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Symbola, ritratto dell’Italia che lavora ed esporta ma senza dimenticare il peso del debito pubblico

Il 2018 è “l’anno della svolta”, perché “l’industria ha riacceso i motori”, l’export va meglio che mai, la crescita del Pil dell’1,5% del 2017 mostra di potersi ripetere sino al 2019, salgono redditi (+0,7% il reddito disponibile delle famiglie nel terzo trimestre 2017 rispetto all’anno precedente), potere d’acquisto (+1,1%), risparmi e investimenti, privati e pubblici. Diminuisce il carico fiscale (è al 40,3%, il livello più basso degli ultimi sei anni). I titoli de “IlSole24Ore” e del “Corriere della Sera” tra gli ultimi giorni di dicembre e i primi di gennaio sono ottimisti. Eppure in giro tira aria di scontentezza, di disagio, di crisi. Soldi in tasca ma musi lunghi. Perché?
Il rapporto Ipsos “Perils of perception” mette l’Italia in testa ai paesi europei per la distorta percezione di sé, al dodicesimo posto d’una classifica di 38 nazioni e che vede in cima il Sud Africa, seguito da Brasile, Filippine e Perù (i più lontani dalla realtà indicata dai dati sulla crescita economica e sociale) e all’ultimo posto la Svezia, patria del maggior realismo (“la Repubblica”, 4 gennaio). In sintesi: ci percepiamo negativamente, ci sottostimiamo, ci raccontiamo male.

È una conferma delle rilevazioni dell’ultimo Rapporto Censis che mette in evidenza l’emergere di una “Italia del rancore”, nonostante tutti i dati economici indichino oramai da qualche tempo una crescita della ricchezza e dei posti di lavoro, pur tra rilevanti squilibri territoriali e sociali. E su cui ha ritenuto doveroso insistere anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo messaggio di fine anno, sulla necessità di porre un argine all’Italia “del risentimento” e impegnarsi invece, in politica e nella società, per rafforzare i dati positivi che nonostante tutto emergono nel nostro Paese.
Che dati? A parte quelli sul Pil e senza dimenticare il peso dei conti pubblici (il debito è sempre troppo alto: ne parleremo meglio tra poco), vale la pena fermare l’attenzione su alcuni numeri. Con l’aiuto della Fondazione Symbola che anche quest’anno pubblica il suo Rapporto su “L’Italia in dieci selfie”, sul Bel Paese che funziona. Non percezioni. Ma statistiche internazionali.
Qualche dato: nell’agroalimentare siamo i primi al mondo per sostenibilità (emettiamo il minor numero di tonnellate di CO2 per milioni di euro prodotti, meglio di quanto facciano Spagna e Francia, la metà di Germania e Regno Unito) e anche la nostra produzione industriale è la più efficiente da punto di vista energetico; siamo il quarto paese al mondo per export di macchinari industriali, dopo Germania, Cina e Giappone; siamo il secondo per quote di mercato nella moda, dopo la Cina (il 40% i cinesi, il 6,6% noi, poi l’India e la Germania). E ancora: siamo i primi tra i “grandi” della Ue per crescita dell’export della farmaceutica. In poche parole: abbiamo una solida green economy e cresciamo in settori industriali d’avanguardia, la meccanica e la “meccatronica”, cardine di un sistema che sta affrontando bene le sfide digitali di “Industry4.0” e fa di noi, comunque, la seconda potenza manifatturiera della Ue dopo la Germania.

L’export segna ancora un record (“IlSole24Ore”, 30 dicembre 2017): 450 miliardi, quasi l’8% in più che nel 2016 e con tutte le premesse (rivitalizzazione del tessuto produttivo, investimenti, scelte di politica economica del governo per affrontare meglio i mercati internazionali) perché si cresca ancora pure nel 2018.
“Senza vanto di propaganda né ottimismo di maniera, ma nemmeno senza eccessi di pessimismo”, commenta Ermete Realacci, presidente di Symbola, che anche con quei “dieci selfie” conferma l’impegno a fare emergere “l’Italia che va” e il ruolo delle buone imprese.
C’è uno “storytelling” fondato sul disagio, la paura, le fragilità pur innegabili del Paese, in cerca di facili consensi elettorali “populisti”. E c’è anche una carenza degli attori più responsabili della politica, dell’economia e della cultura a rendere credibile e popolare il racconto dei tanti italiani che si impegnano, lavorano, investono, innovano, fanno di tutto per cambiare il Paese. Una sfida civile, cui fare fronte responsabilmente.

Restano, naturalmente, i problemi, a cominciare dal debito pubblico (lo hanno giustamente ricordato Carlo Cottarelli su “La Stampa”, 29 dicembre e Ferruccio De Bortoli sul “Corriere della Sera” il giorno dopo) e su cui quasi nessuno, tra le forze politiche alla vigilia della campagna elettorale, sembra porre la necessaria attenzione: un’ipoteca sul futuro, un grave rischio scaricato irresponsabilmente sulle nuove generazioni, ancora più grave in un momento in cui i tassi tendono al rialzo e la politica della Bce di Mario Draghi ispirata al “quantitative easing” va verso l’esaurimento (rifinanziare i titoli del nostro debito, in altri termini, ci costerà sempre di più, riducendo le risorse per servizi e investimenti pubblici). E quei problemi avrebbero bisogno di scelte politiche e di riforme serie e lungimiranti (altro che le campagne contro l’euro e le sparate facili sul fisco indiscriminatamente leggero).
“La ‘prova debito’ resta il vero esame dell’Italia in rimonta”, nota bene un economista serio come Gianni Toniolo (“IlSole24Ore”, 31 dicembre). Debito da tagliare, riforme da fare, economia da rafforzare, appunto (a cominciare dal miglioramento della relazione virtuosa salari-produttività). La “rimonta”, trainata dalle imprese migliori, c’è ed è sempre più evidente. Serve una buona politica. Ecco un tema vero da affrontare, proprio in campagna elettorale, fuori da facili retoriche di propaganda.

Il 2018 è “l’anno della svolta”, perché “l’industria ha riacceso i motori”, l’export va meglio che mai, la crescita del Pil dell’1,5% del 2017 mostra di potersi ripetere sino al 2019, salgono redditi (+0,7% il reddito disponibile delle famiglie nel terzo trimestre 2017 rispetto all’anno precedente), potere d’acquisto (+1,1%), risparmi e investimenti, privati e pubblici. Diminuisce il carico fiscale (è al 40,3%, il livello più basso degli ultimi sei anni). I titoli de “IlSole24Ore” e del “Corriere della Sera” tra gli ultimi giorni di dicembre e i primi di gennaio sono ottimisti. Eppure in giro tira aria di scontentezza, di disagio, di crisi. Soldi in tasca ma musi lunghi. Perché?
Il rapporto Ipsos “Perils of perception” mette l’Italia in testa ai paesi europei per la distorta percezione di sé, al dodicesimo posto d’una classifica di 38 nazioni e che vede in cima il Sud Africa, seguito da Brasile, Filippine e Perù (i più lontani dalla realtà indicata dai dati sulla crescita economica e sociale) e all’ultimo posto la Svezia, patria del maggior realismo (“la Repubblica”, 4 gennaio). In sintesi: ci percepiamo negativamente, ci sottostimiamo, ci raccontiamo male.

È una conferma delle rilevazioni dell’ultimo Rapporto Censis che mette in evidenza l’emergere di una “Italia del rancore”, nonostante tutti i dati economici indichino oramai da qualche tempo una crescita della ricchezza e dei posti di lavoro, pur tra rilevanti squilibri territoriali e sociali. E su cui ha ritenuto doveroso insistere anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo messaggio di fine anno, sulla necessità di porre un argine all’Italia “del risentimento” e impegnarsi invece, in politica e nella società, per rafforzare i dati positivi che nonostante tutto emergono nel nostro Paese.
Che dati? A parte quelli sul Pil e senza dimenticare il peso dei conti pubblici (il debito è sempre troppo alto: ne parleremo meglio tra poco), vale la pena fermare l’attenzione su alcuni numeri. Con l’aiuto della Fondazione Symbola che anche quest’anno pubblica il suo Rapporto su “L’Italia in dieci selfie”, sul Bel Paese che funziona. Non percezioni. Ma statistiche internazionali.
Qualche dato: nell’agroalimentare siamo i primi al mondo per sostenibilità (emettiamo il minor numero di tonnellate di CO2 per milioni di euro prodotti, meglio di quanto facciano Spagna e Francia, la metà di Germania e Regno Unito) e anche la nostra produzione industriale è la più efficiente da punto di vista energetico; siamo il quarto paese al mondo per export di macchinari industriali, dopo Germania, Cina e Giappone; siamo il secondo per quote di mercato nella moda, dopo la Cina (il 40% i cinesi, il 6,6% noi, poi l’India e la Germania). E ancora: siamo i primi tra i “grandi” della Ue per crescita dell’export della farmaceutica. In poche parole: abbiamo una solida green economy e cresciamo in settori industriali d’avanguardia, la meccanica e la “meccatronica”, cardine di un sistema che sta affrontando bene le sfide digitali di “Industry4.0” e fa di noi, comunque, la seconda potenza manifatturiera della Ue dopo la Germania.

L’export segna ancora un record (“IlSole24Ore”, 30 dicembre 2017): 450 miliardi, quasi l’8% in più che nel 2016 e con tutte le premesse (rivitalizzazione del tessuto produttivo, investimenti, scelte di politica economica del governo per affrontare meglio i mercati internazionali) perché si cresca ancora pure nel 2018.
“Senza vanto di propaganda né ottimismo di maniera, ma nemmeno senza eccessi di pessimismo”, commenta Ermete Realacci, presidente di Symbola, che anche con quei “dieci selfie” conferma l’impegno a fare emergere “l’Italia che va” e il ruolo delle buone imprese.
C’è uno “storytelling” fondato sul disagio, la paura, le fragilità pur innegabili del Paese, in cerca di facili consensi elettorali “populisti”. E c’è anche una carenza degli attori più responsabili della politica, dell’economia e della cultura a rendere credibile e popolare il racconto dei tanti italiani che si impegnano, lavorano, investono, innovano, fanno di tutto per cambiare il Paese. Una sfida civile, cui fare fronte responsabilmente.

Restano, naturalmente, i problemi, a cominciare dal debito pubblico (lo hanno giustamente ricordato Carlo Cottarelli su “La Stampa”, 29 dicembre e Ferruccio De Bortoli sul “Corriere della Sera” il giorno dopo) e su cui quasi nessuno, tra le forze politiche alla vigilia della campagna elettorale, sembra porre la necessaria attenzione: un’ipoteca sul futuro, un grave rischio scaricato irresponsabilmente sulle nuove generazioni, ancora più grave in un momento in cui i tassi tendono al rialzo e la politica della Bce di Mario Draghi ispirata al “quantitative easing” va verso l’esaurimento (rifinanziare i titoli del nostro debito, in altri termini, ci costerà sempre di più, riducendo le risorse per servizi e investimenti pubblici). E quei problemi avrebbero bisogno di scelte politiche e di riforme serie e lungimiranti (altro che le campagne contro l’euro e le sparate facili sul fisco indiscriminatamente leggero).
“La ‘prova debito’ resta il vero esame dell’Italia in rimonta”, nota bene un economista serio come Gianni Toniolo (“IlSole24Ore”, 31 dicembre). Debito da tagliare, riforme da fare, economia da rafforzare, appunto (a cominciare dal miglioramento della relazione virtuosa salari-produttività). La “rimonta”, trainata dalle imprese migliori, c’è ed è sempre più evidente. Serve una buona politica. Ecco un tema vero da affrontare, proprio in campagna elettorale, fuori da facili retoriche di propaganda.

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