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Le imprese: investire di più in innovazione e infrastrutture per poter reggere meglio la competizione internazionale

“Occorre investire di più”, dicono le imprese italiane, brave a reggere la competizione internazionale ma in affanno tutte le volte in cui la loro crescita è frenata dalle carenze delle infrastrutture, dalla burocrazia pesante, dalla giustizia lenta, dalla scarso impegno dello Stato su ricerca, formazione, innovazione, trasferimento tecnologico. Investire di più da parte della mano pubblica. E naturalmente mettere le imprese in condizione di continuare a lavorare e a incrementare i loro investimenti: stimoli fiscali e soprattutto ricostruzione delle fiducia.

Sono queste le opinioni che si ascoltano da Milano a Torino, dal Veneto all’Emilia, nei territori in cui i protagonisti più dinamici della nostra manifattura hanno finora fatto di tutto per superare la stagione della Grande Crisi e costruire nuove e migliori ragioni di competitività. Le loro voci sono state raccolte dal presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, quando all’Assemblea generale dell’organizzazione, il 22 maggio, ha parlato di “tre Sì: alla Tav, alle infrastrutture e alla crescita” e ha insistito sull’”urgenza di riaprire i cantieri e avviare una grande stagione di investimenti pubblici”. Ad ascoltare, oltre al presidente della Repubblica Sergio Mattarella (accolto da applausi lunghi, insistenti, molto convinti), c’erano anche il premier Giuseppe Conte e il ministro dello Sviluppo Economico e del Lavoro Luigi Di Maio, entrambi però incapaci di articolare un discorso non banale sulla politica economica e industriale che il governo dovrebbe pensare e tradurre in scelte (gli applausi per loro sono stati brevi, gelidi, a stento di cortesia).

Queste opinioni del “partito del Pil” (le imprese che producono ricchezza, benessere, lavoro e inclusione sociale, essenziale in un’Italia malgovernata e agitata da rancori e paure, alimentate da irresponsabili populisti) tornano di strettissima attualità proprio adesso che i risultati delle elezioni europee dicono che l’Europa, ben oltre gli egoismi nazionali, va rilanciata e resa più equilibrata e attenta sia allo sviluppo che a una migliore coesione sociale.

“Trasformare il Patto di Stabilità e Crescita in Patto di Crescita e Stabilità”, chiede Confindustria, consapevole che “solo attraverso la crescita è possibile garantire stabilità”, sollecitando dunque “un’Europa più coesa e forte”, tutto il contrario, cioè, del protezionismo nazionalistico e impaurito dei sovranisti. “L’Europa rimane la solida base su cui costruire il futuro”, chiarisce Confindustria, peraltro in piena concordanza con le altre grandi organizzazioni imprenditoriali di Francia e Germania (dove oltre 100mila grandi e medie imprese e un milione di Pmi, con 15 milioni di dipendenti in totale hanno espresso con nettezza il proprio sostegno al rilancio e al miglioramento dell’Unione Europea).

Senza un’Europa più forte non c’è sviluppo, dicono giustamente le imprese, preoccupate d’essere stritolate dalle conseguenze delle guerre commerciali tra Usa e Cina e dalle tensioni geopolitiche (in cui la Russia di Putin gioca un ruolo pericoloso, squilibrante e denso di incognite).

Questo ragionamento vale a maggior ragione in un’Italia in cui la crescita economica si rivela ancora una volta fragile, precaria, effimera e l’attuale governo, oltre che appesantire la spesa pubblica corrente e aggravare deficit e debito pubblico, ben poco ha fatto per cercare di portare il Paese fuori dalla stagnazione (“Questo governo fa retrocedere le imprese in serie B”, denuncia Michelangelo Agrusti, presidente di Unindustria di Pordenone, territorio di manifattura dinamica e servizi d’avanguardia, con il 60% di produzioni destinate all’export).

Il premier Conte si dice “ferocemente convinto” che il peggio sia passato e che l’Italia sia tornata a crescere dopo il semestre di recessione. I dati non confermano un avviso così spericolato. Perché l’Istat prevede che la crescita del 2019 sia dello 0,3% appena, dunque sostanzialmente piatta. E gran parte dei principali centri studi (Prometeia, Ref, Intesa San Paolo e Confindustria) temono che “il quadro congiunturale stia peggiorando” e stimano con preoccupazione l’andamento tra fermo e negativo di investimenti, produzione industriale, consumi e dunque occupazione: “Export e investimenti gelano il Pil”, titola “Il Sole24Ore” (25 maggio) parlando di “consumi deboli e domanda estera in calo” e prevedendo una “crescita negativa nel secondo semestre”, anche a causa della “incertezza internazionale: non solo l’Eurozona rallenta, ma anche in Usa e nei paesi asiatici il quadro si sta deteriorando”.

Andando a guardare più in profondità i dati sulla situazione economica italiana, secondo il Rapporto “Analisi dei settori industriali” curato da Prometeia e Intesa San Paolo, rielaborato da Assolombarda, si nota che “l’industria italiana ha fatturato stabile nel 2018”, con una “lenta crescita” prevista nel 2020-2023. E gli investimenti “sono in contrazione”, perché “pesa l’incertezza internazionale e nazionale”. Ecco un punto chiave: “Negli ultimi 10 anni l’Italia ha maturato un gap di investimenti del 35% da colmare rispetto alla Germania” e dunque la timida ripresa degli investimenti stessi, stimata nel 2020 tra l’1,1% per macchinari e attrezzature, il 2,5% nei mezzi di trasporto e l’1,8% nelle costruzioni è del tutto insufficiente per cercare di reggere il passo con i nostri competitor: “Questa ripresa degli investimenti è ancora troppo debole”.

C’è un altro punto su cui riflettere: nel corso della Grande Crisi le nostre imprese sono cresciute, sono più “resilienti” rispetto a dieci anni fa e hanno “spalle più ampie” rispetto al 2008, sono più forti o dal punto di vista della redditività e dell’equilibrio patrimoniale, ma non investono appunto per il clima di incertezza prevalente. Non hanno fiducia. E ha dunque ragione il presidente di Confindustria Boccia, ben consapevole del clima diffuso tra i suoi associati, quando denuncia: “Le parole che producono sfiducia sono contro l’interesse nazionale”.

Si va, insomma, verso un periodo ancora difficile, tra una confusa primavera e le preoccupazioni d’un autunno in cui bisognerà fare una legge finanziaria da almeno 30 miliardi di interventi, tra tagli e tasse (con l’incubo delle clausole di salvaguardia che farebbero crescere il peso dell’Iva, con conseguenze quanto mai negative sul commercio, i consumi, il lavoro).

Anche per questo serve un rilancio dell’Europa. Senza regole, investimenti, progetti di sviluppo ambiziosi per un nuovo grande piano di interventi per le infrastrutture materiali e immateriali, digitali (quello che le imprese chiamano “un nuovo Piano Delors: ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana), anche l’Italia soffrirà moltissimo. E la nostra crescita resterà rachitica, incapace cioè di dare risposte alle necessità di larghi settori dell’opinione pubblica italiana in termini di benessere, lavoro, sicurezza, prospettive d’un migliore futuro.

“Occorre investire di più”, dicono le imprese italiane, brave a reggere la competizione internazionale ma in affanno tutte le volte in cui la loro crescita è frenata dalle carenze delle infrastrutture, dalla burocrazia pesante, dalla giustizia lenta, dalla scarso impegno dello Stato su ricerca, formazione, innovazione, trasferimento tecnologico. Investire di più da parte della mano pubblica. E naturalmente mettere le imprese in condizione di continuare a lavorare e a incrementare i loro investimenti: stimoli fiscali e soprattutto ricostruzione delle fiducia.

Sono queste le opinioni che si ascoltano da Milano a Torino, dal Veneto all’Emilia, nei territori in cui i protagonisti più dinamici della nostra manifattura hanno finora fatto di tutto per superare la stagione della Grande Crisi e costruire nuove e migliori ragioni di competitività. Le loro voci sono state raccolte dal presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, quando all’Assemblea generale dell’organizzazione, il 22 maggio, ha parlato di “tre Sì: alla Tav, alle infrastrutture e alla crescita” e ha insistito sull’”urgenza di riaprire i cantieri e avviare una grande stagione di investimenti pubblici”. Ad ascoltare, oltre al presidente della Repubblica Sergio Mattarella (accolto da applausi lunghi, insistenti, molto convinti), c’erano anche il premier Giuseppe Conte e il ministro dello Sviluppo Economico e del Lavoro Luigi Di Maio, entrambi però incapaci di articolare un discorso non banale sulla politica economica e industriale che il governo dovrebbe pensare e tradurre in scelte (gli applausi per loro sono stati brevi, gelidi, a stento di cortesia).

Queste opinioni del “partito del Pil” (le imprese che producono ricchezza, benessere, lavoro e inclusione sociale, essenziale in un’Italia malgovernata e agitata da rancori e paure, alimentate da irresponsabili populisti) tornano di strettissima attualità proprio adesso che i risultati delle elezioni europee dicono che l’Europa, ben oltre gli egoismi nazionali, va rilanciata e resa più equilibrata e attenta sia allo sviluppo che a una migliore coesione sociale.

“Trasformare il Patto di Stabilità e Crescita in Patto di Crescita e Stabilità”, chiede Confindustria, consapevole che “solo attraverso la crescita è possibile garantire stabilità”, sollecitando dunque “un’Europa più coesa e forte”, tutto il contrario, cioè, del protezionismo nazionalistico e impaurito dei sovranisti. “L’Europa rimane la solida base su cui costruire il futuro”, chiarisce Confindustria, peraltro in piena concordanza con le altre grandi organizzazioni imprenditoriali di Francia e Germania (dove oltre 100mila grandi e medie imprese e un milione di Pmi, con 15 milioni di dipendenti in totale hanno espresso con nettezza il proprio sostegno al rilancio e al miglioramento dell’Unione Europea).

Senza un’Europa più forte non c’è sviluppo, dicono giustamente le imprese, preoccupate d’essere stritolate dalle conseguenze delle guerre commerciali tra Usa e Cina e dalle tensioni geopolitiche (in cui la Russia di Putin gioca un ruolo pericoloso, squilibrante e denso di incognite).

Questo ragionamento vale a maggior ragione in un’Italia in cui la crescita economica si rivela ancora una volta fragile, precaria, effimera e l’attuale governo, oltre che appesantire la spesa pubblica corrente e aggravare deficit e debito pubblico, ben poco ha fatto per cercare di portare il Paese fuori dalla stagnazione (“Questo governo fa retrocedere le imprese in serie B”, denuncia Michelangelo Agrusti, presidente di Unindustria di Pordenone, territorio di manifattura dinamica e servizi d’avanguardia, con il 60% di produzioni destinate all’export).

Il premier Conte si dice “ferocemente convinto” che il peggio sia passato e che l’Italia sia tornata a crescere dopo il semestre di recessione. I dati non confermano un avviso così spericolato. Perché l’Istat prevede che la crescita del 2019 sia dello 0,3% appena, dunque sostanzialmente piatta. E gran parte dei principali centri studi (Prometeia, Ref, Intesa San Paolo e Confindustria) temono che “il quadro congiunturale stia peggiorando” e stimano con preoccupazione l’andamento tra fermo e negativo di investimenti, produzione industriale, consumi e dunque occupazione: “Export e investimenti gelano il Pil”, titola “Il Sole24Ore” (25 maggio) parlando di “consumi deboli e domanda estera in calo” e prevedendo una “crescita negativa nel secondo semestre”, anche a causa della “incertezza internazionale: non solo l’Eurozona rallenta, ma anche in Usa e nei paesi asiatici il quadro si sta deteriorando”.

Andando a guardare più in profondità i dati sulla situazione economica italiana, secondo il Rapporto “Analisi dei settori industriali” curato da Prometeia e Intesa San Paolo, rielaborato da Assolombarda, si nota che “l’industria italiana ha fatturato stabile nel 2018”, con una “lenta crescita” prevista nel 2020-2023. E gli investimenti “sono in contrazione”, perché “pesa l’incertezza internazionale e nazionale”. Ecco un punto chiave: “Negli ultimi 10 anni l’Italia ha maturato un gap di investimenti del 35% da colmare rispetto alla Germania” e dunque la timida ripresa degli investimenti stessi, stimata nel 2020 tra l’1,1% per macchinari e attrezzature, il 2,5% nei mezzi di trasporto e l’1,8% nelle costruzioni è del tutto insufficiente per cercare di reggere il passo con i nostri competitor: “Questa ripresa degli investimenti è ancora troppo debole”.

C’è un altro punto su cui riflettere: nel corso della Grande Crisi le nostre imprese sono cresciute, sono più “resilienti” rispetto a dieci anni fa e hanno “spalle più ampie” rispetto al 2008, sono più forti o dal punto di vista della redditività e dell’equilibrio patrimoniale, ma non investono appunto per il clima di incertezza prevalente. Non hanno fiducia. E ha dunque ragione il presidente di Confindustria Boccia, ben consapevole del clima diffuso tra i suoi associati, quando denuncia: “Le parole che producono sfiducia sono contro l’interesse nazionale”.

Si va, insomma, verso un periodo ancora difficile, tra una confusa primavera e le preoccupazioni d’un autunno in cui bisognerà fare una legge finanziaria da almeno 30 miliardi di interventi, tra tagli e tasse (con l’incubo delle clausole di salvaguardia che farebbero crescere il peso dell’Iva, con conseguenze quanto mai negative sul commercio, i consumi, il lavoro).

Anche per questo serve un rilancio dell’Europa. Senza regole, investimenti, progetti di sviluppo ambiziosi per un nuovo grande piano di interventi per le infrastrutture materiali e immateriali, digitali (quello che le imprese chiamano “un nuovo Piano Delors: ne abbiamo parlato nel blog della scorsa settimana), anche l’Italia soffrirà moltissimo. E la nostra crescita resterà rachitica, incapace cioè di dare risposte alle necessità di larghi settori dell’opinione pubblica italiana in termini di benessere, lavoro, sicurezza, prospettive d’un migliore futuro.

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