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Ulisse politecnico per la sintesi di nuove culture

Il vero sapere, spiega Giulio Giorello, filosofo della scienza tra i più autorevoli in Europa, somiglia a Ulisse: “Un poeta che ha il coraggio di navigare sotto costellazioni diverse da quelle dei pregiudizi conosciuti”. Ed ecco dunque l’obiettivo: “Stipulare una sorta di nuovo patto, una inedita alleanza tra chi sviluppa la conoscenza fin quasi al confine delle capacità del nostro pensiero e chi nutre una testarda volontà di comprendere i segreti della filosofia e dell’arte” (Corriere della Sera, 11 luglio). Un patto, insomma, tra lo scienziato le l’artista. Un esempio di “cultura politecnica”. Nella italianissima accezione del miglior Umanesimo, che viveva di sintesi tra saperi diversi, secondo la lezione di Piero della Francesca (straordinario matematico, oltre che grande pittore), Leon Battista Alberti, Leonardo e così via continuando, sino al corso controverso del Novecento, quando le conoscenze umanistiche e quelle scientifiche si separano e si afferma la intollerabile vulgata delle “due culture”. Adesso, invece, quei saperi vanno ricomposti. Per dare risposte alla complessità della Grande Crisi, che ha messo in discussione i tradizionali paradigmi della produzione, dello scambio, del consumo, e impone di trovare una migliore sostenibilità ambientale e sociale dello sviluppo economico.

E’ questa, infatti, la nuova sfida della cultura d’impresa. Avere una strategia di scoperta di nuovi punti di vista, di originali modi di costruire ricchezza e lavoro. Acquisire dimestichezza con i processi tipici della ricerca scientifica (fare ipotesi, trovare conferme, sottoporle alla “prova dell’errore” secondo i metodi della “falsificazione” cari al pensiero di Karl Popper, andare avanti verso nuove sintesi e così via all’infinito). E impegnarsi nei processi di produzione di beni e servizi con l’occhio vigile al cambiamento, alla trasformazione, ai nuovi equilibri. Cultura d’impresa come cultura della metamorfosi.

Servono, lungo questa strada, ingegneri, chimici, fisici, biologi, matematici, ben più numerosi di quelli che l’università italiana sforna ogni anno (le imprese italiane avrebbero bisogno di altri 40mila laureati “tecnici”). Ma anche filosofi capaci di decrittare la complessità. E umanisti in grado di lavorare con i segni dell’arte contemporanea, che individuano il mutare delle relazioni, dei bisogni, dei sogni, dei loro simboli. Servono, in altri termini, ingegneri filosofi, proprio come la migliore cultura italiana è stata tradizionalmente in grado di offrire alle proprie imprese, ai laboratori di ricerca, ai mercati, al mondo. E’ questo il senso, d’altronde, della scelta fatta da tempo dai Politecnici di Milano e Torino, scuole d’eccellenza per formare classe dirigente, di avviare dei sofisticati corsi di filosofia e di collaborare, per esempio, con imprese e fondazioni scientifiche e con una grande istituzione culturale come il Piccolo Teatro di Milano, per una serie di iniziative battezzate “Teatro Scienza”. Indagine sulla conoscenza. E rappresentazione.

Ci sono d’altronde proprio parole che rivelano le sorprendenti sinergie: “laboratorio”, si dice, per parlare di teatro, di università, di centri di ricerca nelle strutture di formazione e in quelle di produzione. Il laboratorio del Piccolo. Il laboratorio del Politecnico. Il laboratorio della Pirelli. Pensare, progettare, fare, raccontare.

In questo senso va intesa l’innovazione. Che non significa nuove tecnologia. Ma innanzitutto nuovo pensiero, nuovo punto di vista, nuove relazioni di senso e rappresentazione. Un pensiero che elabora anche tecnologie e se ne serve. Intelligenza. E strumento. Mestiere da ingegneri filosofi, appunto. E da conseguenti costruttori. Un “Ulisse politecnico”.

Il vero sapere, spiega Giulio Giorello, filosofo della scienza tra i più autorevoli in Europa, somiglia a Ulisse: “Un poeta che ha il coraggio di navigare sotto costellazioni diverse da quelle dei pregiudizi conosciuti”. Ed ecco dunque l’obiettivo: “Stipulare una sorta di nuovo patto, una inedita alleanza tra chi sviluppa la conoscenza fin quasi al confine delle capacità del nostro pensiero e chi nutre una testarda volontà di comprendere i segreti della filosofia e dell’arte” (Corriere della Sera, 11 luglio). Un patto, insomma, tra lo scienziato le l’artista. Un esempio di “cultura politecnica”. Nella italianissima accezione del miglior Umanesimo, che viveva di sintesi tra saperi diversi, secondo la lezione di Piero della Francesca (straordinario matematico, oltre che grande pittore), Leon Battista Alberti, Leonardo e così via continuando, sino al corso controverso del Novecento, quando le conoscenze umanistiche e quelle scientifiche si separano e si afferma la intollerabile vulgata delle “due culture”. Adesso, invece, quei saperi vanno ricomposti. Per dare risposte alla complessità della Grande Crisi, che ha messo in discussione i tradizionali paradigmi della produzione, dello scambio, del consumo, e impone di trovare una migliore sostenibilità ambientale e sociale dello sviluppo economico.

E’ questa, infatti, la nuova sfida della cultura d’impresa. Avere una strategia di scoperta di nuovi punti di vista, di originali modi di costruire ricchezza e lavoro. Acquisire dimestichezza con i processi tipici della ricerca scientifica (fare ipotesi, trovare conferme, sottoporle alla “prova dell’errore” secondo i metodi della “falsificazione” cari al pensiero di Karl Popper, andare avanti verso nuove sintesi e così via all’infinito). E impegnarsi nei processi di produzione di beni e servizi con l’occhio vigile al cambiamento, alla trasformazione, ai nuovi equilibri. Cultura d’impresa come cultura della metamorfosi.

Servono, lungo questa strada, ingegneri, chimici, fisici, biologi, matematici, ben più numerosi di quelli che l’università italiana sforna ogni anno (le imprese italiane avrebbero bisogno di altri 40mila laureati “tecnici”). Ma anche filosofi capaci di decrittare la complessità. E umanisti in grado di lavorare con i segni dell’arte contemporanea, che individuano il mutare delle relazioni, dei bisogni, dei sogni, dei loro simboli. Servono, in altri termini, ingegneri filosofi, proprio come la migliore cultura italiana è stata tradizionalmente in grado di offrire alle proprie imprese, ai laboratori di ricerca, ai mercati, al mondo. E’ questo il senso, d’altronde, della scelta fatta da tempo dai Politecnici di Milano e Torino, scuole d’eccellenza per formare classe dirigente, di avviare dei sofisticati corsi di filosofia e di collaborare, per esempio, con imprese e fondazioni scientifiche e con una grande istituzione culturale come il Piccolo Teatro di Milano, per una serie di iniziative battezzate “Teatro Scienza”. Indagine sulla conoscenza. E rappresentazione.

Ci sono d’altronde proprio parole che rivelano le sorprendenti sinergie: “laboratorio”, si dice, per parlare di teatro, di università, di centri di ricerca nelle strutture di formazione e in quelle di produzione. Il laboratorio del Piccolo. Il laboratorio del Politecnico. Il laboratorio della Pirelli. Pensare, progettare, fare, raccontare.

In questo senso va intesa l’innovazione. Che non significa nuove tecnologia. Ma innanzitutto nuovo pensiero, nuovo punto di vista, nuove relazioni di senso e rappresentazione. Un pensiero che elabora anche tecnologie e se ne serve. Intelligenza. E strumento. Mestiere da ingegneri filosofi, appunto. E da conseguenti costruttori. Un “Ulisse politecnico”.

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