servono, le ricorrenze e le commemorazioni. A tenere viva la memoria di avvenimenti e dei loro protagonisti. A cercare, con onestà intellettuale, di rendere attuale la forza d’un mito. A ricordare la storia, evitando di snaturarne l’anima con le precarie polemiche d’attualità. Venticinque anni fa, il 23 maggio e poi il 17 luglio del 1992, le bombe che fanno strage di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e degli uomini e donne delle loro scorte. Adesso, un quarto di secolo dopo, ecco le celebrazioni, le cerimonie, i discorsi, le trasmissioni tv. E i libri.

Libri puntuali e opportuni, come quello di Piero Grasso, oggi presidente del Senato, a lungo magistrato impegnato nella lotta alla mafia, a Palermo e a Roma (“Storia di sangue, amici e fantasmi”, edito da Feltrinelli, con lucida prefazione di Sergio Mattarella, presidente della Repubblica, palermitano, giurista e politico di gran livello, fratello d’un uomo politico serio e galantuomo, Piersanti, assassinato dalla mafia nel 1980 perché pretendeva, alla Regione siciliana, di fare funzionare cultura e regole del “buon governo”).

Come e cosa scrivere, in memoria di Falcone e Borsellino? Ricordare il maxi-processo, innanzitutto. Cominciato il 10 febbraio del 1986, concluso con la sentenza di primo grado nell’autunno del 1987 (tempi brevi, essenziali, dunque) con condanne giuste, rigorose, esemplari (17 ergastoli per boss e killer di mille omicidi e 2665 anni di carcere per gli altri imputati) e confermato in Cassazione all’inizio del 1992 (dopo un tentativo, reso giuridicamente vano, di ridimensionare le condanne in Corte d’Appello).

E’ stato un processo importante. Perché costruito benissimo dalle indagini accurate d’un pool antimafia voluto da Rocco Chinnici (fu assassinato, nel 1983, proprio per questo), guidato da Antonino Caponnetto e composto da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta, con il sostegno, alla Procura della Repubblica, di Giuseppe Ayala. Basato su indagini ben fatte da polizia, carabinieri e Guardia di Finanza, in piena collaborazione e non in conflitto tra loro. Istruito con sapienza e scrupolo cercando prove in dati, fatti, documenti e trovando sempre riscontri alle rivelazioni dei “pentititi” (Tommaso Buscetta e Totuccio Contorno, innanzitutto). Curato, durante le indagini e l’istruttoria, senza fughe di notizia, luci della ribalta, trucchi mediatici (non di tanti altri processi, dopo, si potrà purtroppo dire altrettanto). E poi gestito in aula con straordinaria competenza dal presidente Alfonso Giordano e dal giudice a latere Piero Grasso (tutti nomi da ricordare: eccellenti servitori dello Stato, uomini di legge e di giustizia): rispetto delle regole, del codice di procedura penale, dei diritti degli imputati e dei parenti delle vittime. Nessuno spazio a manovre dilatorie, pretesti, trucchi ruffiani delle difese. E ascolto, comunque, delle istanze degli avvocati difensori: anche una difesa ben costruita e rispettosa delle regole fa parte della buona giustizia. Ci si difende “nel” processo. E non “dal” processo, cercando la comoda ma indecente scappatoia della prescrizione.

E’ stato un monumento giuridico, quel maxi-processo. In cui lo Stato ha vinto, facendo bene lo Stato, applicando cioè la legge. E la mafia ha perso.

Ricordare dunque il maxiprocesso, studiarlo, prenderlo a esempio di civiltà giuridica e tecnica processuale (anche adesso che il Codice di Procedura Penale è cambiato) è un buon modo per rendere omaggio a Falcone, a Borsellino e a tutti gli altri uomini e donne dello Stato cui la mafia ha stroncato la vita. Persone perbene. Non eroi. Ma custodi di diritto e civiltà, contro la violenza mafiosa e i silenzi, le omertà e la corruzione dei troppi complici dei boss.

Vale, ancora oggi, quel loro insegnamento. Mentre la mafia è ancora attiva e presente (non solo a Palermo e a Trapani, ma anche a Milano) e dilaga un’”antimafia” retorica e parolaia, si costruiscono ribalte e carriere di chiacchiere, si irrobustiscono interessi particolari, all’ombra delle dichiarazioni e non dei fatti, su palcoscenici in cui l’antimafia si recita ma non si fa. Tutto il contrario della lezione di Falcone, Borsellino, ma anche di tante altre vittime, Costa, Chinnici, Russo, Terranova, Montana, Cassarà e così via dolorosamente citando.

C’è una seconda lezione di Falcone, da ricordare: la battaglia per la legalità è uno degli elementi fondamentali del senso dello Stato. L’applicazione delle regole della Costituzione. La quotidianità del lavoro di un “civil servant” qual è un magistrato. Senza protagonismi. Con un forte senso delle istituzioni.

Viviamo tempi complicati. In cui, in parecchie occasioni, gli strumenti della giustizia vengono utilizzati con scarso rispetto delle procedure (proprio la forma della legge, come ha insegnato Kelsen, è garanzia di giustizia) e con attenzione prevalente per il clamore sui media. E il processo mediatico è l’esatto contrario di un giusto processo.

E’ vero, tardano riforme essenziali. Prevale, anche in ambienti che dovrebbero essere ispirati dalla cultura del diritto, atteggiamenti di partigianeria politica. E leggi malfatte scaricano sulla magistratura incombenze e responsabilità che dovrebbero essere del governo o del legislatore. Ma pure da questo punto di vista la lezione di Falcone e Borsellino (e di altri magistrati che hanno animato la storia della Repubblica) può fornire utili indicazioni di grande attualità: il magistrato applica e interpreta la legge nei confini che gli vengono dalla legge stessa indicati e può inoltre contribuire, con indicazioni e consigli, a far scrivere dal Parlamento leggi migliori, più efficaci. Il lavoro fatto da Falcone al ministero di Grazia e Giustizia sulle nuove norme antimafia ne è esempio (non un patteggiamento improprio con la politica, come gli era stato ingiustamente rinfacciato da moralisti pelosi, ma un serio impegno istituzionale).

C’è ancora un’indicazione su cui riflettere, “in memoriam” ma anche dando evidenza a esperienze d’attualità. La macchina della giustizia può essere fatta funzionare meglio, pur in attesa di riforme. Le testimonianze che vengono, tanto per fare solo un esempio, dalle strutture giudiziarie di Milano possono fare da paradigma.

I bilanci sociali 2016 della Corte d’Appello, del Tribunale e della Procura della Repubblica, presentati all’inizio di maggio (ed elaborati con il supporto scientifico della SdaBocconi e il contributo di Assolombarda) documentano tempi più rapidi per la soluzione delle cause civili, efficienza ed efficacia dei giudizi del Tribunale delle imprese (il 68% viene deciso in un anno, solo il 20% delle sentenze di primo grado viene appellato e, negli appelli, si conferma nel 70% e più dei casi la sentenza di primo grado: un elemento importante di certezza del diritto), ma anche tempi sempre minori per le cause penali: il 52% di pendenze in meno, dal 2011 al 2016.

E’ importante, proprio a Milano, un miglioramento della qualità della giustizia. Pe fronteggiare l’estendersi della presenza della criminalità organizzata (indagini recenti, ben fatte, hanno colpito interessi di ‘ndrangheta e Cosa Nostra, in alcuni luoghi chiave dell’economia lombarda). E per dire a mondo economico e società civile che la legalità è cardine fondamentale della competitività e della crescita economica (ecco perché le buone imprese sono così interessate ai valori e alle pratiche della legalità e della giustizia efficace).

“La mafia non è affatto invincibile”, sosteneva Falcone. E aggiungeva: “E’ un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine”. Fare funzionare bene e credibilmente la giustizia accelera quella fine.

Servono, le ricorrenze e le commemorazioni. A tenere viva la memoria di avvenimenti e dei loro protagonisti. A cercare, con onestà intellettuale, di rendere attuale la forza d’un mito. A ricordare la storia, evitando di snaturarne l’anima con le precarie polemiche d’attualità. Venticinque anni fa, il 23 maggio e poi il 17 luglio del 1992, le bombe che fanno strage di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e degli uomini e donne delle loro scorte. Adesso, un quarto di secolo dopo, ecco le celebrazioni, le cerimonie, i discorsi, le trasmissioni tv. E i libri.

Libri puntuali e opportuni, come quello di Piero Grasso, oggi presidente del Senato, a lungo magistrato impegnato nella lotta alla mafia, a Palermo e a Roma (“Storia di sangue, amici e fantasmi”, edito da Feltrinelli, con lucida prefazione di Sergio Mattarella, presidente della Repubblica, palermitano, giurista e politico di gran livello, fratello d’un uomo politico serio e galantuomo, Piersanti, assassinato dalla mafia nel 1980 perché pretendeva, alla Regione siciliana, di fare funzionare cultura e regole del “buon governo”).

Come e cosa scrivere, in memoria di Falcone e Borsellino? Ricordare il maxi-processo, innanzitutto. Cominciato il 10 febbraio del 1986, concluso con la sentenza di primo grado nell’autunno del 1987 (tempi brevi, essenziali, dunque) con condanne giuste, rigorose, esemplari (17 ergastoli per boss e killer di mille omicidi e 2665 anni di carcere per gli altri imputati) e confermato in Cassazione all’inizio del 1992 (dopo un tentativo, reso giuridicamente vano, di ridimensionare le condanne in Corte d’Appello).

E’ stato un processo importante. Perché costruito benissimo dalle indagini accurate d’un pool antimafia voluto da Rocco Chinnici (fu assassinato, nel 1983, proprio per questo), guidato da Antonino Caponnetto e composto da Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta, con il sostegno, alla Procura della Repubblica, di Giuseppe Ayala. Basato su indagini ben fatte da polizia, carabinieri e Guardia di Finanza, in piena collaborazione e non in conflitto tra loro. Istruito con sapienza e scrupolo cercando prove in dati, fatti, documenti e trovando sempre riscontri alle rivelazioni dei “pentititi” (Tommaso Buscetta e Totuccio Contorno, innanzitutto). Curato, durante le indagini e l’istruttoria, senza fughe di notizia, luci della ribalta, trucchi mediatici (non di tanti altri processi, dopo, si potrà purtroppo dire altrettanto). E poi gestito in aula con straordinaria competenza dal presidente Alfonso Giordano e dal giudice a latere Piero Grasso (tutti nomi da ricordare: eccellenti servitori dello Stato, uomini di legge e di giustizia): rispetto delle regole, del codice di procedura penale, dei diritti degli imputati e dei parenti delle vittime. Nessuno spazio a manovre dilatorie, pretesti, trucchi ruffiani delle difese. E ascolto, comunque, delle istanze degli avvocati difensori: anche una difesa ben costruita e rispettosa delle regole fa parte della buona giustizia. Ci si difende “nel” processo. E non “dal” processo, cercando la comoda ma indecente scappatoia della prescrizione.

E’ stato un monumento giuridico, quel maxi-processo. In cui lo Stato ha vinto, facendo bene lo Stato, applicando cioè la legge. E la mafia ha perso.

Ricordare dunque il maxiprocesso, studiarlo, prenderlo a esempio di civiltà giuridica e tecnica processuale (anche adesso che il Codice di Procedura Penale è cambiato) è un buon modo per rendere omaggio a Falcone, a Borsellino e a tutti gli altri uomini e donne dello Stato cui la mafia ha stroncato la vita. Persone perbene. Non eroi. Ma custodi di diritto e civiltà, contro la violenza mafiosa e i silenzi, le omertà e la corruzione dei troppi complici dei boss.

Vale, ancora oggi, quel loro insegnamento. Mentre la mafia è ancora attiva e presente (non solo a Palermo e a Trapani, ma anche a Milano) e dilaga un’”antimafia” retorica e parolaia, si costruiscono ribalte e carriere di chiacchiere, si irrobustiscono interessi particolari, all’ombra delle dichiarazioni e non dei fatti, su palcoscenici in cui l’antimafia si recita ma non si fa. Tutto il contrario della lezione di Falcone, Borsellino, ma anche di tante altre vittime, Costa, Chinnici, Russo, Terranova, Montana, Cassarà e così via dolorosamente citando.

C’è una seconda lezione di Falcone, da ricordare: la battaglia per la legalità è uno degli elementi fondamentali del senso dello Stato. L’applicazione delle regole della Costituzione. La quotidianità del lavoro di un “civil servant” qual è un magistrato. Senza protagonismi. Con un forte senso delle istituzioni.

Viviamo tempi complicati. In cui, in parecchie occasioni, gli strumenti della giustizia vengono utilizzati con scarso rispetto delle procedure (proprio la forma della legge, come ha insegnato Kelsen, è garanzia di giustizia) e con attenzione prevalente per il clamore sui media. E il processo mediatico è l’esatto contrario di un giusto processo.

E’ vero, tardano riforme essenziali. Prevale, anche in ambienti che dovrebbero essere ispirati dalla cultura del diritto, atteggiamenti di partigianeria politica. E leggi malfatte scaricano sulla magistratura incombenze e responsabilità che dovrebbero essere del governo o del legislatore. Ma pure da questo punto di vista la lezione di Falcone e Borsellino (e di altri magistrati che hanno animato la storia della Repubblica) può fornire utili indicazioni di grande attualità: il magistrato applica e interpreta la legge nei confini che gli vengono dalla legge stessa indicati e può inoltre contribuire, con indicazioni e consigli, a far scrivere dal Parlamento leggi migliori, più efficaci. Il lavoro fatto da Falcone al ministero di Grazia e Giustizia sulle nuove norme antimafia ne è esempio (non un patteggiamento improprio con la politica, come gli era stato ingiustamente rinfacciato da moralisti pelosi, ma un serio impegno istituzionale).

C’è ancora un’indicazione su cui riflettere, “in memoriam” ma anche dando evidenza a esperienze d’attualità. La macchina della giustizia può essere fatta funzionare meglio, pur in attesa di riforme. Le testimonianze che vengono, tanto per fare solo un esempio, dalle strutture giudiziarie di Milano possono fare da paradigma.

I bilanci sociali 2016 della Corte d’Appello, del Tribunale e della Procura della Repubblica, presentati all’inizio di maggio (ed elaborati con il supporto scientifico della SdaBocconi e il contributo di Assolombarda) documentano tempi più rapidi per la soluzione delle cause civili, efficienza ed efficacia dei giudizi del Tribunale delle imprese (il 68% viene deciso in un anno, solo il 20% delle sentenze di primo grado viene appellato e, negli appelli, si conferma nel 70% e più dei casi la sentenza di primo grado: un elemento importante di certezza del diritto), ma anche tempi sempre minori per le cause penali: il 52% di pendenze in meno, dal 2011 al 2016.

E’ importante, proprio a Milano, un miglioramento della qualità della giustizia. Pe fronteggiare l’estendersi della presenza della criminalità organizzata (indagini recenti, ben fatte, hanno colpito interessi di ‘ndrangheta e Cosa Nostra, in alcuni luoghi chiave dell’economia lombarda). E per dire a mondo economico e società civile che la legalità è cardine fondamentale della competitività e della crescita economica (ecco perché le buone imprese sono così interessate ai valori e alle pratiche della legalità e della giustizia efficace).

“La mafia non è affatto invincibile”, sosteneva Falcone. E aggiungeva: “E’ un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine”. Fare funzionare bene e credibilmente la giustizia accelera quella fine.

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