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L’Italia nella morsa d’una doppia crisi, economica e demografica. Serve ricostruire fiducia nella crescita

L’Italia cresce poco, meno degli altri paesi Ue, lo 0,2% appena in questo 2019 cominciato sotto il segno della recessione (le stime sono della Commissione Ue) o, al massimo, lo 0,6% secondo le valutazioni della Banca d’Italia. Certo molto meno dell’1% previsto dal governo e propagandato dal presidente del Consiglio Conte che, ancora di recente, ha parlato di un “anno bellissimo”, almeno dal punto di vista economico.

L’Italia cresce poco pure dal punto di vista demografico: 60 milioni 391mila abitanti al 1° gennaio 2019, 93mila in meno dell’anno precedente, una diminuzione che va avanti da quattro anni. Nascono meno bambini da madri italiane, 358mila nel 2018, 8mila in meno dell’anno precedente e diminuiscono anche quelli da cittadine straniere, 91mila, mille in meno che nel 2017. Aumentano gli anziani sopra i 65 anni, 13,8 milioni, il 22,8% della popolazione (560mila in più rispetto al 2015) e partono, verso l’estero, 160mila persone nel 2018 (soprattutto giovani, con buon titolo di studio e doti di vivace intraprendenza, per trovare altrove migliori condizioni di lavoro e di vita), il 3,1% in più che nel 2017, mentre dall’estero sono arrivate 349mila persone, l’1,7% in più dell’anno precedente. In percentuale, dunque, sono più quelli che se ne vanno di quelli che arrivano, un segnale preoccupante di minore attrattività del nostro Paese.

C’è naturalmente un legame tra bassa crescita economica e crisi demografica. Un paese che invecchia e non offre prospettive soddisfacenti alle nuove generazioni è un paese destinato ad andare avanti sulla strada del declino. Un paese che investe poco sull’innovazione, la ricerca, l’ambiente, la qualità degli studi e del lavoro non attrae intelligenze e competenze dal resto del mondo e fa andare via i suoi figli migliori, con scarse possibilità di ritorno.

Al di là dei ragionamenti congiunturali e dei motivi attuali della recessione (lo spread sempre alto che rende difficile il credito alle famiglie e alle imprese, la caduta dei consumi pubblici e privati, gli effetti delle turbolenze economiche internazionali che l’Italia subisce più e peggio degli altri paesi Ue, per vecchi vizi mai sanati come il peso crescente del debito pubblico e la bassa produttività e per riforme sull’innovazione, la concorrenza e la valorizzazione di competenze e meriti mai portate davvero a termine), la crisi da bassa o zero crescita e decrescente natalità indica una tendenza di fondo: una mancanza generale di fiducia. Senza fiducia non si investe, né sulle imprese né sul futuro personale.

Ecco il punto: l’Italia avrebbe uno straordinario bisogno di ricominciare a nutrire fiducia in se stessa e nel proprio futuro. Come ha già fatto in altre stagioni della sua storia: la Ricostruzione dopo i disastri del fascismo e della guerra, la modernizzazione che porta al boom economico pur se con grandi costi sociali e personali (l’emigrazione di milioni di persone da Sud e da Est verso il Nord delle fabbriche), la ripresa dei dinamici e benestanti anni Ottanta dopo la cupezza degli “anni di piombo” dei durissimi conflitti sociali, del terrorismo e dell’inflazione a due cifre, il rilancio di economia e società verso l’Europa dopo il terribile 1992-93 di Tangentopoli, dello stragismo mafioso e dell’attacco speculativo contro la lira.

Si è sempre rialzata, l’Italia. Ha scommesso sulle sue forze e le intelligenze migliori, ha mostrato di saper avere fiducia in se stessa.

Fiducia e crescita sono parole utili ancora oggi. Non rancore, cattiveria, paura, chiusura, decrescita, sentimenti negativi che purtroppo ispirano molte delle affermazioni e delle scelte del governo giallo-verde. “L’Italia si dimostri affidabile”, ha detto sabato, a “La Stampa”, il ministro dell’Economia Giovanni Tria, chiedendo di “ristabilire la fiducia nei confronti dell’Italia, la fiducia dei cittadini e degli investitori, italiani e stranieri”. Fiducia, appunto, cercando di fare dimenticare altre sue dichiarazioni, in cui accusava “i pessimisti” sull’andamento dell’economia italiana addirittura di “sabotaggio”. Sarebbe utile lo ascoltassero proprio i suoi colleghi di governo, tagliando corto con le polemiche contro l’Europa e, adesso, contro la Francia, ma anche contro le autorità indipendenti e competenti come la Banca d’Italia (che i vicepremier Salvini e Di Maio chiedono di “azzerare”, con un’inaudita violenza di linguaggio, che la Banca d’Italia respinge come “parole fuori luogo” e che Enrico Letta, studioso autorevole ed ex presidente del Consiglio condanna così: “Una lapidazione pubblica per comprarsi l’arbitro e cancellare la democrazia”) e contro l’informazione che sottopone a inchiesta e critica documentata, com’è suo compito, scelte assistenziali, ostacoli alle infrastrutture e chiusure nazionaliste che danneggiano l’economia. Dalle stanze del governo, insomma, arrivano slogan del “no” e del “contro”, seminando ostilità, paura e sfiducia.

Servirebbe invece fiducia, come il ministro Tria suggerisce. Fiducia da dare, alle forze migliori dell’Italia, alle sue imprese e ai suoi lavoratori, ai giovani che vogliono studiare, a tutti coloro che preferiscono rischiare e innovare piuttosto che accontentarsi d’una pensione anticipata o d’un sussidio senza vere opportunità di lavoro. Fiducia per investire. E andare a conquistare nuovi spazi nel mondo, con la forza dell’export di qualità. Fiducia, per ricominciare a intravvedere un orizzonte positivo, in vista del quale fare famiglia, fare figli, crescere. Fiducia e sviluppo, appunto. Altro che l’infelicità della decrescita, economica, demografica, morale.

L’Italia cresce poco, meno degli altri paesi Ue, lo 0,2% appena in questo 2019 cominciato sotto il segno della recessione (le stime sono della Commissione Ue) o, al massimo, lo 0,6% secondo le valutazioni della Banca d’Italia. Certo molto meno dell’1% previsto dal governo e propagandato dal presidente del Consiglio Conte che, ancora di recente, ha parlato di un “anno bellissimo”, almeno dal punto di vista economico.

L’Italia cresce poco pure dal punto di vista demografico: 60 milioni 391mila abitanti al 1° gennaio 2019, 93mila in meno dell’anno precedente, una diminuzione che va avanti da quattro anni. Nascono meno bambini da madri italiane, 358mila nel 2018, 8mila in meno dell’anno precedente e diminuiscono anche quelli da cittadine straniere, 91mila, mille in meno che nel 2017. Aumentano gli anziani sopra i 65 anni, 13,8 milioni, il 22,8% della popolazione (560mila in più rispetto al 2015) e partono, verso l’estero, 160mila persone nel 2018 (soprattutto giovani, con buon titolo di studio e doti di vivace intraprendenza, per trovare altrove migliori condizioni di lavoro e di vita), il 3,1% in più che nel 2017, mentre dall’estero sono arrivate 349mila persone, l’1,7% in più dell’anno precedente. In percentuale, dunque, sono più quelli che se ne vanno di quelli che arrivano, un segnale preoccupante di minore attrattività del nostro Paese.

C’è naturalmente un legame tra bassa crescita economica e crisi demografica. Un paese che invecchia e non offre prospettive soddisfacenti alle nuove generazioni è un paese destinato ad andare avanti sulla strada del declino. Un paese che investe poco sull’innovazione, la ricerca, l’ambiente, la qualità degli studi e del lavoro non attrae intelligenze e competenze dal resto del mondo e fa andare via i suoi figli migliori, con scarse possibilità di ritorno.

Al di là dei ragionamenti congiunturali e dei motivi attuali della recessione (lo spread sempre alto che rende difficile il credito alle famiglie e alle imprese, la caduta dei consumi pubblici e privati, gli effetti delle turbolenze economiche internazionali che l’Italia subisce più e peggio degli altri paesi Ue, per vecchi vizi mai sanati come il peso crescente del debito pubblico e la bassa produttività e per riforme sull’innovazione, la concorrenza e la valorizzazione di competenze e meriti mai portate davvero a termine), la crisi da bassa o zero crescita e decrescente natalità indica una tendenza di fondo: una mancanza generale di fiducia. Senza fiducia non si investe, né sulle imprese né sul futuro personale.

Ecco il punto: l’Italia avrebbe uno straordinario bisogno di ricominciare a nutrire fiducia in se stessa e nel proprio futuro. Come ha già fatto in altre stagioni della sua storia: la Ricostruzione dopo i disastri del fascismo e della guerra, la modernizzazione che porta al boom economico pur se con grandi costi sociali e personali (l’emigrazione di milioni di persone da Sud e da Est verso il Nord delle fabbriche), la ripresa dei dinamici e benestanti anni Ottanta dopo la cupezza degli “anni di piombo” dei durissimi conflitti sociali, del terrorismo e dell’inflazione a due cifre, il rilancio di economia e società verso l’Europa dopo il terribile 1992-93 di Tangentopoli, dello stragismo mafioso e dell’attacco speculativo contro la lira.

Si è sempre rialzata, l’Italia. Ha scommesso sulle sue forze e le intelligenze migliori, ha mostrato di saper avere fiducia in se stessa.

Fiducia e crescita sono parole utili ancora oggi. Non rancore, cattiveria, paura, chiusura, decrescita, sentimenti negativi che purtroppo ispirano molte delle affermazioni e delle scelte del governo giallo-verde. “L’Italia si dimostri affidabile”, ha detto sabato, a “La Stampa”, il ministro dell’Economia Giovanni Tria, chiedendo di “ristabilire la fiducia nei confronti dell’Italia, la fiducia dei cittadini e degli investitori, italiani e stranieri”. Fiducia, appunto, cercando di fare dimenticare altre sue dichiarazioni, in cui accusava “i pessimisti” sull’andamento dell’economia italiana addirittura di “sabotaggio”. Sarebbe utile lo ascoltassero proprio i suoi colleghi di governo, tagliando corto con le polemiche contro l’Europa e, adesso, contro la Francia, ma anche contro le autorità indipendenti e competenti come la Banca d’Italia (che i vicepremier Salvini e Di Maio chiedono di “azzerare”, con un’inaudita violenza di linguaggio, che la Banca d’Italia respinge come “parole fuori luogo” e che Enrico Letta, studioso autorevole ed ex presidente del Consiglio condanna così: “Una lapidazione pubblica per comprarsi l’arbitro e cancellare la democrazia”) e contro l’informazione che sottopone a inchiesta e critica documentata, com’è suo compito, scelte assistenziali, ostacoli alle infrastrutture e chiusure nazionaliste che danneggiano l’economia. Dalle stanze del governo, insomma, arrivano slogan del “no” e del “contro”, seminando ostilità, paura e sfiducia.

Servirebbe invece fiducia, come il ministro Tria suggerisce. Fiducia da dare, alle forze migliori dell’Italia, alle sue imprese e ai suoi lavoratori, ai giovani che vogliono studiare, a tutti coloro che preferiscono rischiare e innovare piuttosto che accontentarsi d’una pensione anticipata o d’un sussidio senza vere opportunità di lavoro. Fiducia per investire. E andare a conquistare nuovi spazi nel mondo, con la forza dell’export di qualità. Fiducia, per ricominciare a intravvedere un orizzonte positivo, in vista del quale fare famiglia, fare figli, crescere. Fiducia e sviluppo, appunto. Altro che l’infelicità della decrescita, economica, demografica, morale.

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