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“La cultura per raccontare l’impresa”: al festival di Vicenza industria, teatro scrittura e musica

Fare cultura, per stimolare la crescita e la competitività delle nostre imprese, una buona cultura della fabbrica, della qualità, dell’innovazione. E rafforzare “le fabbriche della cultura”, l’editoria, i teatri, i conservatori di musica, i luoghi del cinema e della Tv, le reti creative in cui la memoria si mescola con i nuovi linguaggi digitali. Fare vivere l’industria, insomma. E raccontarla. E’ la doppia sfida che il Paese, gli imprenditori e gli intellettuali hanno davanti a loro, in una stagione di profonde e radicali trasformazioni dell’economia e delle relazioni sociali e culturali. E che va giocata innanzitutto dagli uomini e dalle donne d’impresa, in cerca di nuova e migliore legittimità, d’un equilibrio che coniughi “il valore” (il profitto, i legittimi interessi economici che girano attorno all’impresa) con “i valori”, di sostenibilità ambientale e sociale, la competitività con il bisogno di comunità (entrambe le parole hanno un’origine comune, nel “cum” latino: insieme).

Sono questi, i temi di fondo del dibattito su “La cultura che racconta l’impresa”, che domenica scorsa ha concluso a Vicenza i tre giorni del “Festival Città Impresa”, tradizionale appuntamento tra imprenditori, economisti, ministri, politici, sindacalisti, uomini e donne di cultura, per fare un punto sulla situazione economica e sociale del Paese e soprattutto di un’area, il Nord Est, in cui l’impresa ha una robusta centralità, storica e futuribile. Storie d’innovazione e di sfide produttive e culturali. Di radici locali della manifattura e di prospettive internazionali. Di declino dell’ideologia del “piccolo è bello” (con tanto di “familismo amorale” che azzoppa le vitalità del capitalismo di territorio). E di bisogno di approfondire le questioni della produttività, della concorrenza, dello sviluppo sostenibile. Della buona cultura d’impresa.

Cultura, s’è detto, come capacità competitiva distintiva dell’impresa italiana. Per capire meglio, si è citata la nota, sintetica citazione di un grande storico dell’economia, Carlo Maria Cipolla: “Gli italiani, abituati fin dal Medio Evo a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”. In questa frase c’è la sostanza dell’identità industriale del sistema Paese: la tradizione storica, il radicamento territoriale dell’impresa diffusa (“all’ombra dei campanili”), la manifattura, il design (“cose belle”) e l’antica vocazione internazionale. Valori storici carichi d’attualità. Che producono valore economico.

Parliamo qui d’una “cultura politecnica” come sintesi continuamente rinnovata tra saperi umanistici e competenze scientifiche, un “unicum” italiano, in questa dimensione. Cultura come strumento essenziale per reggere tutte le nuove sfide dell’innovazione, in tempi di digital manifacturing, stampanti 3D, big data, cloud computing, etc. Cultura per decrittare e riorganizzare complessità e contraddizioni. E per dare forza economica a una innovazione che investe produzioni e prodotti, materiali, linguaggi della comunicazione e del marketing, formazione, relazioni industriali, processi di governance, rapporti con gli stakeholder, comprensione delle diversità culturali e sociali dei diversi paesi in cui le migliori imprese italiane crescono e si internazionalizzano.

“Cultura politecnica”, vale la pena aggiungere, come relazione tra la scienza, la tecnologia e la loro rappresentazione. Come si ritrova, per esempio, nelle riflessioni di Leonardo Sinisgalli, ingegnere-poeta, negli anni Cinquanta manager della Pirelli e poi dell’Olivetti (due delle migliori fucine creative della cultura d’impresa italiana) e poi responsabile di “Civiltà delle macchine”, la rivista della Finmeccanica Iri che ha segnato positivamente la stagione del boom economico. Natura da trasformare, rispettandola. E scienza. Fabbrica e buona cultura, ancora una volta. Scrive Sinisgalli: “La Natura sa fabbricare oggetti, non fabbrica strumenti. La Natura non sente il bisogno di controllare, di misurare, non ha necessità di ripetere esattamente gli stessi gesti, di riposarsi nello stesso pensiero, nella stessa formula. […] La natura sa fabbricare i poliedri perfetti, reticoli cubici, reticoli esagonali, simmetrie pentagonali, ovoidi, spirali logaritmiche. […] La ruota non è una creatura, è soltanto una sigla, poco più di un numero, un numero figurato che può andare di qua o di là. Non può fermarsi, né tornare indietro. Se non per accidente. La Natura ha rimesso all’uomo queste responsabilità”.

Ecco un’altra parola chiave, di cui s’è sentita l’eco a Vicenza:responsabilità. D’un miglior modo di produrre. Ma anche di consumare. Di costruire rapporti più equilibrati tra economia, società, persone. E di fare, di questo lavorìo, un grande racconto, nelle forme che la cultura ci mette a disposizione: la scrittura, la rappresentazione teatrale, la fotografia, il cinema, i prodotti del mondo digitale, o perché no? la musica (scrivere un concerto, una suite, una sinfonia, un “corale” partendo dalle atmosfere e dai rumori della fabbrica?). In sintesi: fabbriche aperte alla cultura. E uomini e donne di cultura in fabbrica. Per confrontarsi. Capirsi. Riconoscersi come parti essenziali dello sviluppo italiano. E ritrovarsi come comunità. Non era comunità, d’altronde, la parola chiave della buona cultura d’impresa di Adriano Olivetti?

Fare cultura, per stimolare la crescita e la competitività delle nostre imprese, una buona cultura della fabbrica, della qualità, dell’innovazione. E rafforzare “le fabbriche della cultura”, l’editoria, i teatri, i conservatori di musica, i luoghi del cinema e della Tv, le reti creative in cui la memoria si mescola con i nuovi linguaggi digitali. Fare vivere l’industria, insomma. E raccontarla. E’ la doppia sfida che il Paese, gli imprenditori e gli intellettuali hanno davanti a loro, in una stagione di profonde e radicali trasformazioni dell’economia e delle relazioni sociali e culturali. E che va giocata innanzitutto dagli uomini e dalle donne d’impresa, in cerca di nuova e migliore legittimità, d’un equilibrio che coniughi “il valore” (il profitto, i legittimi interessi economici che girano attorno all’impresa) con “i valori”, di sostenibilità ambientale e sociale, la competitività con il bisogno di comunità (entrambe le parole hanno un’origine comune, nel “cum” latino: insieme).

Sono questi, i temi di fondo del dibattito su “La cultura che racconta l’impresa”, che domenica scorsa ha concluso a Vicenza i tre giorni del “Festival Città Impresa”, tradizionale appuntamento tra imprenditori, economisti, ministri, politici, sindacalisti, uomini e donne di cultura, per fare un punto sulla situazione economica e sociale del Paese e soprattutto di un’area, il Nord Est, in cui l’impresa ha una robusta centralità, storica e futuribile. Storie d’innovazione e di sfide produttive e culturali. Di radici locali della manifattura e di prospettive internazionali. Di declino dell’ideologia del “piccolo è bello” (con tanto di “familismo amorale” che azzoppa le vitalità del capitalismo di territorio). E di bisogno di approfondire le questioni della produttività, della concorrenza, dello sviluppo sostenibile. Della buona cultura d’impresa.

Cultura, s’è detto, come capacità competitiva distintiva dell’impresa italiana. Per capire meglio, si è citata la nota, sintetica citazione di un grande storico dell’economia, Carlo Maria Cipolla: “Gli italiani, abituati fin dal Medio Evo a produrre, all’ombra dei campanili, cose belle che piacciono al mondo”. In questa frase c’è la sostanza dell’identità industriale del sistema Paese: la tradizione storica, il radicamento territoriale dell’impresa diffusa (“all’ombra dei campanili”), la manifattura, il design (“cose belle”) e l’antica vocazione internazionale. Valori storici carichi d’attualità. Che producono valore economico.

Parliamo qui d’una “cultura politecnica” come sintesi continuamente rinnovata tra saperi umanistici e competenze scientifiche, un “unicum” italiano, in questa dimensione. Cultura come strumento essenziale per reggere tutte le nuove sfide dell’innovazione, in tempi di digital manifacturing, stampanti 3D, big data, cloud computing, etc. Cultura per decrittare e riorganizzare complessità e contraddizioni. E per dare forza economica a una innovazione che investe produzioni e prodotti, materiali, linguaggi della comunicazione e del marketing, formazione, relazioni industriali, processi di governance, rapporti con gli stakeholder, comprensione delle diversità culturali e sociali dei diversi paesi in cui le migliori imprese italiane crescono e si internazionalizzano.

“Cultura politecnica”, vale la pena aggiungere, come relazione tra la scienza, la tecnologia e la loro rappresentazione. Come si ritrova, per esempio, nelle riflessioni di Leonardo Sinisgalli, ingegnere-poeta, negli anni Cinquanta manager della Pirelli e poi dell’Olivetti (due delle migliori fucine creative della cultura d’impresa italiana) e poi responsabile di “Civiltà delle macchine”, la rivista della Finmeccanica Iri che ha segnato positivamente la stagione del boom economico. Natura da trasformare, rispettandola. E scienza. Fabbrica e buona cultura, ancora una volta. Scrive Sinisgalli: “La Natura sa fabbricare oggetti, non fabbrica strumenti. La Natura non sente il bisogno di controllare, di misurare, non ha necessità di ripetere esattamente gli stessi gesti, di riposarsi nello stesso pensiero, nella stessa formula. […] La natura sa fabbricare i poliedri perfetti, reticoli cubici, reticoli esagonali, simmetrie pentagonali, ovoidi, spirali logaritmiche. […] La ruota non è una creatura, è soltanto una sigla, poco più di un numero, un numero figurato che può andare di qua o di là. Non può fermarsi, né tornare indietro. Se non per accidente. La Natura ha rimesso all’uomo queste responsabilità”.

Ecco un’altra parola chiave, di cui s’è sentita l’eco a Vicenza:responsabilità. D’un miglior modo di produrre. Ma anche di consumare. Di costruire rapporti più equilibrati tra economia, società, persone. E di fare, di questo lavorìo, un grande racconto, nelle forme che la cultura ci mette a disposizione: la scrittura, la rappresentazione teatrale, la fotografia, il cinema, i prodotti del mondo digitale, o perché no? la musica (scrivere un concerto, una suite, una sinfonia, un “corale” partendo dalle atmosfere e dai rumori della fabbrica?). In sintesi: fabbriche aperte alla cultura. E uomini e donne di cultura in fabbrica. Per confrontarsi. Capirsi. Riconoscersi come parti essenziali dello sviluppo italiano. E ritrovarsi come comunità. Non era comunità, d’altronde, la parola chiave della buona cultura d’impresa di Adriano Olivetti?

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