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L’autunno dell’economia mondiale fra timori di recessione e impegni per la green economy

L’autunno dell’economia mondiale comincia con un doppio segno. Quello dei timori d’una nuova recessione globale. E quello, del tutto opposto, carico di fiducia, dell’attenzione crescente ai temi ambientali espressa sia dal mondo economico che dai governi del G7, preoccupati per i roghi che devastano Siberia, Amazzonia ed Africa e il contemporaneo scioglimento dei ghiacciai e ben intenzionati, dunque, a ragionare concretamente di “sviluppo sostenibile”.

Ci si può fare ironia, come il tagliente Altan (“La recessione è un fatto transitorio”, dice uno dei suoi omini un po’ truci. “Poi andrà peggio”, replica l’altro). Ma anche ragionare positivamente su quella che sembra una svolta etica delle imprese: il documento della Business Roundtable (il club delle principali 180 multinazionali azionali Usa) che mette in secondo piano il principio dello shareholder value (profitto e valore delle azioni) per lasciare uno spazio essenziale agli interessi e ai valori degli stakeholders (dipendenti, consumatori, fornitori, persone delle comunità coinvolte dall’attività delle imprese).

Per dirla in sintesi: entriamo in un autunno in cui il tema centrale è la crescita economica, ma d’una qualità e d’un equilibrio molto migliori che nel passato.

L’economia globale sta rallentando, sostengono i principali banchieri mondiali riuniti, alla fine d’agosto, tra le montagne del Wyoming, negli Usa. S’avverte l’ombra della recessione, conferma la Bce, ben consapevole della crisi dell’economia tedesca (bloccata soprattutto dalle difficoltà del settore dell’auto) e della stagnazione italiana, che dura oramai da cinque trimestri (l’Istat, venerdì, ha confermato per l’Italia crescita zero per il 2019) e della fragilità di tutta l’area Ue (crescita prevista dell’1,1%). Le guerre dei dazi e delle valute scatenate dal sovranismo irresponsabile di Triumph, verso la Cina e l’Europa stanno amplificando le conseguenze negative per tutto il commercio internazionale. La Brexit aggrava il quadro. Le tensioni politiche in Cina (Hong Kong), India, Iran e Africa tengono un po’ tutto il mondo in grande tensione.

C’è dunque da essere preoccupati, seriamente. Eppure, chi osserva con attenzione i fenomeni economici, non può non nutrire anche alcune fondate speranze sulle ipotesi di radicali e positivi cambiamenti del contesto. Quali? Quelli che potremmo riassumere sotto il cappello della green economy.

Guardiamo meglio, allora, al documento della Business Roundtable. Firmato nel cuore d’agosto da più di 180 top manager (quelli di Amazon, Apple, Accenture, BlackRock, IBM, JP Morgan, Goldman Sachs, Coca Cola, General Motors, At&T e delle altre grandi aziende della Corporate America, con 15milioni di dipendenti), rovescia la shareholder theory di Milton Friedman (“La responsabilità sociale delle imprese consiste nell’aumentare i profitti”) che ha nutrito e distorto pensieri e azioni economiche dagli anni Ottanta a oggi e sostiene che, accanto ai profitti, compito delle imprese sia quello di arricchire la vita dei propri dipendenti, dei consumatori, dei fornitori e delle comunità, nel rispetto dei diritti e dei valori delle persone e dell’ambiente. Dai Chicago Boys liberisti di Friedman alla rilettura di Keynes, liberale con forte sensibilità sociale, si potrebbe dire in una sola frase di sintesi.

Guardiamo meglio. È una svolta opportunistica, per cercare di salvare con una riverniciata green gli interessi di un business che incontra crescenti critiche etiche e sociali, dicono gli osservatori più sospettosi e disincantati. Una vera e propria “sterzata nella filosofia degli imprenditori”, s’entusiasma invece The Wall Street Journal. Anche The Economist è positivamente orientato, parlando di impegno sociale delle imprese, per un capitalismo “civile” o ancora più precisamente “collettivo”, attento alle esigenze della società. “La svolta etica del capitalismo”, titola il Corriere della Sera. Opportunista o meno che sia la svolta, le dichiarazioni formali dei documenti hanno una loro forza, una certa solennità. E queste risentono comunque degli orientamenti di un’opinione pubblica che, soprattutto tra i millennials (i nati tra il 1981 e il 1996), come manager ma anche come consumatori, mostra una crescente sensibilità per il temi ambientali e gli equilibri sociali (lo ha ben documentato su IlSole24Ore del 30 agosto Giorgio Barba Navaretti, economista impegnato tra l’Università Statale di Milano e SciencePo di Parigi). E possono avere un ruolo importante nel miglioramento del clima economico e nella costruzione di un nuovo e più equilibrato paradigma di crescita e contribuire a una “economia civile” e “circolare” nel segno della responsabilità d’uno sviluppo “sostenibile e inclusivo”, capace di legare competitività e sostenibilità ambientale e sociale.

Come? C’è una crescente letteratura economica e sociale, sul tema. E indicazioni interessanti si ritrovano anche nelle pagine di  “Responsabili”, il nuovo libro di Stefano Zamagni (edito da Il Mulino), un autorevole economista attento alle questioni sociali e, appunto, all’economia civile, adesso presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, molto ascoltato da Papa Francesco sui temi dell’”economia giusta”. Keynes, appunto (e i suoi nuovi interpreti, Stiglitz, Krugman, Fitoussi, Crouch). E un rilancio contemporaneo della dottrina sociale della Chiesa, in originale dialogo, che s’aggiorna con il miglior ambientalismo.

La svolta green e sostenibile della Corporate America, peraltro, arriva dopo le impegnative prese di posizione di imprese e associazioni imprenditoriali in Francia e in Germania, oltre che naturalmente in Italia, con la scelta di Confindustria che aveva reso pubblico, già nel 2018, il “Manifesto per la responsabilità sociale d’impresa per l’Industria 4.0”, legando innovazione hi tech e sostenibilità (una strada già percorsa da tempo, con successo, da parecchie delle migliori imprese italiane, come abbiamo raccontato spesso in questo blog). E sono molte le associazioni e le fondazioni d’impresa che sostengono le battaglie e le ricerche di Symbola, guidata da Ermete Realacci, una delle personalità più autorevoli dell’ambientalismo italiano e le attività dell’Asvis, l’associazione per lo sviluppo sostenibile, presieduta da Enrico Giovannini e impegnata a tradurre in prativa i principi dei Sustainable Development Goals degli accordi Onu di Parigi 2015.

Ecco dunque la leva essenziale della green economy. Può ispirare i programmi e le iniziative della nuova commissione Ue guidata da Ursula von del Leyen (ci sono già impegnative dichiarazioni in questo senso). Ma anche le attività del nuovo governo italiano, che sul legame tra competitività e sostenibilità può giocare molte carte positive.

L’autunno dell’economia mondiale comincia con un doppio segno. Quello dei timori d’una nuova recessione globale. E quello, del tutto opposto, carico di fiducia, dell’attenzione crescente ai temi ambientali espressa sia dal mondo economico che dai governi del G7, preoccupati per i roghi che devastano Siberia, Amazzonia ed Africa e il contemporaneo scioglimento dei ghiacciai e ben intenzionati, dunque, a ragionare concretamente di “sviluppo sostenibile”.

Ci si può fare ironia, come il tagliente Altan (“La recessione è un fatto transitorio”, dice uno dei suoi omini un po’ truci. “Poi andrà peggio”, replica l’altro). Ma anche ragionare positivamente su quella che sembra una svolta etica delle imprese: il documento della Business Roundtable (il club delle principali 180 multinazionali azionali Usa) che mette in secondo piano il principio dello shareholder value (profitto e valore delle azioni) per lasciare uno spazio essenziale agli interessi e ai valori degli stakeholders (dipendenti, consumatori, fornitori, persone delle comunità coinvolte dall’attività delle imprese).

Per dirla in sintesi: entriamo in un autunno in cui il tema centrale è la crescita economica, ma d’una qualità e d’un equilibrio molto migliori che nel passato.

L’economia globale sta rallentando, sostengono i principali banchieri mondiali riuniti, alla fine d’agosto, tra le montagne del Wyoming, negli Usa. S’avverte l’ombra della recessione, conferma la Bce, ben consapevole della crisi dell’economia tedesca (bloccata soprattutto dalle difficoltà del settore dell’auto) e della stagnazione italiana, che dura oramai da cinque trimestri (l’Istat, venerdì, ha confermato per l’Italia crescita zero per il 2019) e della fragilità di tutta l’area Ue (crescita prevista dell’1,1%). Le guerre dei dazi e delle valute scatenate dal sovranismo irresponsabile di Triumph, verso la Cina e l’Europa stanno amplificando le conseguenze negative per tutto il commercio internazionale. La Brexit aggrava il quadro. Le tensioni politiche in Cina (Hong Kong), India, Iran e Africa tengono un po’ tutto il mondo in grande tensione.

C’è dunque da essere preoccupati, seriamente. Eppure, chi osserva con attenzione i fenomeni economici, non può non nutrire anche alcune fondate speranze sulle ipotesi di radicali e positivi cambiamenti del contesto. Quali? Quelli che potremmo riassumere sotto il cappello della green economy.

Guardiamo meglio, allora, al documento della Business Roundtable. Firmato nel cuore d’agosto da più di 180 top manager (quelli di Amazon, Apple, Accenture, BlackRock, IBM, JP Morgan, Goldman Sachs, Coca Cola, General Motors, At&T e delle altre grandi aziende della Corporate America, con 15milioni di dipendenti), rovescia la shareholder theory di Milton Friedman (“La responsabilità sociale delle imprese consiste nell’aumentare i profitti”) che ha nutrito e distorto pensieri e azioni economiche dagli anni Ottanta a oggi e sostiene che, accanto ai profitti, compito delle imprese sia quello di arricchire la vita dei propri dipendenti, dei consumatori, dei fornitori e delle comunità, nel rispetto dei diritti e dei valori delle persone e dell’ambiente. Dai Chicago Boys liberisti di Friedman alla rilettura di Keynes, liberale con forte sensibilità sociale, si potrebbe dire in una sola frase di sintesi.

Guardiamo meglio. È una svolta opportunistica, per cercare di salvare con una riverniciata green gli interessi di un business che incontra crescenti critiche etiche e sociali, dicono gli osservatori più sospettosi e disincantati. Una vera e propria “sterzata nella filosofia degli imprenditori”, s’entusiasma invece The Wall Street Journal. Anche The Economist è positivamente orientato, parlando di impegno sociale delle imprese, per un capitalismo “civile” o ancora più precisamente “collettivo”, attento alle esigenze della società. “La svolta etica del capitalismo”, titola il Corriere della Sera. Opportunista o meno che sia la svolta, le dichiarazioni formali dei documenti hanno una loro forza, una certa solennità. E queste risentono comunque degli orientamenti di un’opinione pubblica che, soprattutto tra i millennials (i nati tra il 1981 e il 1996), come manager ma anche come consumatori, mostra una crescente sensibilità per il temi ambientali e gli equilibri sociali (lo ha ben documentato su IlSole24Ore del 30 agosto Giorgio Barba Navaretti, economista impegnato tra l’Università Statale di Milano e SciencePo di Parigi). E possono avere un ruolo importante nel miglioramento del clima economico e nella costruzione di un nuovo e più equilibrato paradigma di crescita e contribuire a una “economia civile” e “circolare” nel segno della responsabilità d’uno sviluppo “sostenibile e inclusivo”, capace di legare competitività e sostenibilità ambientale e sociale.

Come? C’è una crescente letteratura economica e sociale, sul tema. E indicazioni interessanti si ritrovano anche nelle pagine di  “Responsabili”, il nuovo libro di Stefano Zamagni (edito da Il Mulino), un autorevole economista attento alle questioni sociali e, appunto, all’economia civile, adesso presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, molto ascoltato da Papa Francesco sui temi dell’”economia giusta”. Keynes, appunto (e i suoi nuovi interpreti, Stiglitz, Krugman, Fitoussi, Crouch). E un rilancio contemporaneo della dottrina sociale della Chiesa, in originale dialogo, che s’aggiorna con il miglior ambientalismo.

La svolta green e sostenibile della Corporate America, peraltro, arriva dopo le impegnative prese di posizione di imprese e associazioni imprenditoriali in Francia e in Germania, oltre che naturalmente in Italia, con la scelta di Confindustria che aveva reso pubblico, già nel 2018, il “Manifesto per la responsabilità sociale d’impresa per l’Industria 4.0”, legando innovazione hi tech e sostenibilità (una strada già percorsa da tempo, con successo, da parecchie delle migliori imprese italiane, come abbiamo raccontato spesso in questo blog). E sono molte le associazioni e le fondazioni d’impresa che sostengono le battaglie e le ricerche di Symbola, guidata da Ermete Realacci, una delle personalità più autorevoli dell’ambientalismo italiano e le attività dell’Asvis, l’associazione per lo sviluppo sostenibile, presieduta da Enrico Giovannini e impegnata a tradurre in prativa i principi dei Sustainable Development Goals degli accordi Onu di Parigi 2015.

Ecco dunque la leva essenziale della green economy. Può ispirare i programmi e le iniziative della nuova commissione Ue guidata da Ursula von del Leyen (ci sono già impegnative dichiarazioni in questo senso). Ma anche le attività del nuovo governo italiano, che sul legame tra competitività e sostenibilità può giocare molte carte positive.

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