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Le sfide della Regione A4 e la questione del Nord: senza politica né buon governo addio sviluppo

La geografia economica, oltre i confini della tradizione, ha un nuovo protagonista: la Regione A4. Quel territorio vasto, tutt’attorno all’autostrada (da qui il nome, una creazione di Dario Di Vico, acuta e intelligente “firma” del Corriere della Sera), che si snoda dal Piemonte al Friuli, ha come baricentro la Milano metropoli di conoscenza e servizi innovativi, incrocia la via Emilia della manifattura automotive e meccatronica e continua verso l’Est della Mitteleuropa e, poi, via via, verso i paesi dell’Oriente. E’ l’area economica più dinamica d’Italia, con caratteristiche e dimensioni pienamente europee, analoghi livelli di produttività e ricchezza, robusta capacità di innovazione. Un’innovazione, peraltro, basata sull’economia reale, sulla nuova manifattura medium tech e hi tech, fortemente innervata di servizi d’avanguardia e ben connessa lungo i grandi assi di comunicazione tra Ovest ed Est e Nord e Sud.

La “Regione A4” come regione d’Europa, dunque, scavalcando le indicazioni della geografia amministrativa, che distingue Piemonte e Lombardia, Emilia e Veneto, sino al Friuli. E trovando semmai consistenti elementi unificanti, pur attraverso territori ricchi di diversità e complessità (e con una dimensione politica che vede adesso una forte dominanza locale della Lega e del centro destra, eccezion fatta per Torino “grillina” e le Regioni Piemonte ed Emilia e il comune di Milano del centro-sinistra).

E’ il territorio dei distretti industriali più innovativi, che si stanno trasformando in meta-distretti e “filiere lunghe” seguendo i flussi della ricomposizione produttiva e delle supply chain secondo le strategie delle imprese grandi e medio-grandi presenti in Italia e aperte al mondo (Fca con Ferrari e Maserati, Techint, Pirelli, Siemens, Prysmian, Bayer, Audi con Ducati, General Electric, la Ima dei Vacchi e la Coesia dei Seragnoli, le chimiche di qualità come Mapei di Squinzi e le farmaceutiche d’eccellenza, Bracco e Dompè, Marchesini e Zambon, ma anche i gruppi con impronta pubblica, le Ferrovie e Fincantieri, Leonardo e le Poste e i colossi delle costruzioni come Salini-Impregilo e Maire Technimont, che portano nei grandi lavori pubblici internazionali competenze e saper fare italiano). E’ l’area europea in cui, proprio qui con particolare originalità, le tradizioni industriali ex fordiste si sono più trasformate, ibridandosi con le nuove dimensioni digital che costruiscono inedite relazioni tra produzioni della neo-fabbrica, logistica, ricerca, servizi e in cui i livelli elevati di competitività fanno i conti con le dimensioni necessarie della sostenibilità e dell’inclusione economica e sociale.

Nel rapporto tra luoghi in cambiamento e flussi continui tra territori e mondo, si sperimentano anche originali relazioni industriali, che trovano concretezza nei contratti di lavoro (metalmeccanici, chimici) a livello nazionale ma soprattutto aziendale e territoriale, legando salari a welfare, produttività a formazione, redditi a qualità della vita e del lavoro.

C’è insomma tutto in mondo in cambiamento, nella Regione A4. Lo documenta pure l’ultimo Rapporto Cerved-Confindustria (Il Sole24Ore, 5 maggio) sulle Pmi, le piccole e medie imprese, fotografando la ripresa di investimenti e fatturati soprattutto nelle aree del Centro-Nord: non si sono ancora recuperati i livelli precedenti alla Grande Crisi, ma il dinamismo è particolarmente accentuato sia nel Nord Ovest (con nascite record di nuove aziende) che nel Nord Est. Con una indicazione essenziale che viene dall’Emilia, in termini di rapporto tra competitività e coesione sociale: Pietro Ferrari, presidente di Confindustria Emilia-Romagna, ricorda il “Patto per il lavoro” firmato tra imprese e sindacati nell’estate 2015 per arrivare a una “piena e buona occupazione” entro il 2020 e nota che “non esistono imprese forti in territori che non sono forti e viceversa”. Così come da Assolombarda viene un’altra indicazione interessante, quella sulla “fabbrica bella” e cioè ben progettata, sicura, trasparente, sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale e in cui la ricerca di sicurezza e qualità del lavoro si lega strettamente con produttività e competitività.

Ha un’altra ambizione, questo Nord dinamico: fare da stimolo, da locomotiva per il resto del Paese, più lento e incerto nel crescere.

Lo ha spiegato bene Carlo Bonomi, in un’intervista, pochi giorni fa: “L’Italia ha bisogno di Milano quanto Milano ha bisogno dell’Italia. Egoisticamente, qui andiamo bene. Però ho paura dell’effetto elastico. Questa Milano che corre, che è nel mondo, non può continuare a farlo allargando la distanza dal resto dell’Italia. Non possiamo permetterci un Paese a due velocità o anche Milano finirà per essere tirata indietro. Siamo legati al Paese per la politica, la finanza pubblica, la burocrazia, la capacità di attrarre investimenti. Finora abbiamo retto sull’export e l’internazionalizzazione, ma la domanda interna è ferma da dieci anni. Va fatta ripartire” (Corriere della Sera, 5 maggio).

La sfida, dunque, è tutta politica, di prospettive. E’ proprio questa, la dimensione della cosiddetta “questione del Nord”. Come questione nazionale, non come rivendicazione territoriale.

Questo Nord chiede, adesso, proprio per continuare a reggere le sfide economiche internazionali che investono le sue imprese, atti concreti di buon governo, nel segno dello sviluppo sostenibile e delle prospettive europee. Guarda con preoccupazione al vuoto politico che sembra investire il Paese, all’inconcludenza delle trattative politiche, alla scarsa concretezza delle misure promesse a un’opinione pubblica disorientata.

In tempi in cui la Ue discute il suo bilancio e si definiscono le politiche pubbliche europee, l’assenza d’un governo italiano autorevole e lungimirante pesa.

Le Regioni del Nord, anche se su traiettorie diverse, dal Veneto alla Lombardia, dall’Emilia al Piemonte, avevano avviato un confronto, con il governo centrale, sui temi dell’autonomia, per cercare maggiori equilibri e migliore efficienza fiscale e amministrativa. Ci sono rischi, di parcellizzazione delle misure, ma anche opportunità, nel legame più stretto tra territori e governo locale. Ma anche quel percorso è bloccato. Farlo ripartire è urgente.

Il guaio è che a livello nazionale poco si discute di economia e molto, troppo, di alleanze oblique e nuove elezioni. Le imprese migliori, più internazionalizzate, più competitive sui mercati internazionali, possono continuare ad andare avanti, anche se un po’ zoppe, anche in assenza di governo. Ma tutto il resto del mondo dell’economia no. E il pericolo è che la fragile ripresa in corso rallenti o si blocchi. Con gravi conseguenze sul lavoro, sui redditi, sulle prospettive di futuro. Chi si muove nel mondo dell’economia lo sa bene. Manca altrettanta consapevolezza politica.

La geografia economica, oltre i confini della tradizione, ha un nuovo protagonista: la Regione A4. Quel territorio vasto, tutt’attorno all’autostrada (da qui il nome, una creazione di Dario Di Vico, acuta e intelligente “firma” del Corriere della Sera), che si snoda dal Piemonte al Friuli, ha come baricentro la Milano metropoli di conoscenza e servizi innovativi, incrocia la via Emilia della manifattura automotive e meccatronica e continua verso l’Est della Mitteleuropa e, poi, via via, verso i paesi dell’Oriente. E’ l’area economica più dinamica d’Italia, con caratteristiche e dimensioni pienamente europee, analoghi livelli di produttività e ricchezza, robusta capacità di innovazione. Un’innovazione, peraltro, basata sull’economia reale, sulla nuova manifattura medium tech e hi tech, fortemente innervata di servizi d’avanguardia e ben connessa lungo i grandi assi di comunicazione tra Ovest ed Est e Nord e Sud.

La “Regione A4” come regione d’Europa, dunque, scavalcando le indicazioni della geografia amministrativa, che distingue Piemonte e Lombardia, Emilia e Veneto, sino al Friuli. E trovando semmai consistenti elementi unificanti, pur attraverso territori ricchi di diversità e complessità (e con una dimensione politica che vede adesso una forte dominanza locale della Lega e del centro destra, eccezion fatta per Torino “grillina” e le Regioni Piemonte ed Emilia e il comune di Milano del centro-sinistra).

E’ il territorio dei distretti industriali più innovativi, che si stanno trasformando in meta-distretti e “filiere lunghe” seguendo i flussi della ricomposizione produttiva e delle supply chain secondo le strategie delle imprese grandi e medio-grandi presenti in Italia e aperte al mondo (Fca con Ferrari e Maserati, Techint, Pirelli, Siemens, Prysmian, Bayer, Audi con Ducati, General Electric, la Ima dei Vacchi e la Coesia dei Seragnoli, le chimiche di qualità come Mapei di Squinzi e le farmaceutiche d’eccellenza, Bracco e Dompè, Marchesini e Zambon, ma anche i gruppi con impronta pubblica, le Ferrovie e Fincantieri, Leonardo e le Poste e i colossi delle costruzioni come Salini-Impregilo e Maire Technimont, che portano nei grandi lavori pubblici internazionali competenze e saper fare italiano). E’ l’area europea in cui, proprio qui con particolare originalità, le tradizioni industriali ex fordiste si sono più trasformate, ibridandosi con le nuove dimensioni digital che costruiscono inedite relazioni tra produzioni della neo-fabbrica, logistica, ricerca, servizi e in cui i livelli elevati di competitività fanno i conti con le dimensioni necessarie della sostenibilità e dell’inclusione economica e sociale.

Nel rapporto tra luoghi in cambiamento e flussi continui tra territori e mondo, si sperimentano anche originali relazioni industriali, che trovano concretezza nei contratti di lavoro (metalmeccanici, chimici) a livello nazionale ma soprattutto aziendale e territoriale, legando salari a welfare, produttività a formazione, redditi a qualità della vita e del lavoro.

C’è insomma tutto in mondo in cambiamento, nella Regione A4. Lo documenta pure l’ultimo Rapporto Cerved-Confindustria (Il Sole24Ore, 5 maggio) sulle Pmi, le piccole e medie imprese, fotografando la ripresa di investimenti e fatturati soprattutto nelle aree del Centro-Nord: non si sono ancora recuperati i livelli precedenti alla Grande Crisi, ma il dinamismo è particolarmente accentuato sia nel Nord Ovest (con nascite record di nuove aziende) che nel Nord Est. Con una indicazione essenziale che viene dall’Emilia, in termini di rapporto tra competitività e coesione sociale: Pietro Ferrari, presidente di Confindustria Emilia-Romagna, ricorda il “Patto per il lavoro” firmato tra imprese e sindacati nell’estate 2015 per arrivare a una “piena e buona occupazione” entro il 2020 e nota che “non esistono imprese forti in territori che non sono forti e viceversa”. Così come da Assolombarda viene un’altra indicazione interessante, quella sulla “fabbrica bella” e cioè ben progettata, sicura, trasparente, sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale e in cui la ricerca di sicurezza e qualità del lavoro si lega strettamente con produttività e competitività.

Ha un’altra ambizione, questo Nord dinamico: fare da stimolo, da locomotiva per il resto del Paese, più lento e incerto nel crescere.

Lo ha spiegato bene Carlo Bonomi, in un’intervista, pochi giorni fa: “L’Italia ha bisogno di Milano quanto Milano ha bisogno dell’Italia. Egoisticamente, qui andiamo bene. Però ho paura dell’effetto elastico. Questa Milano che corre, che è nel mondo, non può continuare a farlo allargando la distanza dal resto dell’Italia. Non possiamo permetterci un Paese a due velocità o anche Milano finirà per essere tirata indietro. Siamo legati al Paese per la politica, la finanza pubblica, la burocrazia, la capacità di attrarre investimenti. Finora abbiamo retto sull’export e l’internazionalizzazione, ma la domanda interna è ferma da dieci anni. Va fatta ripartire” (Corriere della Sera, 5 maggio).

La sfida, dunque, è tutta politica, di prospettive. E’ proprio questa, la dimensione della cosiddetta “questione del Nord”. Come questione nazionale, non come rivendicazione territoriale.

Questo Nord chiede, adesso, proprio per continuare a reggere le sfide economiche internazionali che investono le sue imprese, atti concreti di buon governo, nel segno dello sviluppo sostenibile e delle prospettive europee. Guarda con preoccupazione al vuoto politico che sembra investire il Paese, all’inconcludenza delle trattative politiche, alla scarsa concretezza delle misure promesse a un’opinione pubblica disorientata.

In tempi in cui la Ue discute il suo bilancio e si definiscono le politiche pubbliche europee, l’assenza d’un governo italiano autorevole e lungimirante pesa.

Le Regioni del Nord, anche se su traiettorie diverse, dal Veneto alla Lombardia, dall’Emilia al Piemonte, avevano avviato un confronto, con il governo centrale, sui temi dell’autonomia, per cercare maggiori equilibri e migliore efficienza fiscale e amministrativa. Ci sono rischi, di parcellizzazione delle misure, ma anche opportunità, nel legame più stretto tra territori e governo locale. Ma anche quel percorso è bloccato. Farlo ripartire è urgente.

Il guaio è che a livello nazionale poco si discute di economia e molto, troppo, di alleanze oblique e nuove elezioni. Le imprese migliori, più internazionalizzate, più competitive sui mercati internazionali, possono continuare ad andare avanti, anche se un po’ zoppe, anche in assenza di governo. Ma tutto il resto del mondo dell’economia no. E il pericolo è che la fragile ripresa in corso rallenti o si blocchi. Con gravi conseguenze sul lavoro, sui redditi, sulle prospettive di futuro. Chi si muove nel mondo dell’economia lo sa bene. Manca altrettanta consapevolezza politica.

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