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Più cultura del mercato per rafforzare le buone imprese

Mercato, è la parola chiave. Per crescere, trovando nuovi spazi in aree di intenso sviluppo dei consumi, pubblici e privati. Per definire un punto di riferimento di riorganizzazioni aziendali in chiave di maggiore e soprattutto migliore competitività. Per tracciare un panorama di valori che vanno dal merito da premiare alla responsabilità da rispettare, dalla sostenibilità di prodotti e processi produttivi alle relazioni virtuose con tutti gli stakeholders interessati alle attività dell’azienda sul territorio. Mercato, come luogo fisico e concettuale, giuridico ed economico, ben definito da regole chiare, controlli efficienti e sanzioni efficaci e animato da soggetti liberi che vendono, scambiano, costruiscono un fitto tessuto di relazioni economiche, ma anche sociali e culturali. Mercato, insomma, come perno di una nuova cultura d’impresa in cui fare vivere innovazione e competizione. Innovazione nel significato più ampio del termine (prodotti e sistemi di produzione, materiali, relazioni industriali, linguaggi della comunicazione e del marketing, servizi, criteri di governance, etc.). E competizione nel doppio senso del “cum petere” (concorrere insieme verso un obiettivo comune) e del mettersi in gioco per l’affermazione del migliore. Non convergenze parallele, ma sinergie in chiave di sviluppo equilibrato e, appunto, sostenibile.

Guardano alle nuove forme dei mercati internazionali, le migliori imprese italiane. E realizzano programmi per stare il più possibile “vicino ai mercati”. Hanno retto alla crisi (dalle grandi alle medie, dalle piccole innovative ai distretti e alle filiere produttive) proprio puntando sull’export e sugli investimenti diretti nel paesi a più intensa crescita (dall’Europa centrale che guarda verso la Russia agli Usa che hanno riscoperto il valore della manifattura industriale, dal Far East all’America Latina, con occhio di particolare attenzione per Brasile e Messico). Hanno messo a frutto una radicale trasformazione produttiva e organizzativa (in chiave di innovazione, appunto) proprio in quella stagione dei primi anni Duemila, sino al 2007, in cui il dinamismo dei mercati interni europei (anche di quello italiano) e dei mercati internazionali consentiva di avere buoni margini per investire sull’espansione. E hanno trasformato la crisi in opportunità (spesso comunque faticosa, dura, conflittuale) di riorganizzazione e trasformazione.

Adesso quelle imprese (molte delle 7mila medie a proprietà familiare ma a conduzione spesso manageriale) possono guardare con un minimo di fiducia in più al futuro, provando a essere motore di una pur lenta crescita del sistema Paese. Hanno bisogno di sostegni di politica industriale (premi a ricerca e innovazione) e fiscale (sgravi, a cominciare dal “cuneo”, per chi crea lavoro stabile). E possono fare da cardine alla scelta strategica della Ue di arrivare, entro il 2020, a un peso della manifattura sul Pil superiore al 20% (solo la Germania, attualmente, ha superato l’obiettivo).

In Italia siamo in una stagione di grandi cambiamenti. Il “capitalismo relazionale” è arrivato definitivamente al tramonto. E toccherà presto agli storici dare giudizi critici sereni, né ideologici né manichei, su una lunga e controversa stagione della nostra economia, quella del predominio di Mediobanca, dei “salotti buoni” e dei “patti di sindacato” e della indispensabile difesa della grande impresa privata dalle invadenze di una “mano pubblica” dominata da logiche di partiti e clientele. Di certo, nel mondo dell’industria privata (media e grande, soprattutto) è tempo di trasformazioni. Guardando all’organizzazione secondo le dinamiche di mercato, appunto. Con il rafforzarsi di buone culture competitive. Meno holding e più puntuale attenzione al “core business”. E organizzazioni snelle, perché la maggior parte dei margini operativi vada allo sviluppo delle attività tipiche, ai prodotti, ai servizi. Proprio le imprese italiane, in questo processo, possono trovare spazi favorevoli: la flessibilità è storicamente un loro punto di forza, la “resilienza”, l’adattabilità intelligente ai cambiamenti, una loro attitudine. Nella globalizzazione che non è “un mondo piatto e uguale” ma una variegata geografia di somiglianze e diversità, la nostra cultura d’impresa legata al mercato può essere, ancora più che in passato, uno strumento di solido sviluppo, un buon paradigma anche per altre aree del mondo.

Mercato, è la parola chiave. Per crescere, trovando nuovi spazi in aree di intenso sviluppo dei consumi, pubblici e privati. Per definire un punto di riferimento di riorganizzazioni aziendali in chiave di maggiore e soprattutto migliore competitività. Per tracciare un panorama di valori che vanno dal merito da premiare alla responsabilità da rispettare, dalla sostenibilità di prodotti e processi produttivi alle relazioni virtuose con tutti gli stakeholders interessati alle attività dell’azienda sul territorio. Mercato, come luogo fisico e concettuale, giuridico ed economico, ben definito da regole chiare, controlli efficienti e sanzioni efficaci e animato da soggetti liberi che vendono, scambiano, costruiscono un fitto tessuto di relazioni economiche, ma anche sociali e culturali. Mercato, insomma, come perno di una nuova cultura d’impresa in cui fare vivere innovazione e competizione. Innovazione nel significato più ampio del termine (prodotti e sistemi di produzione, materiali, relazioni industriali, linguaggi della comunicazione e del marketing, servizi, criteri di governance, etc.). E competizione nel doppio senso del “cum petere” (concorrere insieme verso un obiettivo comune) e del mettersi in gioco per l’affermazione del migliore. Non convergenze parallele, ma sinergie in chiave di sviluppo equilibrato e, appunto, sostenibile.

Guardano alle nuove forme dei mercati internazionali, le migliori imprese italiane. E realizzano programmi per stare il più possibile “vicino ai mercati”. Hanno retto alla crisi (dalle grandi alle medie, dalle piccole innovative ai distretti e alle filiere produttive) proprio puntando sull’export e sugli investimenti diretti nel paesi a più intensa crescita (dall’Europa centrale che guarda verso la Russia agli Usa che hanno riscoperto il valore della manifattura industriale, dal Far East all’America Latina, con occhio di particolare attenzione per Brasile e Messico). Hanno messo a frutto una radicale trasformazione produttiva e organizzativa (in chiave di innovazione, appunto) proprio in quella stagione dei primi anni Duemila, sino al 2007, in cui il dinamismo dei mercati interni europei (anche di quello italiano) e dei mercati internazionali consentiva di avere buoni margini per investire sull’espansione. E hanno trasformato la crisi in opportunità (spesso comunque faticosa, dura, conflittuale) di riorganizzazione e trasformazione.

Adesso quelle imprese (molte delle 7mila medie a proprietà familiare ma a conduzione spesso manageriale) possono guardare con un minimo di fiducia in più al futuro, provando a essere motore di una pur lenta crescita del sistema Paese. Hanno bisogno di sostegni di politica industriale (premi a ricerca e innovazione) e fiscale (sgravi, a cominciare dal “cuneo”, per chi crea lavoro stabile). E possono fare da cardine alla scelta strategica della Ue di arrivare, entro il 2020, a un peso della manifattura sul Pil superiore al 20% (solo la Germania, attualmente, ha superato l’obiettivo).

In Italia siamo in una stagione di grandi cambiamenti. Il “capitalismo relazionale” è arrivato definitivamente al tramonto. E toccherà presto agli storici dare giudizi critici sereni, né ideologici né manichei, su una lunga e controversa stagione della nostra economia, quella del predominio di Mediobanca, dei “salotti buoni” e dei “patti di sindacato” e della indispensabile difesa della grande impresa privata dalle invadenze di una “mano pubblica” dominata da logiche di partiti e clientele. Di certo, nel mondo dell’industria privata (media e grande, soprattutto) è tempo di trasformazioni. Guardando all’organizzazione secondo le dinamiche di mercato, appunto. Con il rafforzarsi di buone culture competitive. Meno holding e più puntuale attenzione al “core business”. E organizzazioni snelle, perché la maggior parte dei margini operativi vada allo sviluppo delle attività tipiche, ai prodotti, ai servizi. Proprio le imprese italiane, in questo processo, possono trovare spazi favorevoli: la flessibilità è storicamente un loro punto di forza, la “resilienza”, l’adattabilità intelligente ai cambiamenti, una loro attitudine. Nella globalizzazione che non è “un mondo piatto e uguale” ma una variegata geografia di somiglianze e diversità, la nostra cultura d’impresa legata al mercato può essere, ancora più che in passato, uno strumento di solido sviluppo, un buon paradigma anche per altre aree del mondo.

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