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L’orgoglioso “Manifesto della meccanica” e i primati internazionali per marchi e disegno industriale

Orgoglio industriale, nonostante tutto. Anzi, più esattamente, “orgoglio meccanico”, se si pensa al Manifesto di Federmeccanica su “una nuova politica per la manifattura” presentato giovedì scorso, a Roma, alla manifestazione “Uniti per il rilancio dell’industria”, con la partecipazione di imprenditori di più di sessanta associazioni territoriali di Confindustria (con i distretti, le filiere, le buone imprese più dinamiche), dando così un forte segnale d’allarme a governo e classe politica (“Senza investimenti il paese è destinato a finire nel baratro: serve una politica industriale che favorisca l’innovazione e permetta alle imprese di affrontare la sfida della quarta rivoluzione industriale, Industry 4.0”) e contemporaneamente ribadendo un segno di capacità imprenditoriale e di impegno per la ripresa. Ma, guardando al mondo delle imprese che producono bene ed esportano, potremmo anche parlare di orgoglio chimico e agroalimentare, domotico e farmaceutico, di orgoglio della gomma e del cemento, del legno e del tessile, delle auto, delle moto e delle bici e così via continuando, con tutti i comparti della manifattura che, nonostante la crisi, tengono in piedi il sistema Paese, guadagnano punti in competitività, garantiscono posti di lavoro, innovano e crescono. Il settore meccanico vale, da solo, l’8% del Pil e il 45,9% del valore aggiunto di tutta l’industria manifatturiera, anche se avverte ancora la pesantezza della caduta della capacità produttiva, -32,6% dal periodo pre-crisi, dal 2007 a oggi (in gran parte per asfissia del mercato interno). E nelle sue varie articolazioni, rappresenta la parte più attiva dell’export italiano, più delle tradizionali “3A” del buon made in Italy (arredamento, abbigliamento e agroindustria). Italia “granaio meccanico”, insomma, per riprendere la suggestiva antica definizione data nei primi anni Cinquanta da Vittorio Valletta, presidente della Fiat, quando era l’industria dell’auto a fare da cardine dello sviluppo industriale e dunque sociale dell’intero Paese.

Tradizione meccanica, dunque. E apertura al futuro, se è vero che i moduli della stazione Spaziale Internazionale, proprio quella su cui naviga nello spazio l’astronauta italiana Samantha Cristoforetti, sono stati in bona parte realizzati in Italia, “un primato che rappresenta bene l’eccellenza meccanica e il suo ruolo nell’economia del Paese”, ha scritto Carlo Andrea Finotto su “Il Sole24Ore” del 25 novembre.

Dalla sofisticata crescita della cultura d’impresa meccanica (innovazione, ricerca, automazione sempre più avanzata) dipende in gran parte un altro primato italiano, che suona confortante, proprio in tempi ancora difficili per tutta la nostra economia: “L’Italia aumenta i brevetti europei” e dunque “innovando è più viva che mai”, per dirla con “Il Sole 24Ore” del 26 novembre. La notizia è che manteniamo anche nel 2014 il secondo posto nella “Top 20” internazionale delle domande di brevetti per il “design industriale”, con il 10,15% di tutte le domande di brevetti del mondo, alle spalle della Germania (il 22,7%) ma ben prima di Regno Unito (6,96%), Francia e Spagna e restiamo saldamente quarti per “marchi”, dopo Germania, Usa e Regno Unito. Si innova, dunque, e molto. Si brevetta. Si fa politica distintiva di qualità e brand. Si compete. Nelle grandi imprese. Ma anche nelle piccole e medie. E nei distretti rilanciati a nuova vita, grazie a originali sinergie tra il forte radicamento territoriale in aree di straordinaria capacità manifatturiera e la capacità di espansione internazionale in nicchie specializzate e ad alto valore aggiunto (ne ha scritto efficacemente Paola Dubini, docente alla Bocconi, su “Nova” de “Il Sole 24Ore” del 26 novembre: “L’innovazione che sorge da territori e reti”). Peccato che il pubblico investa ancora troppo poco in ricerca e innovazione, se è vero che “nel 2011, ultima rilevazione disponibile, l’unico settore a mostrare una crescita della spesa per ricerca e sviluppo è quello delle imprese, +2,3%, con un arretramento, invece, delle istituzioni pubbliche, -1,3%”, dichiara Confindustria. E comunque l’Italia ha investito nel 2012 in ricerca e sviluppo appena l’1,27% del Pil, molto meno del 2,98% della Germania e del 2,29% della Francia.

Imprese attive, dunque, ma lasciate sole, sul fronte dell’innovazione. Proprio la conferma della forza di brevetti e marchi testimonia di un robusto miglioramento della cultura d’impresa italiana, d’un “quarto capitalismo” diffuso tra Nord Ovest e Nord Est, familiare per tradizione e cultura, ma capace di reggere la sfida della gestione manageriale e dei mercati globali sempre più aperti e competitivi. L’Italia industriale del “bello e ben fatto” ha un futuro, nonostante tutto.

Orgoglio industriale, nonostante tutto. Anzi, più esattamente, “orgoglio meccanico”, se si pensa al Manifesto di Federmeccanica su “una nuova politica per la manifattura” presentato giovedì scorso, a Roma, alla manifestazione “Uniti per il rilancio dell’industria”, con la partecipazione di imprenditori di più di sessanta associazioni territoriali di Confindustria (con i distretti, le filiere, le buone imprese più dinamiche), dando così un forte segnale d’allarme a governo e classe politica (“Senza investimenti il paese è destinato a finire nel baratro: serve una politica industriale che favorisca l’innovazione e permetta alle imprese di affrontare la sfida della quarta rivoluzione industriale, Industry 4.0”) e contemporaneamente ribadendo un segno di capacità imprenditoriale e di impegno per la ripresa. Ma, guardando al mondo delle imprese che producono bene ed esportano, potremmo anche parlare di orgoglio chimico e agroalimentare, domotico e farmaceutico, di orgoglio della gomma e del cemento, del legno e del tessile, delle auto, delle moto e delle bici e così via continuando, con tutti i comparti della manifattura che, nonostante la crisi, tengono in piedi il sistema Paese, guadagnano punti in competitività, garantiscono posti di lavoro, innovano e crescono. Il settore meccanico vale, da solo, l’8% del Pil e il 45,9% del valore aggiunto di tutta l’industria manifatturiera, anche se avverte ancora la pesantezza della caduta della capacità produttiva, -32,6% dal periodo pre-crisi, dal 2007 a oggi (in gran parte per asfissia del mercato interno). E nelle sue varie articolazioni, rappresenta la parte più attiva dell’export italiano, più delle tradizionali “3A” del buon made in Italy (arredamento, abbigliamento e agroindustria). Italia “granaio meccanico”, insomma, per riprendere la suggestiva antica definizione data nei primi anni Cinquanta da Vittorio Valletta, presidente della Fiat, quando era l’industria dell’auto a fare da cardine dello sviluppo industriale e dunque sociale dell’intero Paese.

Tradizione meccanica, dunque. E apertura al futuro, se è vero che i moduli della stazione Spaziale Internazionale, proprio quella su cui naviga nello spazio l’astronauta italiana Samantha Cristoforetti, sono stati in bona parte realizzati in Italia, “un primato che rappresenta bene l’eccellenza meccanica e il suo ruolo nell’economia del Paese”, ha scritto Carlo Andrea Finotto su “Il Sole24Ore” del 25 novembre.

Dalla sofisticata crescita della cultura d’impresa meccanica (innovazione, ricerca, automazione sempre più avanzata) dipende in gran parte un altro primato italiano, che suona confortante, proprio in tempi ancora difficili per tutta la nostra economia: “L’Italia aumenta i brevetti europei” e dunque “innovando è più viva che mai”, per dirla con “Il Sole 24Ore” del 26 novembre. La notizia è che manteniamo anche nel 2014 il secondo posto nella “Top 20” internazionale delle domande di brevetti per il “design industriale”, con il 10,15% di tutte le domande di brevetti del mondo, alle spalle della Germania (il 22,7%) ma ben prima di Regno Unito (6,96%), Francia e Spagna e restiamo saldamente quarti per “marchi”, dopo Germania, Usa e Regno Unito. Si innova, dunque, e molto. Si brevetta. Si fa politica distintiva di qualità e brand. Si compete. Nelle grandi imprese. Ma anche nelle piccole e medie. E nei distretti rilanciati a nuova vita, grazie a originali sinergie tra il forte radicamento territoriale in aree di straordinaria capacità manifatturiera e la capacità di espansione internazionale in nicchie specializzate e ad alto valore aggiunto (ne ha scritto efficacemente Paola Dubini, docente alla Bocconi, su “Nova” de “Il Sole 24Ore” del 26 novembre: “L’innovazione che sorge da territori e reti”). Peccato che il pubblico investa ancora troppo poco in ricerca e innovazione, se è vero che “nel 2011, ultima rilevazione disponibile, l’unico settore a mostrare una crescita della spesa per ricerca e sviluppo è quello delle imprese, +2,3%, con un arretramento, invece, delle istituzioni pubbliche, -1,3%”, dichiara Confindustria. E comunque l’Italia ha investito nel 2012 in ricerca e sviluppo appena l’1,27% del Pil, molto meno del 2,98% della Germania e del 2,29% della Francia.

Imprese attive, dunque, ma lasciate sole, sul fronte dell’innovazione. Proprio la conferma della forza di brevetti e marchi testimonia di un robusto miglioramento della cultura d’impresa italiana, d’un “quarto capitalismo” diffuso tra Nord Ovest e Nord Est, familiare per tradizione e cultura, ma capace di reggere la sfida della gestione manageriale e dei mercati globali sempre più aperti e competitivi. L’Italia industriale del “bello e ben fatto” ha un futuro, nonostante tutto.

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