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Se l’Italia investe poco su cultura e persone

I punti di forza di Pirelli sono tre: “Le persone, le persone e ancora le persone”. La frase di Marco Tronchetti Provera, pronunciata alcuni anni fa, è tema ricorrente delle conversazioni sui valori e la cultura d’impresa del gruppo. Se ne trova riscontro nelle affermazioni di tanti altri grandi imprenditori e manager. L’ultima dichiarazione è di Luca Cordero di Montezemolo: “In Ferrari diamo valore alla persone” (la Repubblica, 7 aprile). Ecco: le persone, le loro capacità, la loro cultura, il loro dinamismo nel fare, e fare bene. In un paese, come l’Italia, povero di materie prime e bravissimo nell’industria manifatturiera (creare valore con la trasformazione), le priorità di qualunque programma di sviluppo dovrebbero riguardare appunto le persone e cioè la crescita del capitale umano e del capitale sociale, della rete di relazioni positive. Dunque, cultura e istruzione. Eppure, guardando i dati più recenti di Eurostat, si nota che l’Italia è fanalino di coda dei paesi Ue per investimenti pubblici in cultura e scuola. La Francia destina ai due settori il 2,5% della spesa pubblica, il Regno Unito il 2,1, la Germania l’1,8. La media Ue è il 2,2. La Grecia, poverissima, l’1,2. E l’Italia? L’1,1 appena, la metà della media europea, una miseria. I dati confermano per l’ennesima volta una situazione già nota, l’irresponsabilità dei pubblici amministratori verso la tutela e la valorizzazione del nostro patrimonio storico, culturale e ambientale e verso la formazione di un nuovo patrimonio (gli investimenti in cultura e arte contemporanea). E le imprese private, che pur investono e spesso generosamente, non possono naturalmente supplire al mancato investimento delle strutture pubbliche.

Ma c’è un altro dato, ad aggravare l’allarme: la ripresa massiccia dell’emigrazione. Nel 2012 79mila italiani sono andati via. 35mila sono giovani tra 20 e 40 anni, un aumento del 28% sull’anno precedente. Vanno verso la Germania e gli altri paesi Ue, la Svizzera, l’America Latina, gli Usa, in cerca di migliori condizioni di lavoro e di vita. Capitale umano perso. Rete di relazioni e competenze strappata.

In sintesi: non investiamo in cultura e formazione e perdiamo parte ampia del capitale che abbiamo formato. Le imprese ne soffrono. L’Italia si ritrova più vecchia, povera, meno dinamica e pronta allo sviluppo.

I punti di forza di Pirelli sono tre: “Le persone, le persone e ancora le persone”. La frase di Marco Tronchetti Provera, pronunciata alcuni anni fa, è tema ricorrente delle conversazioni sui valori e la cultura d’impresa del gruppo. Se ne trova riscontro nelle affermazioni di tanti altri grandi imprenditori e manager. L’ultima dichiarazione è di Luca Cordero di Montezemolo: “In Ferrari diamo valore alla persone” (la Repubblica, 7 aprile). Ecco: le persone, le loro capacità, la loro cultura, il loro dinamismo nel fare, e fare bene. In un paese, come l’Italia, povero di materie prime e bravissimo nell’industria manifatturiera (creare valore con la trasformazione), le priorità di qualunque programma di sviluppo dovrebbero riguardare appunto le persone e cioè la crescita del capitale umano e del capitale sociale, della rete di relazioni positive. Dunque, cultura e istruzione. Eppure, guardando i dati più recenti di Eurostat, si nota che l’Italia è fanalino di coda dei paesi Ue per investimenti pubblici in cultura e scuola. La Francia destina ai due settori il 2,5% della spesa pubblica, il Regno Unito il 2,1, la Germania l’1,8. La media Ue è il 2,2. La Grecia, poverissima, l’1,2. E l’Italia? L’1,1 appena, la metà della media europea, una miseria. I dati confermano per l’ennesima volta una situazione già nota, l’irresponsabilità dei pubblici amministratori verso la tutela e la valorizzazione del nostro patrimonio storico, culturale e ambientale e verso la formazione di un nuovo patrimonio (gli investimenti in cultura e arte contemporanea). E le imprese private, che pur investono e spesso generosamente, non possono naturalmente supplire al mancato investimento delle strutture pubbliche.

Ma c’è un altro dato, ad aggravare l’allarme: la ripresa massiccia dell’emigrazione. Nel 2012 79mila italiani sono andati via. 35mila sono giovani tra 20 e 40 anni, un aumento del 28% sull’anno precedente. Vanno verso la Germania e gli altri paesi Ue, la Svizzera, l’America Latina, gli Usa, in cerca di migliori condizioni di lavoro e di vita. Capitale umano perso. Rete di relazioni e competenze strappata.

In sintesi: non investiamo in cultura e formazione e perdiamo parte ampia del capitale che abbiamo formato. Le imprese ne soffrono. L’Italia si ritrova più vecchia, povera, meno dinamica e pronta allo sviluppo.

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