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Né chierici né cortigiani: lavoro intellettuale e pensiero critico per costruire i nuovi paradigmi di conoscenza e sviluppo

Né apocalittici né integrati. Critici, semmai, con conoscenza dei problemi e con competenza nelle scelte. Per coloro che fanno un lavoro intellettuale come professione sono queste, oggi, le condizioni che ne connotano impegno e responsabilità. L’orizzonte delle sfide della nostra controversa contemporaneità, infatti, chiede di avere uno sguardo lungo, verso l’utopia e, insieme, un’attitudine concreta a lavorare di precisione e dettaglio nella quotidianità. Utopia e riformismo, per dirla in sintesi. Ricordando, tra le tante possibili, la lezione filosofica di Ernst Cassirer (“La grande missione dell’utopia è di dare adito al possibile, in opposizione alla passiva acquiescenza all’attuale stato di cose. E’ il pensiero simbolico che trionfa della naturale inerzia dell’uomo e lo dota di una nuova facoltà, la facoltà di riformare continuamente il suo universo”; l’avevamo citata nel blog della scorsa settimana), ma anche l’ambizione coraggiosa verso la “società aperta” di Karl Popper e la spregiudicata capacità di rinnovare radicalmente il pensiero economico della tradizione liberale di John Maynard Keynes, in nome d’un lungimirante intervento anti-crisi degli investimenti pubblici produttivi e d’una rideterminazione di poteri: un liberalismo democratico con forte valenza sociale.

“Chierici, cortigiani, battitori liberi. Quale ruolo per gli intellettuali?”, ci si è chiesti durante uno stimolante convegno, la scorsa settimana, all’Università Cattolica di Milano. Una discussione quanto mai opportuna, in stagioni di crisi e di contestazione delle élite, di cui gli intellettuali sono considerati, dal pensiero populista, parte integrante. E dibattito da estendere, ragionando dei nessi essenziali tra conoscenze, competenze, progresso scientifico, sviluppo economico ed evoluzione sociale.

Ci sono altre indicazioni di ruolo possibili, al di là dello schematismo di chierici e cortigiani. Intellettuali come persone capaci di sintesi originali tra pensiero umanistico e saperi scientifici, nella costruzione di una “cultura politecnica” in grado di provare a dare risposte alle inedite questioni di senso poste dalle nuove tecnologie, dagli incroci conflittuali tra dinamiche della globalizzazione e ripresa delle identità locali, dalle crisi che lacerano politica, mercati, equilibri sociali. In sintesi: chierici o cortigiani capaci di pensiero critico e non di pedissequa obbedienza, impegnati a esercitare un’influenza sulla chiesa o sul principe, nelle forme che i poteri vanno via via assumendo nella modernità (istituzioni, partiti, imprese, etc.). In grado di indirizzare con competenze i poteri e di superare il ruolo stretto del cosiddetto “intellettuale organico” caro alla politologia marxista. E, ancora, di tessere dialoghi originali con le varie componenti del corpo sociale e soprattutto con gli indispensabili “intellettuali battitori liberi” o, per dirla meglio, “eretici”, nella costruzione di un “discorso pubblico” coraggioso, spregiudicato, innovativo (utile, in questo senso, rileggere Jurgen Habermas).

Gli intellettuali italiani hanno mostrato, soprattutto dalla seconda metà del Novecento a oggi, un difficile rapporto con la modernità, rimpiangendo civiltà contadine tramontate (e trascurandone le dimensioni di povertà estrema, degrado, violenza, appannamento dei diritti fondamentali di uomini e soprattutto donne) o progettando palingenesi, divagando, dunque, tra conservazione e giacobinismo. Ed evitando di fare i conti con la responsabilità di un attento, paziente e lungimirante riformismo, capace di farsi carico della necessità di modificare il corso delle cose, secondo criteri di maggiore equità sociale e più consapevole partecipazione dei cittadini (il “riformismo” della nostra Costituzione, per dirla in sintesi).

Oggi, insomma, vale la pena provare a cambiare paradigma e ragionare, come coscienza critica, sulla scrittura di nuove mappe della conoscenza, tra scienza e filosofia, memoria e futuro, diritti e responsabilità. Rileggere Max Weber. Usare come metodo la severità analitica dell’illuminismo e la “eretica” capacità critica di Leonardo Sciascia (tornato finalmente all’attenzione dei lettori, a trent’anni dalla morte). Ma anche dare attualità di scelte concrete alle domande di sostenibilità, ambientale e sociale, per uno sviluppo equilibrato, stando ben attenti a che proprio questa parola, sostenibilità, così carica di valori, non finisca mortificata nella banalizzazione dei discorsi pubblici e nei mascheramenti del green washing delle cattive abitudini.

Fuori, appunto, dalla fuorviante dicotomia “apocalittici o integrati”, c’è un tema che chiede un massimo di attenzione: quello dell’intelligenza artificiale, della coabitazione tra macchine capaci di pensiero e intelligenza umana. “Dominio e sottomissione”, ha appena scritto Remo Bodei per Il Mulino, analizzando oggi “i due termini di un rapporto di potere fortemente asimmetrico che innerva la storia dell’umanità e che nella civiltà occidentale ha conosciuto numerose metamorfosi”.

Quei rapporti sono oggi sotto particolare stress e investono la conoscenza, l’economia, gli assetti politici e sociali, la produzione e il consumo, i nuovi squilibri e i possibili riequilibri. E’ necessario imparare a farvi i conti. Senza tecnofobie. Ma con la consapevolezza, comunque, che i nuovi orizzonti dell’Intelligenza Artificiale non sono affatto una qualunque evoluzione della tecnologia. Saranno gli umani a dominare i robot o i meccanismi di auto-apprendimento delle macchine e la loro stupefacente capacità di calcolo combinatorio determineranno nuove gerarchie di potere, dei robot su di noi umani?

Fuori dai confini della fantascienza, la domanda supera le tecnicalità tecnologiche per chiamare direttamente in causa il senso dell’umano, i sistemi di valore d’una persona e d’una comunità. Lavoro intellettuale fondamentale.

C’è chi suggerisce che “è tempo di pensare a una algor-etica, cioè un’etica degli algoritmi”, come sostiene Paolo Benanti, frate francescano, studioso di bioetica ed evoluzione tecnologica, insistendo: “Se vogliamo che la macchina sia di supporto all’uomo, allora gli algoritmi devono includere valori etici e non solo numerici”.

La responsabilità è dunque di chi costruisce, programma, aggiorna, ridefinisce la macchina, nella consapevolezza che il momento delle scelte è sempre della persona umana. Il valore del lavoro intellettuale sta appunto qui. E nella definizione costantemente mobile, resiliente, critica, dei rapporti tra tecnologia, condizioni sociali (evitando le disuguaglianze dei devide da partecipazione o esclusione dai processi hi tech), conoscenze, democrazia. Un insieme di relazioni che si tengono insieme, tra memoria e metamorfosi e che sfidano, appunto, la ricerca di senso tipica del lavoro intellettuale.

“Le democrazie sono fragili di fronte ai domini tecnologici”, ammonisce il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, analizzando con lucidità, davanti a una platea di giovani (alla fine di ottobre, a Bergamo), le questioni poste dalla concentrazione dei poteri digitali e insistendo sulla necessità di rafforzare, con la formazione e la crescita della coscienza critica, la consapevolezza delle mutazioni in corso. Tutt’altro che un compito da chierici o cortigiani.

L’innovazione, insomma, è una delle condizioni di una contemporanea filosofia dell’umano. Priva di certezze invadenti e di risposte facili. Tutt’altro che nostalgica. Aperta, semmai. E sempre memore, comunque, della consapevolezza d’un altro dei grandi riformatori del Novecento, Gustav Mahler: “La tradizione non è custodia delle ceneri ma è culto del fuoco”.

Né apocalittici né integrati. Critici, semmai, con conoscenza dei problemi e con competenza nelle scelte. Per coloro che fanno un lavoro intellettuale come professione sono queste, oggi, le condizioni che ne connotano impegno e responsabilità. L’orizzonte delle sfide della nostra controversa contemporaneità, infatti, chiede di avere uno sguardo lungo, verso l’utopia e, insieme, un’attitudine concreta a lavorare di precisione e dettaglio nella quotidianità. Utopia e riformismo, per dirla in sintesi. Ricordando, tra le tante possibili, la lezione filosofica di Ernst Cassirer (“La grande missione dell’utopia è di dare adito al possibile, in opposizione alla passiva acquiescenza all’attuale stato di cose. E’ il pensiero simbolico che trionfa della naturale inerzia dell’uomo e lo dota di una nuova facoltà, la facoltà di riformare continuamente il suo universo”; l’avevamo citata nel blog della scorsa settimana), ma anche l’ambizione coraggiosa verso la “società aperta” di Karl Popper e la spregiudicata capacità di rinnovare radicalmente il pensiero economico della tradizione liberale di John Maynard Keynes, in nome d’un lungimirante intervento anti-crisi degli investimenti pubblici produttivi e d’una rideterminazione di poteri: un liberalismo democratico con forte valenza sociale.

“Chierici, cortigiani, battitori liberi. Quale ruolo per gli intellettuali?”, ci si è chiesti durante uno stimolante convegno, la scorsa settimana, all’Università Cattolica di Milano. Una discussione quanto mai opportuna, in stagioni di crisi e di contestazione delle élite, di cui gli intellettuali sono considerati, dal pensiero populista, parte integrante. E dibattito da estendere, ragionando dei nessi essenziali tra conoscenze, competenze, progresso scientifico, sviluppo economico ed evoluzione sociale.

Ci sono altre indicazioni di ruolo possibili, al di là dello schematismo di chierici e cortigiani. Intellettuali come persone capaci di sintesi originali tra pensiero umanistico e saperi scientifici, nella costruzione di una “cultura politecnica” in grado di provare a dare risposte alle inedite questioni di senso poste dalle nuove tecnologie, dagli incroci conflittuali tra dinamiche della globalizzazione e ripresa delle identità locali, dalle crisi che lacerano politica, mercati, equilibri sociali. In sintesi: chierici o cortigiani capaci di pensiero critico e non di pedissequa obbedienza, impegnati a esercitare un’influenza sulla chiesa o sul principe, nelle forme che i poteri vanno via via assumendo nella modernità (istituzioni, partiti, imprese, etc.). In grado di indirizzare con competenze i poteri e di superare il ruolo stretto del cosiddetto “intellettuale organico” caro alla politologia marxista. E, ancora, di tessere dialoghi originali con le varie componenti del corpo sociale e soprattutto con gli indispensabili “intellettuali battitori liberi” o, per dirla meglio, “eretici”, nella costruzione di un “discorso pubblico” coraggioso, spregiudicato, innovativo (utile, in questo senso, rileggere Jurgen Habermas).

Gli intellettuali italiani hanno mostrato, soprattutto dalla seconda metà del Novecento a oggi, un difficile rapporto con la modernità, rimpiangendo civiltà contadine tramontate (e trascurandone le dimensioni di povertà estrema, degrado, violenza, appannamento dei diritti fondamentali di uomini e soprattutto donne) o progettando palingenesi, divagando, dunque, tra conservazione e giacobinismo. Ed evitando di fare i conti con la responsabilità di un attento, paziente e lungimirante riformismo, capace di farsi carico della necessità di modificare il corso delle cose, secondo criteri di maggiore equità sociale e più consapevole partecipazione dei cittadini (il “riformismo” della nostra Costituzione, per dirla in sintesi).

Oggi, insomma, vale la pena provare a cambiare paradigma e ragionare, come coscienza critica, sulla scrittura di nuove mappe della conoscenza, tra scienza e filosofia, memoria e futuro, diritti e responsabilità. Rileggere Max Weber. Usare come metodo la severità analitica dell’illuminismo e la “eretica” capacità critica di Leonardo Sciascia (tornato finalmente all’attenzione dei lettori, a trent’anni dalla morte). Ma anche dare attualità di scelte concrete alle domande di sostenibilità, ambientale e sociale, per uno sviluppo equilibrato, stando ben attenti a che proprio questa parola, sostenibilità, così carica di valori, non finisca mortificata nella banalizzazione dei discorsi pubblici e nei mascheramenti del green washing delle cattive abitudini.

Fuori, appunto, dalla fuorviante dicotomia “apocalittici o integrati”, c’è un tema che chiede un massimo di attenzione: quello dell’intelligenza artificiale, della coabitazione tra macchine capaci di pensiero e intelligenza umana. “Dominio e sottomissione”, ha appena scritto Remo Bodei per Il Mulino, analizzando oggi “i due termini di un rapporto di potere fortemente asimmetrico che innerva la storia dell’umanità e che nella civiltà occidentale ha conosciuto numerose metamorfosi”.

Quei rapporti sono oggi sotto particolare stress e investono la conoscenza, l’economia, gli assetti politici e sociali, la produzione e il consumo, i nuovi squilibri e i possibili riequilibri. E’ necessario imparare a farvi i conti. Senza tecnofobie. Ma con la consapevolezza, comunque, che i nuovi orizzonti dell’Intelligenza Artificiale non sono affatto una qualunque evoluzione della tecnologia. Saranno gli umani a dominare i robot o i meccanismi di auto-apprendimento delle macchine e la loro stupefacente capacità di calcolo combinatorio determineranno nuove gerarchie di potere, dei robot su di noi umani?

Fuori dai confini della fantascienza, la domanda supera le tecnicalità tecnologiche per chiamare direttamente in causa il senso dell’umano, i sistemi di valore d’una persona e d’una comunità. Lavoro intellettuale fondamentale.

C’è chi suggerisce che “è tempo di pensare a una algor-etica, cioè un’etica degli algoritmi”, come sostiene Paolo Benanti, frate francescano, studioso di bioetica ed evoluzione tecnologica, insistendo: “Se vogliamo che la macchina sia di supporto all’uomo, allora gli algoritmi devono includere valori etici e non solo numerici”.

La responsabilità è dunque di chi costruisce, programma, aggiorna, ridefinisce la macchina, nella consapevolezza che il momento delle scelte è sempre della persona umana. Il valore del lavoro intellettuale sta appunto qui. E nella definizione costantemente mobile, resiliente, critica, dei rapporti tra tecnologia, condizioni sociali (evitando le disuguaglianze dei devide da partecipazione o esclusione dai processi hi tech), conoscenze, democrazia. Un insieme di relazioni che si tengono insieme, tra memoria e metamorfosi e che sfidano, appunto, la ricerca di senso tipica del lavoro intellettuale.

“Le democrazie sono fragili di fronte ai domini tecnologici”, ammonisce il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, analizzando con lucidità, davanti a una platea di giovani (alla fine di ottobre, a Bergamo), le questioni poste dalla concentrazione dei poteri digitali e insistendo sulla necessità di rafforzare, con la formazione e la crescita della coscienza critica, la consapevolezza delle mutazioni in corso. Tutt’altro che un compito da chierici o cortigiani.

L’innovazione, insomma, è una delle condizioni di una contemporanea filosofia dell’umano. Priva di certezze invadenti e di risposte facili. Tutt’altro che nostalgica. Aperta, semmai. E sempre memore, comunque, della consapevolezza d’un altro dei grandi riformatori del Novecento, Gustav Mahler: “La tradizione non è custodia delle ceneri ma è culto del fuoco”.

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