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La lezione di Cook, Apple, ai laureati del Mit e l’anima filosofica necessaria alle tecnologie

“Non ho paura che l’intelligenza artificiale dia ai computer la capacità di pensare come gli esseri umani. Sono più preoccupato delle persone che pensano come computer, senza valori o compassione, senza preoccuparsi delle conseguenze”. Parla Tim Cook, Ceo e cioè “numero uno” della Apple, gigante della tecnologia. Sono i giorni caldi della metà di giugno. A Cambridge, nell’area metropolitana di Boston. Per la cerimonia di congedo ai laureandi del Mit, il prestigioso Massachusetts Institute of Technology. Nel suo discorso ai ragazzi proprio Cook, un ingegnere che ha studiato da manager ed è stato chiamato vent’anni fa da Steve Jobs ai vertici della Apple, insiste non tanto sullo straordinario progresso delle tecnologie, quanto soprattutto sulle responsabilità morali e civili che quel progresso comporta. Una riflessione densa di etica e cultura, oltre che di valori d’impresa (l’ha pubblicata in Italia il Corriere della Sera, il 18 giugno). Sulle “nuove idee grandi che possono cambiare il mondo”.

Benvenuta, infatti, tecnologia (anche nelle tracce dei temi per gli esami di maturità: futuro tecnologico e inquietudini da affrontare). Benvenuti, i robot che modificano radicalmente processi produttivi e prodotti e, connessi alle reti lungo cui si muovono i ”big data”, sono protagonisti della rivoluzione “digital” che sta trasformando industria e servizi. Benvenuti anche se vissuti come strumenti che tagliano posti di lavoro tradizionali. Perché proprio i progetti e i processi “hi tech” e “digital” migliorano qualità e produttività del lavoro, rafforzano conoscenze e competenze, potenziano la sicurezza (maggiori tecnologie, minori infortuni). Pur se aprono questioni culturali e politiche inedite, pongono sfide e creano allarme sociale.

E’ vero, parecchie lavorazioni e altrettante professionalità spariscono dall’orizzonte. Ma nuove se ne creano. E la sfida semmai è quella di governare in modo socialmente equilibrato la transizione, evitando che le nuove tecnologie aggravino gli squilibri professionali, retributivi e sociali. Questione politica. E culturale. Di governo della società. Di valori. Di nuove regole. Di più efficace costruzione di un innovativo “welfare state” (non il reddito di cittadinanza, ma la preparazione ad affrontare le evoluzioni del mercato del lavoro). Oltre che naturalmente di “governance” delle imprese (servono maggiore e migliore formazione, più spazio e responsabilità alle nuove idee).

Non siamo affatto di fronte, dunque, a una sorta di neo-illuminismo tecnologico. Tutt’altro. Semmai, ci si misura con l’approfondimento critico della dialettica tra vantaggi tecnologici e rischi, problemi e opportunità. Temi aperti sulla comprensione e sulla gestione delle nuove competenze, con responsabilità e senso del limite. Questioni filosofiche e antropologiche, appunto.

E’ proprio questa la sostanza della riflessione di Cook al Mit. Partendo da uno slogan che ha segnato la storia di Apple (“Think different”) e dall’ispirazione di Steve Jobs di “dare la possibilità ai folli – agli anticonformisti, ai ribelli, ai piantagrane, a tutti coloro che vedono le cose in modo diverso – di fare al meglio il loro lavoro”. Il pensiero imprenditoriale, d’altronde (ne abbiamo parlato più volte, in questo blog) è un pensiero creativo, spesso un pensiero eretico. Da mantenere vivo nel tempo. E da intrecciare a un’altra essenziale dimensione d’impresa: la produttività, la serialità dei processi, la qualità standard dei prodotti. Innovare. Fare profitti. Investire. Creare lavoro. Reggere competitività in tempi di sempre più rapidi e intensi cambiamenti. E’ una sintesi difficile. Fragile. Mutevole. Ma indispensabile. Come ogni buon imprenditore e manager capace sanno bene.

Insiste Cook: “Al Mit avete imparato che la scienza e la tecnologia hanno il potere di migliorare il mondo. Grazie alle scoperte fatte proprio qui miliardi di persone stanno conducendo una vita più sana, produttiva e appagante. E se mai riuscissimo a risolvere anche uno solo dei grandi problemi del mondo, dal cancro ai cambiamenti climatici, alla diseguaglianza educativa, sarà grazie alla tecnologia”.

Retorica hi tech? No. Aggiunge Cook: “La tecnologia da sola non basta. E talvolta può essere parte del problema”. Cita l’importanza delle posizioni di Papa Francesco (“l’incontro più incredibile della mia vita”) sulle responsabilità di governare il cambiamento, dare un’anima all’economia e costruire migliori equilibri sociali. Sottolinea gli aspetti negativi delle tecnologie stesse (“le minacce alla sicurezza e alla privacy, le notizie false e i social media che diventano antisociali”). E conferma che l’uso delle potenzialità positive della tecnologia “spetta a noi. Spetta ai nostri valori e al nostro impegno verso i nostri familiari, i vicini di casa, le nostre comunità, spetta al nostro amore per la bellezza e alla convinzione che le nostre fedi sono interconnesse, al nostro senso civico e alla nostra bontà d’animo”.

E’ un discorso americano. Noi ne avvertiamo la consonanza con le parole di grandi imprenditori italiani, da Adriano Olivetti ai Pirelli, sino ai medi e piccoli imprenditori che ancora oggi animano territori e comunità in cui l’impresa cresce sui valori, sulla qualità, sulla “morale del tornio”, sulla “fabbrica bella” perché sostenibile, ambientalmente e socialmente.

Sono riflessioni utili, quelle di Cook. Che si nutrono anche degli insegnamenti della cosiddetta “filosofia pratica” che da tempo prende piede nella Silicon Valley e ragiona sul valore delle persone, la leadership, i limiti del successo, la responsabilità, su “cos’è che conta davvero oltre il successo materiale?”. “Socrate lavora alla Apple”, titola “La Lettura” del “Corriere della Sera” (18 giugno), su un’intervista a Andrew James Taggart, filosofo all’Università del Wisconsin, teorico della “filosofia pratica” e consulente di imprenditori e artisti. Socrate per la sua capacità di fare domande scomode ed estranee al buon senso comune: “E’ sbagliato sostenere che gli esperti di tecnologia stiano guidando la rivoluzione industriale. Sarebbe invece più appropriato dire che l’innovazione e l’imprenditoria hanno bisogno di individui con un background nelle scienze umane e sociali per generare idee e raccontare storie riguardo a ciò che per il momento non esiste ma potrebbe esistere in futuro. La filosofia dà due contributi essenziali: fare domande che altri non ipotizzerebbero nemmeno; investigare questioni basilari con lo scopo di mostrare che è possibile immaginare alternative alla nostra realtà concreta. La filosofia, come l’arte, ricorre ai posteri dell’immaginazione nella prospettiva della creazione”.

“Think different”, appunto. Regola filosofica. E cardine d’impresa innovativa.

“Non ho paura che l’intelligenza artificiale dia ai computer la capacità di pensare come gli esseri umani. Sono più preoccupato delle persone che pensano come computer, senza valori o compassione, senza preoccuparsi delle conseguenze”. Parla Tim Cook, Ceo e cioè “numero uno” della Apple, gigante della tecnologia. Sono i giorni caldi della metà di giugno. A Cambridge, nell’area metropolitana di Boston. Per la cerimonia di congedo ai laureandi del Mit, il prestigioso Massachusetts Institute of Technology. Nel suo discorso ai ragazzi proprio Cook, un ingegnere che ha studiato da manager ed è stato chiamato vent’anni fa da Steve Jobs ai vertici della Apple, insiste non tanto sullo straordinario progresso delle tecnologie, quanto soprattutto sulle responsabilità morali e civili che quel progresso comporta. Una riflessione densa di etica e cultura, oltre che di valori d’impresa (l’ha pubblicata in Italia il Corriere della Sera, il 18 giugno). Sulle “nuove idee grandi che possono cambiare il mondo”.

Benvenuta, infatti, tecnologia (anche nelle tracce dei temi per gli esami di maturità: futuro tecnologico e inquietudini da affrontare). Benvenuti, i robot che modificano radicalmente processi produttivi e prodotti e, connessi alle reti lungo cui si muovono i ”big data”, sono protagonisti della rivoluzione “digital” che sta trasformando industria e servizi. Benvenuti anche se vissuti come strumenti che tagliano posti di lavoro tradizionali. Perché proprio i progetti e i processi “hi tech” e “digital” migliorano qualità e produttività del lavoro, rafforzano conoscenze e competenze, potenziano la sicurezza (maggiori tecnologie, minori infortuni). Pur se aprono questioni culturali e politiche inedite, pongono sfide e creano allarme sociale.

E’ vero, parecchie lavorazioni e altrettante professionalità spariscono dall’orizzonte. Ma nuove se ne creano. E la sfida semmai è quella di governare in modo socialmente equilibrato la transizione, evitando che le nuove tecnologie aggravino gli squilibri professionali, retributivi e sociali. Questione politica. E culturale. Di governo della società. Di valori. Di nuove regole. Di più efficace costruzione di un innovativo “welfare state” (non il reddito di cittadinanza, ma la preparazione ad affrontare le evoluzioni del mercato del lavoro). Oltre che naturalmente di “governance” delle imprese (servono maggiore e migliore formazione, più spazio e responsabilità alle nuove idee).

Non siamo affatto di fronte, dunque, a una sorta di neo-illuminismo tecnologico. Tutt’altro. Semmai, ci si misura con l’approfondimento critico della dialettica tra vantaggi tecnologici e rischi, problemi e opportunità. Temi aperti sulla comprensione e sulla gestione delle nuove competenze, con responsabilità e senso del limite. Questioni filosofiche e antropologiche, appunto.

E’ proprio questa la sostanza della riflessione di Cook al Mit. Partendo da uno slogan che ha segnato la storia di Apple (“Think different”) e dall’ispirazione di Steve Jobs di “dare la possibilità ai folli – agli anticonformisti, ai ribelli, ai piantagrane, a tutti coloro che vedono le cose in modo diverso – di fare al meglio il loro lavoro”. Il pensiero imprenditoriale, d’altronde (ne abbiamo parlato più volte, in questo blog) è un pensiero creativo, spesso un pensiero eretico. Da mantenere vivo nel tempo. E da intrecciare a un’altra essenziale dimensione d’impresa: la produttività, la serialità dei processi, la qualità standard dei prodotti. Innovare. Fare profitti. Investire. Creare lavoro. Reggere competitività in tempi di sempre più rapidi e intensi cambiamenti. E’ una sintesi difficile. Fragile. Mutevole. Ma indispensabile. Come ogni buon imprenditore e manager capace sanno bene.

Insiste Cook: “Al Mit avete imparato che la scienza e la tecnologia hanno il potere di migliorare il mondo. Grazie alle scoperte fatte proprio qui miliardi di persone stanno conducendo una vita più sana, produttiva e appagante. E se mai riuscissimo a risolvere anche uno solo dei grandi problemi del mondo, dal cancro ai cambiamenti climatici, alla diseguaglianza educativa, sarà grazie alla tecnologia”.

Retorica hi tech? No. Aggiunge Cook: “La tecnologia da sola non basta. E talvolta può essere parte del problema”. Cita l’importanza delle posizioni di Papa Francesco (“l’incontro più incredibile della mia vita”) sulle responsabilità di governare il cambiamento, dare un’anima all’economia e costruire migliori equilibri sociali. Sottolinea gli aspetti negativi delle tecnologie stesse (“le minacce alla sicurezza e alla privacy, le notizie false e i social media che diventano antisociali”). E conferma che l’uso delle potenzialità positive della tecnologia “spetta a noi. Spetta ai nostri valori e al nostro impegno verso i nostri familiari, i vicini di casa, le nostre comunità, spetta al nostro amore per la bellezza e alla convinzione che le nostre fedi sono interconnesse, al nostro senso civico e alla nostra bontà d’animo”.

E’ un discorso americano. Noi ne avvertiamo la consonanza con le parole di grandi imprenditori italiani, da Adriano Olivetti ai Pirelli, sino ai medi e piccoli imprenditori che ancora oggi animano territori e comunità in cui l’impresa cresce sui valori, sulla qualità, sulla “morale del tornio”, sulla “fabbrica bella” perché sostenibile, ambientalmente e socialmente.

Sono riflessioni utili, quelle di Cook. Che si nutrono anche degli insegnamenti della cosiddetta “filosofia pratica” che da tempo prende piede nella Silicon Valley e ragiona sul valore delle persone, la leadership, i limiti del successo, la responsabilità, su “cos’è che conta davvero oltre il successo materiale?”. “Socrate lavora alla Apple”, titola “La Lettura” del “Corriere della Sera” (18 giugno), su un’intervista a Andrew James Taggart, filosofo all’Università del Wisconsin, teorico della “filosofia pratica” e consulente di imprenditori e artisti. Socrate per la sua capacità di fare domande scomode ed estranee al buon senso comune: “E’ sbagliato sostenere che gli esperti di tecnologia stiano guidando la rivoluzione industriale. Sarebbe invece più appropriato dire che l’innovazione e l’imprenditoria hanno bisogno di individui con un background nelle scienze umane e sociali per generare idee e raccontare storie riguardo a ciò che per il momento non esiste ma potrebbe esistere in futuro. La filosofia dà due contributi essenziali: fare domande che altri non ipotizzerebbero nemmeno; investigare questioni basilari con lo scopo di mostrare che è possibile immaginare alternative alla nostra realtà concreta. La filosofia, come l’arte, ricorre ai posteri dell’immaginazione nella prospettiva della creazione”.

“Think different”, appunto. Regola filosofica. E cardine d’impresa innovativa.

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