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L’attualità della fabbrica rileggendo anche Marx

L’economia della conoscenza è nata nella fabbrica”, sostiene Joel Mokyr, uno dei maggiori studiosi dell’economia industriale, in “I doni di Atena – Le origini storiche dell’economia della conoscenza”, libro essenziale, pubblicato a Princeton nel 2002 e in Italia, da Il Mulino, nel 2004. C’è la lezione di Max Weber, in questo giudizio. Quella di Alfred Marshall, secondo cui l’organizzazione produttiva è il luogo del cambiamento molecolare, cumulativo, adattativo. Ma anche, andando ancora più indietro, quella di Karl Marx, che ne “Il Capitale” parla dell’ “incoercibile vitalità delle forze produttive”, descrive  “la produzione continua e cumulativa di conoscenza incorporata e generata nella fabbrica” e insiste che “oltre una certa soglia di sviluppo la fabbrica è soprattutto tecnica e conoscenza”. Fabbrica, dunque, come luogo dell’innovazione, della formazione di nuova cultura, della produzione di merci e servizi correlati ma anche di un sistema di relazioni che legano saperi diversi, quelli scientifici e tecnologici e quelli delle “scienze umane” indispensabili nella costruzione di metodi di guida e governo delle persone che lavorano e dei linguaggi per raccontare il lavoro stesso, i prodotti, i mercati, i consumi. Fabbrica, insomma, come posto in cui la tecnica si ibrida con l’etica (riecco Weber) e, perché no?, con l’estetica: la forma dei prodotti e adesso anche quella dei luoghi di produzione, con gli stabilimenti industriali “belli e sostenibili”, disegnati da grandi architetti con cura del lay out produttivo e dell’ergonomia che deve ispirare il singolo posto di lavoro, del paesaggio esterno e della luminosità e dell’accoglienza degli ambienti interni.  Anche da questo punto di vista, funziona lo slogan secondo cui “impresa è cultura”. Naturalmente, una “cultura politecnica”.

L’elaborazione di Mokyr ha ispirato il seminario “Nuove fabbriche – Lo sviluppo industriale a un tornante” organizzato la scorsa settima a Torino, nei capannoni degli ex stabilimenti industriali di corso Castelfidardo diventati sede del Politecnico, dall’Università Bocconi di Milano e dal Siti (l’Istituto sui sistemi territoriali per l’innovazione) e guidato da Giuseppe Berta, ottimo storico dell’industria (in febbraio, per Einaudi, uscirà un suo nuovo libro, “La produzione intelligente”, ispirato appunto all’evoluzione del sistema industriale italiano).

Ma ha ancora senso, oggi, parlare di fabbriche, quando l’Italia industriale sembra arretrare (fatto 100 l’indice della produzione industriale nel gennaio 2008, nel dicembre 2012 si è scesi a 76 e si continua ancora ad arretrare, in un processo che distrugge imprese, posti di lavoro, competenze)? Sì, ha senso, se al di là dei sintomi di declino e del tramonto della “grande fabbrica” che aveva connotato l’Italia del Novecento, si guarda al dinamismo di una serie di imprese piccole e medie che, soprattutto nel Nord Ovest e nel Nord Est, crescono, innovano, battono la crisi puntando sui mercati internazionali, mostrano la nuova vitalità del “made in Italy”.

Berta parla di competitività fondata sulla qualità e sull’ “alto di gamma” e spiega che “anche nel tessuto produttivo italiano si inizia ad intravvedere, accanto ai fenomeni di decadimento e di degrado del vecchio apparato produttivo, una sofisticata, sebbene ancora non coordinata, azione di convergenza tra numerose imprese, appartenenti a una varietà di aree economiche e settoriali, che mirano a riclassificare la loro attività, sia per mantenere il loro radicamento territoriale sia per incrementare la loro capacità di esportazione e di presenza internazionale”.

Fabbriche laboratorio, fabbriche che sperimentano nuove relazioni tra prodotto e servizio (e contribuiscono a innovare un sistema del terziario in Italia ancora tradizionale, scarsamente competitivo), fabbriche forti del primato del capitale umano e, appunto, della robusta “economia della conoscenza” italiana. Fabbriche driver di un possibile sviluppo, che rende realistico l’obiettivo dato dalla Ue e ribadito dal governo Letta di portare entro il 2020 al 20% l’incidenza della manifattura sul Pil (oggi siamo appena sotto il 17%).

C’è anche un altro motivo, che spinge a insistere sull’attualità della fabbrica. “La manifattura è un presidio di organizzazione razionale del Paese, mentre non lo sono la pubblica amministrazione, molti servizi pubblici, lo stesso mondo dello sport…”, sostiene Dario Di Vico, giornalista di solida esperienza e ottima conoscenza del tessuto economico italiano. Razionalità industriale. Innervata di creatività. E di robusta attitudine alla crescita. La scommessa dello sviluppo, nonostante tutto, non è affatto persa.

L’economia della conoscenza è nata nella fabbrica”, sostiene Joel Mokyr, uno dei maggiori studiosi dell’economia industriale, in “I doni di Atena – Le origini storiche dell’economia della conoscenza”, libro essenziale, pubblicato a Princeton nel 2002 e in Italia, da Il Mulino, nel 2004. C’è la lezione di Max Weber, in questo giudizio. Quella di Alfred Marshall, secondo cui l’organizzazione produttiva è il luogo del cambiamento molecolare, cumulativo, adattativo. Ma anche, andando ancora più indietro, quella di Karl Marx, che ne “Il Capitale” parla dell’ “incoercibile vitalità delle forze produttive”, descrive  “la produzione continua e cumulativa di conoscenza incorporata e generata nella fabbrica” e insiste che “oltre una certa soglia di sviluppo la fabbrica è soprattutto tecnica e conoscenza”. Fabbrica, dunque, come luogo dell’innovazione, della formazione di nuova cultura, della produzione di merci e servizi correlati ma anche di un sistema di relazioni che legano saperi diversi, quelli scientifici e tecnologici e quelli delle “scienze umane” indispensabili nella costruzione di metodi di guida e governo delle persone che lavorano e dei linguaggi per raccontare il lavoro stesso, i prodotti, i mercati, i consumi. Fabbrica, insomma, come posto in cui la tecnica si ibrida con l’etica (riecco Weber) e, perché no?, con l’estetica: la forma dei prodotti e adesso anche quella dei luoghi di produzione, con gli stabilimenti industriali “belli e sostenibili”, disegnati da grandi architetti con cura del lay out produttivo e dell’ergonomia che deve ispirare il singolo posto di lavoro, del paesaggio esterno e della luminosità e dell’accoglienza degli ambienti interni.  Anche da questo punto di vista, funziona lo slogan secondo cui “impresa è cultura”. Naturalmente, una “cultura politecnica”.

L’elaborazione di Mokyr ha ispirato il seminario “Nuove fabbriche – Lo sviluppo industriale a un tornante” organizzato la scorsa settima a Torino, nei capannoni degli ex stabilimenti industriali di corso Castelfidardo diventati sede del Politecnico, dall’Università Bocconi di Milano e dal Siti (l’Istituto sui sistemi territoriali per l’innovazione) e guidato da Giuseppe Berta, ottimo storico dell’industria (in febbraio, per Einaudi, uscirà un suo nuovo libro, “La produzione intelligente”, ispirato appunto all’evoluzione del sistema industriale italiano).

Ma ha ancora senso, oggi, parlare di fabbriche, quando l’Italia industriale sembra arretrare (fatto 100 l’indice della produzione industriale nel gennaio 2008, nel dicembre 2012 si è scesi a 76 e si continua ancora ad arretrare, in un processo che distrugge imprese, posti di lavoro, competenze)? Sì, ha senso, se al di là dei sintomi di declino e del tramonto della “grande fabbrica” che aveva connotato l’Italia del Novecento, si guarda al dinamismo di una serie di imprese piccole e medie che, soprattutto nel Nord Ovest e nel Nord Est, crescono, innovano, battono la crisi puntando sui mercati internazionali, mostrano la nuova vitalità del “made in Italy”.

Berta parla di competitività fondata sulla qualità e sull’ “alto di gamma” e spiega che “anche nel tessuto produttivo italiano si inizia ad intravvedere, accanto ai fenomeni di decadimento e di degrado del vecchio apparato produttivo, una sofisticata, sebbene ancora non coordinata, azione di convergenza tra numerose imprese, appartenenti a una varietà di aree economiche e settoriali, che mirano a riclassificare la loro attività, sia per mantenere il loro radicamento territoriale sia per incrementare la loro capacità di esportazione e di presenza internazionale”.

Fabbriche laboratorio, fabbriche che sperimentano nuove relazioni tra prodotto e servizio (e contribuiscono a innovare un sistema del terziario in Italia ancora tradizionale, scarsamente competitivo), fabbriche forti del primato del capitale umano e, appunto, della robusta “economia della conoscenza” italiana. Fabbriche driver di un possibile sviluppo, che rende realistico l’obiettivo dato dalla Ue e ribadito dal governo Letta di portare entro il 2020 al 20% l’incidenza della manifattura sul Pil (oggi siamo appena sotto il 17%).

C’è anche un altro motivo, che spinge a insistere sull’attualità della fabbrica. “La manifattura è un presidio di organizzazione razionale del Paese, mentre non lo sono la pubblica amministrazione, molti servizi pubblici, lo stesso mondo dello sport…”, sostiene Dario Di Vico, giornalista di solida esperienza e ottima conoscenza del tessuto economico italiano. Razionalità industriale. Innervata di creatività. E di robusta attitudine alla crescita. La scommessa dello sviluppo, nonostante tutto, non è affatto persa.

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