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Milano non è un’isola, anche se ben arredata. Le sfide dopo i successi della “Design Week”

Milano capitale, Milano locomotiva, Milano da far volare per “far volare l’Italia”, Milano smart city ma anche start up town, Milano internazionale e Milano come Chicago, Milano sempre più Europa e sempre meno, però, Milano-Italia. Negli anni d’oro di Milano le definizioni si sprecano e risuonano comunque, frequenti e soddisfatti, proprio all’indomani del grande successo della Design Week legata al Salone del Mobile, 434mila visitatori, il 26% in più dell’anno precedente, record d’affari per gli espositori, con picchi d’aumento degli ordini del 30%. Grande, Milano?

La concretezza abituale della cultura e della “educazione milanese” impedisce l’aria tronfia del vanto. E nei giorni successivi a un grande evento internazionale che migliora ancora una volta la competitività del made in Italy, si sta con i piedi per terra e ci si ripete che Milano tutto può essere tranne che un fenomeno, un’eccezione, un posto da solitari primati. Milano non è un’isola.

“Nessun uomo è un’isola”, aveva scritto John Donne, poeta inglese del Seicento (un verso esemplare, per bellezza evocativa e forza morale, ripreso proprio in questi mesi con intelligenza comunicativa da una catena di supermercati, Conad). Figuriamoci se può ridursi a isola una città che fa proprio del suo nome, Mediolanum, terra di mezzo, un tratto distintivo di luogo aperto di scambi e relazioni, mercato, incrocio di conversazioni, circuito virtuoso di commerci e lavoro. Milano, dunque, inclusiva e solidale, accogliente e cordiale. Dai tempi di Ambrogio ai giorni d’oggi, continuando a prefigurare un futuro di “centralità” europea, di metropoli rotonda, attenta cioè ad evitare spigoli taglienti che feriscono ed escludono.

La Design Week che si è snodata tra Salone del Mobile e “Fuorisalone” diffuso su tutta la città con oltre 1360 eventi diversi, ne è stata evidente testimonianza. Il design rappresentato, raccontato, immaginato, progettato in milioni di conversazioni va oltre gli spazi tradizionali dell’arredamento e coinvolge altri mondi industriali, dalla bicicletta all’automobile, dai servizi ai sistemi luminosi e sonori che coinvolgono nuove condizioni del vivere, mobilità sostenibile compresa. Il segno forte è l’innovazione. Le sfide si muovono tra Milano e il mondo.

Questo design, innovativo e, per usare una parola oramai obbligata, “sostenibile” (sensibile cioè alla condizione umana d’una vita migliore) si carica anche di valori ambientali ed etici, ponendosi per esempio il problema di cosa fare della plastica, uno straordinario prodotto industriale (di solide radici italiane, se pensiamo al Moplen nato dalle ricerca di Giulio Natta, premio Nobel per la chimica nel 1963 e dalle esperienze nei laboratori Pirelli e Montecatini) con cui proprio il design innovativo e la pop art sono andate a nozze, dagli anni Sessanta a oggi.

La plastica ha rappresentato la modernità e la comodità di consumi e costumi (in molti casi anche con una certa attenzione per la bellezza) ma oggi, con i 300 milioni di tonnellate prodotte in tutto il mondo e di difficilissimo smaltimento, rappresenta un problema ambientale che sfiora la drammaticità (“Robinson”, il settimanale culturale de “la Repubblica”, ha dedicato al problema quasi tutto il suo numero di domenica scorsa e Antonio Gnoli ne ha sviluppato questioni essenziali in una bella intervista con Renato De Fusco, teorico della progettazione e del design).

Quel design che ha amato la plastica, può oggi suggerire tecnologie, forme, materiali che ci consentano di superare la frontiera dell’”usa e getta”? C’è un design responsabile, da economia civile e circolare? Tema aperto. Proprio a Milano, città di cultura industriale e alta qualità chimica, se ne può discutere. Il Politecnico, con le sue specializzazioni proprio sui temi del design, potrebbe essere un luogo ideale.

Perché anche questo, è Milano. Luogo ibrido di conoscenze e competenze tecniche, di “cultura politecnica”, di dialogo costante tra umanesimo e scienza, tra tecnologia e filosofia. Storia e attualità ne offrono testimonianze continue.

Milano, nella dimensione metropolitana, è città industriale, per esperienza lunga un secolo e mezzo e per vocazione contemporanea. Ma non è mai stata company town come Torino, monocultura industrialista e fordista. Sempre, nel corso del Novecento, i suoi imprenditori hanno invece lavorato su parecchi tavoli comunicanti, dell’industria e della finanza, della manifattura e dei servizi, dei commerci e dell’università, senza mai dimenticare cultura, editoria, comunicazione (la storia stessa del “Corriere della Sera” e degli editori, grandi e popolari ma anche piccoli e raffinatissimi, ne è conferma). Oggi, l’attrattività internazionale di Milano si fonda su questi caratteri. E ne può fare leva per uno sviluppo che coinvolga il resto del paese.

Tutta la vicenda del Salone del Mobile ne mostra la validità. I progetti dei designer, che guardano a Milano da tutto il mondo. E la forza e la qualità delle fabbriche, dalla Brianza al Veneto, in un mix assolutamente originale, un paradigma culturale e produttivo che continua ad avere una forte competitività e che traina anche un altro settore d’eccellenza italiana, la meccanica e la meccatronica degli impianti per produrre sistemi d’arredamento. Un circuito virtuoso. Cultura del progetto e cultura del prodotto. Milano esemplare.

Il design, anche da questo punto di vista, si declina come sapere, conoscenza. Non effimera improvvisazione o chiacchiera. Ma competenze profonde, sia nel dettaglio (perché è proprio lì che si annida l’origine della perfezione) sia nello sguardo generale, sistemico. Nell’attuale condizione di rischio di decadenza delle gerarchie culturali e di privilegio mediatico di chi contrappone credenza a scienza, proprio la forza delle riflessioni sulla “cultura sostenibile” che leghi industria ad ambiente, lavoro e tecnologie al miglioramento degli equilibri sociali, design a urbanistica e architettura (è tra i progetti più impegnativi della nuove Triennale guidata da Stefano Boeri) può essere cardine di una sorta di nuovo “umanesimo industriale” (definizione abituale, da anni, nelle elaborazioni della Fondazione Pirelli) in cui l’Italia e proprio Milano hanno molto da dire e da fare. E’ la cultura delle fabbriche, anche digital e hi tech arricchite dalla tradizionale sapienza manifatturiera di radici artigiane, con forti valenze funzionali ma anche sociali. E’ “la morale del tornio”. Il bello e ben fatto

Milano capitale, Milano locomotiva, Milano da far volare per “far volare l’Italia”, Milano smart city ma anche start up town, Milano internazionale e Milano come Chicago, Milano sempre più Europa e sempre meno, però, Milano-Italia. Negli anni d’oro di Milano le definizioni si sprecano e risuonano comunque, frequenti e soddisfatti, proprio all’indomani del grande successo della Design Week legata al Salone del Mobile, 434mila visitatori, il 26% in più dell’anno precedente, record d’affari per gli espositori, con picchi d’aumento degli ordini del 30%. Grande, Milano?

La concretezza abituale della cultura e della “educazione milanese” impedisce l’aria tronfia del vanto. E nei giorni successivi a un grande evento internazionale che migliora ancora una volta la competitività del made in Italy, si sta con i piedi per terra e ci si ripete che Milano tutto può essere tranne che un fenomeno, un’eccezione, un posto da solitari primati. Milano non è un’isola.

“Nessun uomo è un’isola”, aveva scritto John Donne, poeta inglese del Seicento (un verso esemplare, per bellezza evocativa e forza morale, ripreso proprio in questi mesi con intelligenza comunicativa da una catena di supermercati, Conad). Figuriamoci se può ridursi a isola una città che fa proprio del suo nome, Mediolanum, terra di mezzo, un tratto distintivo di luogo aperto di scambi e relazioni, mercato, incrocio di conversazioni, circuito virtuoso di commerci e lavoro. Milano, dunque, inclusiva e solidale, accogliente e cordiale. Dai tempi di Ambrogio ai giorni d’oggi, continuando a prefigurare un futuro di “centralità” europea, di metropoli rotonda, attenta cioè ad evitare spigoli taglienti che feriscono ed escludono.

La Design Week che si è snodata tra Salone del Mobile e “Fuorisalone” diffuso su tutta la città con oltre 1360 eventi diversi, ne è stata evidente testimonianza. Il design rappresentato, raccontato, immaginato, progettato in milioni di conversazioni va oltre gli spazi tradizionali dell’arredamento e coinvolge altri mondi industriali, dalla bicicletta all’automobile, dai servizi ai sistemi luminosi e sonori che coinvolgono nuove condizioni del vivere, mobilità sostenibile compresa. Il segno forte è l’innovazione. Le sfide si muovono tra Milano e il mondo.

Questo design, innovativo e, per usare una parola oramai obbligata, “sostenibile” (sensibile cioè alla condizione umana d’una vita migliore) si carica anche di valori ambientali ed etici, ponendosi per esempio il problema di cosa fare della plastica, uno straordinario prodotto industriale (di solide radici italiane, se pensiamo al Moplen nato dalle ricerca di Giulio Natta, premio Nobel per la chimica nel 1963 e dalle esperienze nei laboratori Pirelli e Montecatini) con cui proprio il design innovativo e la pop art sono andate a nozze, dagli anni Sessanta a oggi.

La plastica ha rappresentato la modernità e la comodità di consumi e costumi (in molti casi anche con una certa attenzione per la bellezza) ma oggi, con i 300 milioni di tonnellate prodotte in tutto il mondo e di difficilissimo smaltimento, rappresenta un problema ambientale che sfiora la drammaticità (“Robinson”, il settimanale culturale de “la Repubblica”, ha dedicato al problema quasi tutto il suo numero di domenica scorsa e Antonio Gnoli ne ha sviluppato questioni essenziali in una bella intervista con Renato De Fusco, teorico della progettazione e del design).

Quel design che ha amato la plastica, può oggi suggerire tecnologie, forme, materiali che ci consentano di superare la frontiera dell’”usa e getta”? C’è un design responsabile, da economia civile e circolare? Tema aperto. Proprio a Milano, città di cultura industriale e alta qualità chimica, se ne può discutere. Il Politecnico, con le sue specializzazioni proprio sui temi del design, potrebbe essere un luogo ideale.

Perché anche questo, è Milano. Luogo ibrido di conoscenze e competenze tecniche, di “cultura politecnica”, di dialogo costante tra umanesimo e scienza, tra tecnologia e filosofia. Storia e attualità ne offrono testimonianze continue.

Milano, nella dimensione metropolitana, è città industriale, per esperienza lunga un secolo e mezzo e per vocazione contemporanea. Ma non è mai stata company town come Torino, monocultura industrialista e fordista. Sempre, nel corso del Novecento, i suoi imprenditori hanno invece lavorato su parecchi tavoli comunicanti, dell’industria e della finanza, della manifattura e dei servizi, dei commerci e dell’università, senza mai dimenticare cultura, editoria, comunicazione (la storia stessa del “Corriere della Sera” e degli editori, grandi e popolari ma anche piccoli e raffinatissimi, ne è conferma). Oggi, l’attrattività internazionale di Milano si fonda su questi caratteri. E ne può fare leva per uno sviluppo che coinvolga il resto del paese.

Tutta la vicenda del Salone del Mobile ne mostra la validità. I progetti dei designer, che guardano a Milano da tutto il mondo. E la forza e la qualità delle fabbriche, dalla Brianza al Veneto, in un mix assolutamente originale, un paradigma culturale e produttivo che continua ad avere una forte competitività e che traina anche un altro settore d’eccellenza italiana, la meccanica e la meccatronica degli impianti per produrre sistemi d’arredamento. Un circuito virtuoso. Cultura del progetto e cultura del prodotto. Milano esemplare.

Il design, anche da questo punto di vista, si declina come sapere, conoscenza. Non effimera improvvisazione o chiacchiera. Ma competenze profonde, sia nel dettaglio (perché è proprio lì che si annida l’origine della perfezione) sia nello sguardo generale, sistemico. Nell’attuale condizione di rischio di decadenza delle gerarchie culturali e di privilegio mediatico di chi contrappone credenza a scienza, proprio la forza delle riflessioni sulla “cultura sostenibile” che leghi industria ad ambiente, lavoro e tecnologie al miglioramento degli equilibri sociali, design a urbanistica e architettura (è tra i progetti più impegnativi della nuove Triennale guidata da Stefano Boeri) può essere cardine di una sorta di nuovo “umanesimo industriale” (definizione abituale, da anni, nelle elaborazioni della Fondazione Pirelli) in cui l’Italia e proprio Milano hanno molto da dire e da fare. E’ la cultura delle fabbriche, anche digital e hi tech arricchite dalla tradizionale sapienza manifatturiera di radici artigiane, con forti valenze funzionali ma anche sociali. E’ “la morale del tornio”. Il bello e ben fatto

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