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Troppo pochi laureati e maltrattati, per reggere la sfida “humanifacturing”

Troppo pochi laureati, in Italia. E bistrattati, pagati male, costretti a fare lavori inadeguati. E’ questa la sintesi, sui media italiani, del recente Rapporto Ocse su “Strategia per le competenze” (6 ottobre). Con una conclusione sconfortante: in tempi in cui la competitività si gioca soprattutto sul “capitale umano”, il Paese continua a perdere preziose opportunità di sviluppo. E parecchi dei nostri giovani migliori scelgono d’andare via, cercando altrove migliori condizioni di lavoro e di vita. Sono i “cervelli in fuga”, centinaia di migliaia di “talenti” nel corso degli ultimi anni, un’emorragia che in un anno vale un punto di Pil: 14 miliardi, tra spese dello Stato e delle famiglie per formare ragazzi che poi vanno all’estero e quasi sempre non tornano più (indagine del Centro Studi Confindustria, ne abbiamo parlato nel blog del 19 settembre).

I dati dell’Ocse dicono che solo il 20% degli italiani tra i 25 e i 34 anni completano il corso di studi universitari, contro una media Ocse del 30%. E l’Italia è l’unico paese del G7 in cui la quota di laureati in mansioni di routine è più alta di quella di laureati impiegati in processi complessi e con poteri decisionali. In generale, il 30% dei lavoratori hanno “competenze in eccesso” o sono “sovraqualificati” rispetto alle mansioni cui sono addetti. Eccola, l’inadeguatezza.

L’Ocse conferma un “mismatch” tra formazione e lavoro. E in precedenti analisi ha anche notato un eccesso di lauree in materie umanistiche (comprese quelle giuridiche) e una carenza grave di laureati “stem” (le iniziali di science, technology, engineering e mathematics). Un disastro, insomma. Una gravissima disfunzione del nostro sistema educativo, in cui spendiamo comunque troppo poco, il 4% del Pil contro il 5,2% della media Ocse. Poco. E male.

Ecco il secondo punto: la qualità dell’università. Le recenti cronache dei media sono state affollate dal nuovo scandalo detto “concorsopoli”: un sistema distorto, in moltissimi atenei, per favorire l’assegnazione di cattedre e incarichi a familiari, raccomandati, addetti fedeli a scuole accademiche e cordate di potere e interessi. Non è il primo scandalo, probabilmente non sarà l’ultimo. La magistratura indaga. Ma in attesa di giustizia, il giudizio che molti giovani possono ricavarne è terribile: l’Italia, ancora una volta, conferma d’essere il paese che premia le clientele e non il merito. Meglio, molto meglio, andarsene via.

Pochi laureati, bistrattati e umiliati, nel cuore dell’Accademia, il luogo della ricerca e della formazione più elevata, dai figli e dai protetti dei “baroni”.

Su cosa fare, il dibattito è aperto. Investimenti e riforme sull’istruzione (i governi recenti hanno cominciato a cambiare qualcosa). Premio per le università che, applicando al meglio i margini consentiti ai consigli d’amministrazione e ai Senati accademici dalla Riforma Gelmini in termini di autonomia, chiamano in cattedra insegnanti e ricercatori di qualità, anche dall’estero. E stimoli per una migliore collaborazione tra atenei e imprese che investono sui “talenti” e l’innovazione. Anche da questo punto di vista da Milano possono arrivare utili indicazioni: nelle università della metropoli aumenta il numero degli studenti che vengono qui a studiare dall’estero e le sue università più esposte alla competizione e ai paragoni internazionali (Bocconi, Politecnico, Humanitas, etc.) crescono facendo buona selezione tra docenti e allievi. Ne risentono positivamente l’attrattività e la competitività di tutto il territorio.

La sfida dello sviluppo è concentrata sull’utilizzo delle intelligenze. Sono tempi di “humanifacturing”, scrive Luca De Biase su “IlSole24Ore” (8 ottobre), parlando dei progetti di una delle migliori multinazionali italiane, Comau, con un efficace neologismo di sintesi tra “humanities”, le competenze umanistiche a cominciare dalla filosofia e delle “scienze del bello” e “manifacturing”, la straordinaria vocazione italiana alla manifattura di qualità. Servono “specializzazioni forti e apertura mentale ampia”, dicono in Comau. Tutt’altro che una contraddizione. Spiega Maurizio Cremonini, responsabile marketing di Comau: “Pensare, realizzare, fare funzionare l’architettura della fabbrica oggi è un lavoro complesso che richiede fortissime competenze tecniche. Ma le tecnologie evolvono velocemente e le pur necessarie specializzazioni diventano obsolete: senza una preparazione ampia è difficile stare al passo”. Ampia e cioè capace di capire e riorganizzare le complessità, rimodulare meccanismi, riscrivere relazioni e connessioni, dare forma mobile al cambiamento, ritracciare su misura macchine e competenze.

Industry4.0”, big data, cloud computing, robotica d’avanguardia, sistemi digital stanno modificando produzione, prodotti, lavoro. Lungo la prossima frontiera del futuro, la “meccatronica”, cresce solo chi innova. Chi cioè sa mettere in campo risorse per una nuova “civiltà delle macchine”, capaci di essere in linea con l’organizzazione digitale del lavoro e con le “connessioni” che già adesso segnano le nostre metropoli, tra dimensioni da “smart city” e sfide economiche e culturali da “sharing economy” (per averne idea, vale la pena leggere “La città di domani – Come le Reti stanno cambiando il futuro urbano” di Carlo Ratti, Einaudi e “Cambio di paradigma – Uscire dalla crisi pensando il futuro” di Mauro Magatti, Feltrinelli). Robotica a misura umana. E nuove scelte da “economia civile”.

“Ingegneri filosofi” e “ingegneri poeti”, abbiamo scritto più volte in questo blog. “Cultura politecnica”. E’ la sfida di frontiera per le nostre università e le nostre imprese: più laureati, migliori e meglio trattati. La chiave vera per lo sviluppo.

Troppo pochi laureati, in Italia. E bistrattati, pagati male, costretti a fare lavori inadeguati. E’ questa la sintesi, sui media italiani, del recente Rapporto Ocse su “Strategia per le competenze” (6 ottobre). Con una conclusione sconfortante: in tempi in cui la competitività si gioca soprattutto sul “capitale umano”, il Paese continua a perdere preziose opportunità di sviluppo. E parecchi dei nostri giovani migliori scelgono d’andare via, cercando altrove migliori condizioni di lavoro e di vita. Sono i “cervelli in fuga”, centinaia di migliaia di “talenti” nel corso degli ultimi anni, un’emorragia che in un anno vale un punto di Pil: 14 miliardi, tra spese dello Stato e delle famiglie per formare ragazzi che poi vanno all’estero e quasi sempre non tornano più (indagine del Centro Studi Confindustria, ne abbiamo parlato nel blog del 19 settembre).

I dati dell’Ocse dicono che solo il 20% degli italiani tra i 25 e i 34 anni completano il corso di studi universitari, contro una media Ocse del 30%. E l’Italia è l’unico paese del G7 in cui la quota di laureati in mansioni di routine è più alta di quella di laureati impiegati in processi complessi e con poteri decisionali. In generale, il 30% dei lavoratori hanno “competenze in eccesso” o sono “sovraqualificati” rispetto alle mansioni cui sono addetti. Eccola, l’inadeguatezza.

L’Ocse conferma un “mismatch” tra formazione e lavoro. E in precedenti analisi ha anche notato un eccesso di lauree in materie umanistiche (comprese quelle giuridiche) e una carenza grave di laureati “stem” (le iniziali di science, technology, engineering e mathematics). Un disastro, insomma. Una gravissima disfunzione del nostro sistema educativo, in cui spendiamo comunque troppo poco, il 4% del Pil contro il 5,2% della media Ocse. Poco. E male.

Ecco il secondo punto: la qualità dell’università. Le recenti cronache dei media sono state affollate dal nuovo scandalo detto “concorsopoli”: un sistema distorto, in moltissimi atenei, per favorire l’assegnazione di cattedre e incarichi a familiari, raccomandati, addetti fedeli a scuole accademiche e cordate di potere e interessi. Non è il primo scandalo, probabilmente non sarà l’ultimo. La magistratura indaga. Ma in attesa di giustizia, il giudizio che molti giovani possono ricavarne è terribile: l’Italia, ancora una volta, conferma d’essere il paese che premia le clientele e non il merito. Meglio, molto meglio, andarsene via.

Pochi laureati, bistrattati e umiliati, nel cuore dell’Accademia, il luogo della ricerca e della formazione più elevata, dai figli e dai protetti dei “baroni”.

Su cosa fare, il dibattito è aperto. Investimenti e riforme sull’istruzione (i governi recenti hanno cominciato a cambiare qualcosa). Premio per le università che, applicando al meglio i margini consentiti ai consigli d’amministrazione e ai Senati accademici dalla Riforma Gelmini in termini di autonomia, chiamano in cattedra insegnanti e ricercatori di qualità, anche dall’estero. E stimoli per una migliore collaborazione tra atenei e imprese che investono sui “talenti” e l’innovazione. Anche da questo punto di vista da Milano possono arrivare utili indicazioni: nelle università della metropoli aumenta il numero degli studenti che vengono qui a studiare dall’estero e le sue università più esposte alla competizione e ai paragoni internazionali (Bocconi, Politecnico, Humanitas, etc.) crescono facendo buona selezione tra docenti e allievi. Ne risentono positivamente l’attrattività e la competitività di tutto il territorio.

La sfida dello sviluppo è concentrata sull’utilizzo delle intelligenze. Sono tempi di “humanifacturing”, scrive Luca De Biase su “IlSole24Ore” (8 ottobre), parlando dei progetti di una delle migliori multinazionali italiane, Comau, con un efficace neologismo di sintesi tra “humanities”, le competenze umanistiche a cominciare dalla filosofia e delle “scienze del bello” e “manifacturing”, la straordinaria vocazione italiana alla manifattura di qualità. Servono “specializzazioni forti e apertura mentale ampia”, dicono in Comau. Tutt’altro che una contraddizione. Spiega Maurizio Cremonini, responsabile marketing di Comau: “Pensare, realizzare, fare funzionare l’architettura della fabbrica oggi è un lavoro complesso che richiede fortissime competenze tecniche. Ma le tecnologie evolvono velocemente e le pur necessarie specializzazioni diventano obsolete: senza una preparazione ampia è difficile stare al passo”. Ampia e cioè capace di capire e riorganizzare le complessità, rimodulare meccanismi, riscrivere relazioni e connessioni, dare forma mobile al cambiamento, ritracciare su misura macchine e competenze.

Industry4.0”, big data, cloud computing, robotica d’avanguardia, sistemi digital stanno modificando produzione, prodotti, lavoro. Lungo la prossima frontiera del futuro, la “meccatronica”, cresce solo chi innova. Chi cioè sa mettere in campo risorse per una nuova “civiltà delle macchine”, capaci di essere in linea con l’organizzazione digitale del lavoro e con le “connessioni” che già adesso segnano le nostre metropoli, tra dimensioni da “smart city” e sfide economiche e culturali da “sharing economy” (per averne idea, vale la pena leggere “La città di domani – Come le Reti stanno cambiando il futuro urbano” di Carlo Ratti, Einaudi e “Cambio di paradigma – Uscire dalla crisi pensando il futuro” di Mauro Magatti, Feltrinelli). Robotica a misura umana. E nuove scelte da “economia civile”.

“Ingegneri filosofi” e “ingegneri poeti”, abbiamo scritto più volte in questo blog. “Cultura politecnica”. E’ la sfida di frontiera per le nostre università e le nostre imprese: più laureati, migliori e meglio trattati. La chiave vera per lo sviluppo.

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