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“People first”, investire in capitale umano e sociale, ricordando la lezione di Munari

People first” ovvero il ruolo del capitale sociale e del capitale umano per lo sviluppo dell’Italia. Un ruolo tutto da valorizzare, rilanciare, potenziare se è vero che le imprese italiane e, più in generale, il sistema Paese, investono molto meno del necessario in formazione, ricerca, innovazione, utilizzo corretto delle competenze professionali dei lavoratori. Se ne è discusso per due giorni a Bari, nello scorso week end, durante un convegno di Confindustria. Ed è proprio uno studio del Centro Studi Confindustria (CSC) diretto da Luca Paolazzi a indicare dati e fatti sui limiti italiani e sugli investimenti da fare.

I dati essenziali sono noti: l’investimento in ricerca equivale a poco più dell’1% del Pil, pochissimo rispetto al 3% indicato dalla Ue come obiettivo per il 2020, ma anche all’attuale media dei paesi Ue (2%), alla Germania (2,9%) e alla Francia (2,2%) e per il 54,5% ricade sulle imprese private (dato 2012, in crescita rispetto al 53,6% del 2008). Diminuisce la quota delle università, dal 30,5 al 28,6% e delle altre istituzioni pubbliche. Colpa della crisi, naturalmente (in Italia la lunga recessione è stata molto più dura che nel resto d’Europa). Ma anche di un’inquietante miopia della politica e di una parte delle stesse imprese rispetto al futuro. E’ vero che le statistiche sottostimano gli investimenti in ricerca e innovazione (nelle imprese piccole e medie in bilancio si parla spesso di “consulenza” e non di R&D e molta innovazione adattativa, soprattutto nei processi produttivi, non viene compiutamente contabilizzata). Ma il problema resta, soprattutto sul versante degli investimenti pubblici.

Ci sono, attivissime, le imprese innovatrici, rintracciabili soprattutto tra le industrie di media dimensione, internazionalizzate, competitive all’estero, capaci di aumentare la loro quota dell’export anche in stagioni di crisi (il dinamico mondo del “medium hi tech”, analizzato dal recente saggio di Gianfelice Rocca, presidente di Assolombarda, intitolato “Riaccendere i motori”, appena edito da Marsilio). E le nostre esportazioni vedono un peso crescente della meccanica, della chimica specialistica, di una certa farmaceutica d’avanguardia, accanto ai settori tradizionali, dall’abbigliamento all’arredamento e all’industria agro-alimentare. Ma tutto questo non basta a fare da locomotiva per una migliore crescita economica e sociale dell’Italia. Bisogna investire di più in capitale sociale e in capitale umano.

Come?  Su “Il Sole24Ore” (29 marzo) Paolo Bricco, sulla scorta della ricerca CSC, spiega che “capitale umano” significa in Italia tre cose: reale efficienza del sistema universitario, potenziamento della formazione tecnica, integrazione intelligente degli immigrati. E c’è molto da fare, su tutti e tre i versanti. Abbiamo un basso numero di laureati (il 15% della popolazione, tra i 25 e i 64 anni, rispetto al 42% degli Usa, con un effetto negativo sul Pil: 40mila euro pro capite, in nostro, 55mila quello americano) ma anche un forte deficit per le lauree in ingegneria, matematica, altri settori scientifici e comunque una mancata sintonia tra una pur essenziale formazione al “sapere” e una scarsa attitudine al “saper fare”, indispensabile per le imprese. Ci impegniamo poco nella formazione continua. E non c’è una strategia dell’attenzione alla riqualificazione per non “bruciare” forza lavoro (quella di mezza età, per esempio), messa ai margini dall’evoluzione dei processi produttivi (la formazione affidata purtroppo alla Regioni offre scandalosi esempi di sprechi, clientele, distorsioni, improduttività).

Ma c’è un altro fenomeno su cui il sistema Italia è particolarmente debole: l’attrazione dei talenti. Perdiamo, verso altri paesi, i laureati più qualificati, intraprendenti, dinamici. E non ne attiriamo abbastanza dal resto del mondo. La mobilità del lavoro qualificato, fenomeno positivo, per l’Italia diventa “fuga dei cervelli”. E, a peggiorare il quadro, contribuiscono non solo il fatto che non riusciamo ad avere talenti di alta qualità e competenze (complici le inadeguate leggi sull’immigrazione e una “bureau crazy”, brillante sintesi di un ironico laureato) ma anche il cattivo uso degli immigrati che abbiamo (“le matematiche ucraine che fanno le badanti per gli anziani, gli infornatici rumeni che scaricano le cassette di frutta al mercato”, per citare gli esempi del CSC).

Serve insomma una svolta politica. E culturale. Un investimento maggiore e migliore in “economia del sapere”, come sintetizza Fulvio Conti, ceo dell’Enel e vicepresidente di Confindustria per il CSC. E probabilmente vale la pena riconsiderare la lezione di un grande uomo di cultura come Bruno Munari, designer di straordinarie qualità innovative (“Munari politecnico”, si intitola la mostra a Milano al Museo del Novecento): “La fantasia è una facoltà dello spirito capace di inventare immagini mentali diverse dalla realtà dei particolari o nell’insieme: immagini che possono essere anche irrealizzabili praticamente. La creatività è una capacità produttiva dove fantasia e ragione sono collegate, per cui il risultato che si ottiene è sempre realizzabile praticamente”. Di creatività e di “cultura politecnica” le imprese italiane sono ricche. Ma questo capitale va incrementato, fatto crescere e non sprecato o lasciato invecchiare. La chiave dello sviluppo è proprio qui.

People first” ovvero il ruolo del capitale sociale e del capitale umano per lo sviluppo dell’Italia. Un ruolo tutto da valorizzare, rilanciare, potenziare se è vero che le imprese italiane e, più in generale, il sistema Paese, investono molto meno del necessario in formazione, ricerca, innovazione, utilizzo corretto delle competenze professionali dei lavoratori. Se ne è discusso per due giorni a Bari, nello scorso week end, durante un convegno di Confindustria. Ed è proprio uno studio del Centro Studi Confindustria (CSC) diretto da Luca Paolazzi a indicare dati e fatti sui limiti italiani e sugli investimenti da fare.

I dati essenziali sono noti: l’investimento in ricerca equivale a poco più dell’1% del Pil, pochissimo rispetto al 3% indicato dalla Ue come obiettivo per il 2020, ma anche all’attuale media dei paesi Ue (2%), alla Germania (2,9%) e alla Francia (2,2%) e per il 54,5% ricade sulle imprese private (dato 2012, in crescita rispetto al 53,6% del 2008). Diminuisce la quota delle università, dal 30,5 al 28,6% e delle altre istituzioni pubbliche. Colpa della crisi, naturalmente (in Italia la lunga recessione è stata molto più dura che nel resto d’Europa). Ma anche di un’inquietante miopia della politica e di una parte delle stesse imprese rispetto al futuro. E’ vero che le statistiche sottostimano gli investimenti in ricerca e innovazione (nelle imprese piccole e medie in bilancio si parla spesso di “consulenza” e non di R&D e molta innovazione adattativa, soprattutto nei processi produttivi, non viene compiutamente contabilizzata). Ma il problema resta, soprattutto sul versante degli investimenti pubblici.

Ci sono, attivissime, le imprese innovatrici, rintracciabili soprattutto tra le industrie di media dimensione, internazionalizzate, competitive all’estero, capaci di aumentare la loro quota dell’export anche in stagioni di crisi (il dinamico mondo del “medium hi tech”, analizzato dal recente saggio di Gianfelice Rocca, presidente di Assolombarda, intitolato “Riaccendere i motori”, appena edito da Marsilio). E le nostre esportazioni vedono un peso crescente della meccanica, della chimica specialistica, di una certa farmaceutica d’avanguardia, accanto ai settori tradizionali, dall’abbigliamento all’arredamento e all’industria agro-alimentare. Ma tutto questo non basta a fare da locomotiva per una migliore crescita economica e sociale dell’Italia. Bisogna investire di più in capitale sociale e in capitale umano.

Come?  Su “Il Sole24Ore” (29 marzo) Paolo Bricco, sulla scorta della ricerca CSC, spiega che “capitale umano” significa in Italia tre cose: reale efficienza del sistema universitario, potenziamento della formazione tecnica, integrazione intelligente degli immigrati. E c’è molto da fare, su tutti e tre i versanti. Abbiamo un basso numero di laureati (il 15% della popolazione, tra i 25 e i 64 anni, rispetto al 42% degli Usa, con un effetto negativo sul Pil: 40mila euro pro capite, in nostro, 55mila quello americano) ma anche un forte deficit per le lauree in ingegneria, matematica, altri settori scientifici e comunque una mancata sintonia tra una pur essenziale formazione al “sapere” e una scarsa attitudine al “saper fare”, indispensabile per le imprese. Ci impegniamo poco nella formazione continua. E non c’è una strategia dell’attenzione alla riqualificazione per non “bruciare” forza lavoro (quella di mezza età, per esempio), messa ai margini dall’evoluzione dei processi produttivi (la formazione affidata purtroppo alla Regioni offre scandalosi esempi di sprechi, clientele, distorsioni, improduttività).

Ma c’è un altro fenomeno su cui il sistema Italia è particolarmente debole: l’attrazione dei talenti. Perdiamo, verso altri paesi, i laureati più qualificati, intraprendenti, dinamici. E non ne attiriamo abbastanza dal resto del mondo. La mobilità del lavoro qualificato, fenomeno positivo, per l’Italia diventa “fuga dei cervelli”. E, a peggiorare il quadro, contribuiscono non solo il fatto che non riusciamo ad avere talenti di alta qualità e competenze (complici le inadeguate leggi sull’immigrazione e una “bureau crazy”, brillante sintesi di un ironico laureato) ma anche il cattivo uso degli immigrati che abbiamo (“le matematiche ucraine che fanno le badanti per gli anziani, gli infornatici rumeni che scaricano le cassette di frutta al mercato”, per citare gli esempi del CSC).

Serve insomma una svolta politica. E culturale. Un investimento maggiore e migliore in “economia del sapere”, come sintetizza Fulvio Conti, ceo dell’Enel e vicepresidente di Confindustria per il CSC. E probabilmente vale la pena riconsiderare la lezione di un grande uomo di cultura come Bruno Munari, designer di straordinarie qualità innovative (“Munari politecnico”, si intitola la mostra a Milano al Museo del Novecento): “La fantasia è una facoltà dello spirito capace di inventare immagini mentali diverse dalla realtà dei particolari o nell’insieme: immagini che possono essere anche irrealizzabili praticamente. La creatività è una capacità produttiva dove fantasia e ragione sono collegate, per cui il risultato che si ottiene è sempre realizzabile praticamente”. Di creatività e di “cultura politecnica” le imprese italiane sono ricche. Ma questo capitale va incrementato, fatto crescere e non sprecato o lasciato invecchiare. La chiave dello sviluppo è proprio qui.

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