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“Space cowboys”, il progetto Daimler e la staffetta anziani-giovani

L’hanno chiamato “Space cowboys”,  come il film di Clint Eastwood in cui un gruppo di anziani astronauti vengono richiamati in servizio per una missione speciale: un nome perfetto, per il programma della Daimler (Mercedes) di sollecitare il rientro in azienda di cento pensionati, per usare le loro esperienze e le loro competenze in settori particolari del gruppo. Altri 390 sono già in lista, per ulteriori necessità. Largo agli anziani, insomma, in Germania. Non solo alla Daimler, ma anche alla Bosch e alla Otto. E probabilmente altre aziende seguiranno. “Erano a rischio conoscenze e know how specifici, nell’informatica, nel lancio di nuovi prodotti, nella conquista di mercati esteri particolarmente difficili, come la Cina, ha spiegato ai media Wilfried Porth, capo delle risorse umane del gruppo Daimler (275mila dipendenti). E se è vero che i giovani ingegneri e i giovani tecnici hanno conoscenze particolarmente aggiornate e hi tech, gli anziani, con anni di lavoro alle spalle in fabbrica e nei centri di ricerca e nei settori del marketing e delle vendite, hanno un patrimonio di competenze straordinariamente sofisticato, di cui l’azienda ritiene di avere particolarmente bisogno. Strada interessante, insomma, su cui discutere con attenzione e senza rigidità.

Il potente sindacato dell’auto tedesco, IG Metall, ha già espresso la sua contrarietà: si tolgono opportunità ai giovani, si aggrava il gap generazionale. Ma le imprese in Germania sembrano avere voglia di tenere bene in considerazione i risultati dei programmi Daimler e Bosch.

La vicenda tedesca va probabilmente considerata fuori dagli schemi tradizionali del conflitto generazionale, evitando fin che è possibile le contrapposizioni vecchi-giovani care a una certa rappresentazione mediatica buona per i talk show urlati ma inutile di fronte alle evoluzioni sempre più complesse della cultura d’impresa e dei mercati “dei lavori”.

Si può per esempio considerare il fatto che proprio nella stagione del primato dell’ “economia della conoscenza” le competenze acquisite in anni e anni di mestiere nell’industria non vanno affatto disperse, pena uno spreco di capitale intellettuale e di capitale sociale di rilevanti dimensioni. E si può aggiungere che vanno studiate forme, sia organizzative che contrattuali, per favorire l’affiancamento degli anziani ai nuovi assunti. Pensionati sottratti all’inutilità che possono insegnare ai giovani secondo strutture di “learnig on job”. Ingegneri, tecnici e quadri operai di livello che possono affidare le loro conoscenze concrete alle attitudini ad alta tecnologia dei nuovi assunti. Ibridazioni di punti di vista. Cross fertilization di culture e attitudini. Con parecchi vantaggi: gli anziani pensionati possono costare relativamente poco all’impresa (stipendi ridotti in presenza di part time e contratti a tempo, senza oneri previdenziali), i giovani possono imparare e fare carriera senza subire il “tappo generazionale”, il capitale professionale complessivo si rafforza. Una staffetta generazionale complessa e virtuosa, un buon utilizzo lungimirante del capitale umano.

La fabbrica, che è stata durante tutto l’inquieto Novecento un soggetto sociale di gran rilievo (i valori del lavoro, l’integrazione sociale, l’acquisizione della coscienza della cittadinanza con il raccordo tra diritti e doveri, il vissuto denso di tensioni dei conflitti ricomposti e sfociati in nuovi equilibri delle relazioni industriali e in innovazioni produttive e sociali) può essere dunque anche luogo in cui si definiscono inediti criteri secondo cui scrivere “nuovi patti generazionali”, affrontando, proprio attraverso la cultura d’impresa e i rapporti di lavoro, la questione della trasmissione dei valori, della memoria e della speranza (il filosofo Remo Bodei scrive pagine molto belle, in questo senso, nel suo ultimo libro, “Generazioni – Età della vita, età delle cose” edito da Laterza). E la “civiltà dell’industria” può fare da paradigma di inedite trasformazioni sociali.

In economia, in Italia – è vero – è ancora forte una “gerontocrazia” (documentata da un interessante libro di Sandro Catani, manager e consulente, per Garzanti, che ha considerato le 400 figure di vertice delle imprese quotate in Piazza Affari, un’oligarchia con un’età media di 65 anni, la più alta in Europa, che vive male e rallenta il ricambio generazionale). Un’evoluzione è comunque in corso. E anche nel mondo delle imprese medie e piccole, là dove il capitalismo familiare si evolve verso forme di gestione che pur faticosamente fanno spazio ai manager, il ricambio generazionale è abbastanza avanzato, con originali dinamismi (li documenta l’ultimo numero del mensile “Capital”, che vi dedica la copertina: “Generazione 40”).

In ogni caso è necessario che il dibattito pubblico sulla metamorfosi delle imprese vada oltre la contrapposizione gerontocrati-giovani rampanti, per approfondire semmai, criticamente, l’indicazione tedesca. “Space cowboys”, appunto. Che insegnino ai giovani a cavalcare meglio il futuro.

L’hanno chiamato “Space cowboys”,  come il film di Clint Eastwood in cui un gruppo di anziani astronauti vengono richiamati in servizio per una missione speciale: un nome perfetto, per il programma della Daimler (Mercedes) di sollecitare il rientro in azienda di cento pensionati, per usare le loro esperienze e le loro competenze in settori particolari del gruppo. Altri 390 sono già in lista, per ulteriori necessità. Largo agli anziani, insomma, in Germania. Non solo alla Daimler, ma anche alla Bosch e alla Otto. E probabilmente altre aziende seguiranno. “Erano a rischio conoscenze e know how specifici, nell’informatica, nel lancio di nuovi prodotti, nella conquista di mercati esteri particolarmente difficili, come la Cina, ha spiegato ai media Wilfried Porth, capo delle risorse umane del gruppo Daimler (275mila dipendenti). E se è vero che i giovani ingegneri e i giovani tecnici hanno conoscenze particolarmente aggiornate e hi tech, gli anziani, con anni di lavoro alle spalle in fabbrica e nei centri di ricerca e nei settori del marketing e delle vendite, hanno un patrimonio di competenze straordinariamente sofisticato, di cui l’azienda ritiene di avere particolarmente bisogno. Strada interessante, insomma, su cui discutere con attenzione e senza rigidità.

Il potente sindacato dell’auto tedesco, IG Metall, ha già espresso la sua contrarietà: si tolgono opportunità ai giovani, si aggrava il gap generazionale. Ma le imprese in Germania sembrano avere voglia di tenere bene in considerazione i risultati dei programmi Daimler e Bosch.

La vicenda tedesca va probabilmente considerata fuori dagli schemi tradizionali del conflitto generazionale, evitando fin che è possibile le contrapposizioni vecchi-giovani care a una certa rappresentazione mediatica buona per i talk show urlati ma inutile di fronte alle evoluzioni sempre più complesse della cultura d’impresa e dei mercati “dei lavori”.

Si può per esempio considerare il fatto che proprio nella stagione del primato dell’ “economia della conoscenza” le competenze acquisite in anni e anni di mestiere nell’industria non vanno affatto disperse, pena uno spreco di capitale intellettuale e di capitale sociale di rilevanti dimensioni. E si può aggiungere che vanno studiate forme, sia organizzative che contrattuali, per favorire l’affiancamento degli anziani ai nuovi assunti. Pensionati sottratti all’inutilità che possono insegnare ai giovani secondo strutture di “learnig on job”. Ingegneri, tecnici e quadri operai di livello che possono affidare le loro conoscenze concrete alle attitudini ad alta tecnologia dei nuovi assunti. Ibridazioni di punti di vista. Cross fertilization di culture e attitudini. Con parecchi vantaggi: gli anziani pensionati possono costare relativamente poco all’impresa (stipendi ridotti in presenza di part time e contratti a tempo, senza oneri previdenziali), i giovani possono imparare e fare carriera senza subire il “tappo generazionale”, il capitale professionale complessivo si rafforza. Una staffetta generazionale complessa e virtuosa, un buon utilizzo lungimirante del capitale umano.

La fabbrica, che è stata durante tutto l’inquieto Novecento un soggetto sociale di gran rilievo (i valori del lavoro, l’integrazione sociale, l’acquisizione della coscienza della cittadinanza con il raccordo tra diritti e doveri, il vissuto denso di tensioni dei conflitti ricomposti e sfociati in nuovi equilibri delle relazioni industriali e in innovazioni produttive e sociali) può essere dunque anche luogo in cui si definiscono inediti criteri secondo cui scrivere “nuovi patti generazionali”, affrontando, proprio attraverso la cultura d’impresa e i rapporti di lavoro, la questione della trasmissione dei valori, della memoria e della speranza (il filosofo Remo Bodei scrive pagine molto belle, in questo senso, nel suo ultimo libro, “Generazioni – Età della vita, età delle cose” edito da Laterza). E la “civiltà dell’industria” può fare da paradigma di inedite trasformazioni sociali.

In economia, in Italia – è vero – è ancora forte una “gerontocrazia” (documentata da un interessante libro di Sandro Catani, manager e consulente, per Garzanti, che ha considerato le 400 figure di vertice delle imprese quotate in Piazza Affari, un’oligarchia con un’età media di 65 anni, la più alta in Europa, che vive male e rallenta il ricambio generazionale). Un’evoluzione è comunque in corso. E anche nel mondo delle imprese medie e piccole, là dove il capitalismo familiare si evolve verso forme di gestione che pur faticosamente fanno spazio ai manager, il ricambio generazionale è abbastanza avanzato, con originali dinamismi (li documenta l’ultimo numero del mensile “Capital”, che vi dedica la copertina: “Generazione 40”).

In ogni caso è necessario che il dibattito pubblico sulla metamorfosi delle imprese vada oltre la contrapposizione gerontocrati-giovani rampanti, per approfondire semmai, criticamente, l’indicazione tedesca. “Space cowboys”, appunto. Che insegnino ai giovani a cavalcare meglio il futuro.

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