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Sostenibilità sociale e ambientale ed economia civile: una buona scelta per fare crescere imprese e Paese

L’industria è conoscenza. Competenze con solide radici nella tradizione del “bello e ben fatto” e intelligente apertura all’innovazione. E cultura politecnica che fa sintesi tra scienza, tecnologia e saperi umanistici. La sua competitività, soprattutto in Italia, fa leva sulle capacità di cogliere tempestivamente il cambiamento e di adattarvi produzioni e prodotti, avendo “la qualità” come valore distintivo. E, negli sconvolgimenti della globalizzazione più impetuosa e della crescita delle diseguaglianze sociali e dei gravi rischi ambientali, è proprio l’industria, la manifattura innovativa, a poter essere attore protagonista di sostenibilità e inclusione sociale. Ha ragione Paolo Bricco quando scrive che “la sostenibilità è la nuova chiave a stella” (Il Sole24Ore, 16 febbraio). Era, la “chiave a stella”, lo strumento essenziale della meccanica, dell’industria, dell’operosità competente, caro a un grande scrittore come Primo Levi (che proprio così intitolò uno dei suoi libri di maggior successo, tutto costruito attorno al tecnico Tino Faussone, operaio specializzato nel montaggio di tralicci, ponti e gru). Oggi, dunque, sostenibilità come cardine dell’impresa, fattore di sviluppo, attrezzatura per costruire equilibri sociali ed economici migliori.

“Le sostenibili carte dell’Italia” è stato, appunto, il titolo del convegno con cui il Centro Studi Confindustria ha aperto, giovedì 15, le due giornate delle Assise Generali dell’organizzazione degli imprenditori a Verona, delineando le iniziative in corso in moltissime imprese e gli impegni strategici da sostenere per “lo sviluppo inclusivo che riduca le diseguaglianze” e tuteli l’ambiente, considerato appunto come fattore essenziale di migliore qualità della vita e del lavoro e dunque come cardine di buona crescita.

C’è un “Manifesto sulla responsabilità sociale d’impresa per l’Industria 4.0” in dieci punti (innovazione, ricerca, formazione, integrità e contrasto alla corruzione, inclusione sociale e di genere, nuove scelte di governance aziendale, iniziative per fare crescere la consapevolezza dei maggiori problemi ambientali e sociali che hanno impatto su imprese e territori). E se ne discuterà a lungo, coinvolgendo tutti gli stakeholders e i decisori politici. “Lavorare su un differente modello di sviluppo”, dice in sintesi Rossana Revello, presidente del Gruppo Tecnico confindustriale sulla sostenibilità. La “morale del tornio”, l’idea d’una economia meglio equilibrata, civile, inclusiva, attenta alle persone e ai loro valori, fondata sul senso di responsabilità delle imprese, è una strategia su cui vale la pena insistere.

Su questa prospettiva ha molto insistito il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, nelle conclusioni delle Assise, davanti a un vero e proprio “popolo degli imprenditori”, come hanno scritto i commentatori più acuti, per dare conto di una platea che non è né “salotto buono” né circolo dei “poteri forti” ma parte essenziale di un’Italia che vuole puntare con forza su crescita e responsabilità.

La strategia è quella di un “Piano per l’Italia”, 250 miliardi, in cinque anni ,di investimenti in infrastrutture e innovazione, finanziati anche con gli eurobond e in grado di creare 1,8 milioni di nuovi occupati, portando il Paese verso il 2% di aumento del Pil. E in questo piano la sostenibilità è un capitolo fondamentale. Anche per stimolare investimenti, interni e internazionali.

Gli investimenti finanziari in settori e in imprese sostenibili – documenta il Centro Studi Confindustria – valgono 23mila miliardi (dato 2015), un quarto del monte investimenti totali, e sono in crescita: il 25% in più, rispetto ai due anni precedenti. Il 52,6% di questi investimenti finisce in Europa, manifattura d’alto livello, rapporto stretto tra industrie e territori, mano d’opera di qualità, diffusa sensibilità ai temi sociali e dell’ambiente, interesse a costruire paradigmi di sviluppo in questa direzione. “La società e il mercato”, secondo un grande storico, Fernand Braudel, sono sempre stati i soggetti d’una netta dicotomia nella nostra storia. Adesso, appunto la sostenibilità può sanarla.

Sostenibilità come “chiave a stella” di sviluppo anche per gli interessi diretti delle imprese. Le B-Corp, le Benefit Corporation (le imprese che fanno propri i valori della sostenibilità e lo certificano), sono 2.400 in tutto il mondo e il loro numero è in aumento. 54 sono le italiane. Beneficiano di maggior attenzione da parte degli investitori, ma anche dei consumatori (lo documenta il Diversity Brand Index, realizzato dall’associazione Diversity e dalla società di consulenza Focus Management; Corriere della Sera, 9 febbraio). Crescono di più e meglio. Fanno utili anche nel lungo periodo. “Operare con integrità si traduce in migliori performance finanziarie”, sostiene l’Ethisphere Institute, che ogni anni pubblica il World’s Most Ethical Company Report e dichiara che le compagnie incluse nella classifica (l’italiana Illy, per esempio) hanno registrato negli ultimi cinque anni performance superiori del 10,7% rispetto all’indice delle società americane ad alta capitalizzazione.

Le scelte etiche e di sostenibilità fanno bene ai bilanci. Le imprese italiane, da sempre innervate nel territorio e con una robusta sensibilità alle relazioni sociali, ne sono testimoni esemplare. Non solo le grandi, quotate in Borsa e internazionalizzate. Ma anche le piccole e medie, in cui si diffondono strumenti di welfare aziendale e di territorio molto innovativi, si sta attenti alle dimensioni della “fabbrica bella” accogliente, luminosa, sicura, di basso impatto ambientale, si lavora secondo culture di “comunità” e di “inclusione” che affondano le radici della migliore cultura d’impresa elaborata nel lungo corso del Novecento, da Ivrea olivettiana alle Marche, da Milano metropoli accogliente alle aree lombarde, emiliane e venete in cui innovazione e socialità convivono, pur tra conflitti e limiti.

Sostenibilità come scelta di lungo periodo, dunque. Consapevole e aperta. La certificazione dei propri comportamenti da parte di analisti e certificatori indipendenti è essenziale. Anche da questo punto di vista le imprese italiane sono avanguardia. Lo documenta il Sustainability Yearbook 2018  di RobecoSAM, la società che stila ogni anni il Dow Jones Sustainability Index, analizzando le performances economico-finanziaria, ambientale e sociale che determinano la sostenibilità aziendale. 2.479 le società esaminate, in sessanta settori industriali. Quest’anno, tra le 70 migliori,  tre società italiane si sono aggiudicate il riconoscimento Gold Class: la Pirelli (al vertice mondiale tra le imprese del settore “auto componente”), la Saipem e la Cnh. La sostenibilità ha un grande valore. E fa crescere. E’, insomma, una impegnativa scelta civile. E anche un buon affare.

L’industria è conoscenza. Competenze con solide radici nella tradizione del “bello e ben fatto” e intelligente apertura all’innovazione. E cultura politecnica che fa sintesi tra scienza, tecnologia e saperi umanistici. La sua competitività, soprattutto in Italia, fa leva sulle capacità di cogliere tempestivamente il cambiamento e di adattarvi produzioni e prodotti, avendo “la qualità” come valore distintivo. E, negli sconvolgimenti della globalizzazione più impetuosa e della crescita delle diseguaglianze sociali e dei gravi rischi ambientali, è proprio l’industria, la manifattura innovativa, a poter essere attore protagonista di sostenibilità e inclusione sociale. Ha ragione Paolo Bricco quando scrive che “la sostenibilità è la nuova chiave a stella” (Il Sole24Ore, 16 febbraio). Era, la “chiave a stella”, lo strumento essenziale della meccanica, dell’industria, dell’operosità competente, caro a un grande scrittore come Primo Levi (che proprio così intitolò uno dei suoi libri di maggior successo, tutto costruito attorno al tecnico Tino Faussone, operaio specializzato nel montaggio di tralicci, ponti e gru). Oggi, dunque, sostenibilità come cardine dell’impresa, fattore di sviluppo, attrezzatura per costruire equilibri sociali ed economici migliori.

“Le sostenibili carte dell’Italia” è stato, appunto, il titolo del convegno con cui il Centro Studi Confindustria ha aperto, giovedì 15, le due giornate delle Assise Generali dell’organizzazione degli imprenditori a Verona, delineando le iniziative in corso in moltissime imprese e gli impegni strategici da sostenere per “lo sviluppo inclusivo che riduca le diseguaglianze” e tuteli l’ambiente, considerato appunto come fattore essenziale di migliore qualità della vita e del lavoro e dunque come cardine di buona crescita.

C’è un “Manifesto sulla responsabilità sociale d’impresa per l’Industria 4.0” in dieci punti (innovazione, ricerca, formazione, integrità e contrasto alla corruzione, inclusione sociale e di genere, nuove scelte di governance aziendale, iniziative per fare crescere la consapevolezza dei maggiori problemi ambientali e sociali che hanno impatto su imprese e territori). E se ne discuterà a lungo, coinvolgendo tutti gli stakeholders e i decisori politici. “Lavorare su un differente modello di sviluppo”, dice in sintesi Rossana Revello, presidente del Gruppo Tecnico confindustriale sulla sostenibilità. La “morale del tornio”, l’idea d’una economia meglio equilibrata, civile, inclusiva, attenta alle persone e ai loro valori, fondata sul senso di responsabilità delle imprese, è una strategia su cui vale la pena insistere.

Su questa prospettiva ha molto insistito il presidente di Confindustria Vincenzo Boccia, nelle conclusioni delle Assise, davanti a un vero e proprio “popolo degli imprenditori”, come hanno scritto i commentatori più acuti, per dare conto di una platea che non è né “salotto buono” né circolo dei “poteri forti” ma parte essenziale di un’Italia che vuole puntare con forza su crescita e responsabilità.

La strategia è quella di un “Piano per l’Italia”, 250 miliardi, in cinque anni ,di investimenti in infrastrutture e innovazione, finanziati anche con gli eurobond e in grado di creare 1,8 milioni di nuovi occupati, portando il Paese verso il 2% di aumento del Pil. E in questo piano la sostenibilità è un capitolo fondamentale. Anche per stimolare investimenti, interni e internazionali.

Gli investimenti finanziari in settori e in imprese sostenibili – documenta il Centro Studi Confindustria – valgono 23mila miliardi (dato 2015), un quarto del monte investimenti totali, e sono in crescita: il 25% in più, rispetto ai due anni precedenti. Il 52,6% di questi investimenti finisce in Europa, manifattura d’alto livello, rapporto stretto tra industrie e territori, mano d’opera di qualità, diffusa sensibilità ai temi sociali e dell’ambiente, interesse a costruire paradigmi di sviluppo in questa direzione. “La società e il mercato”, secondo un grande storico, Fernand Braudel, sono sempre stati i soggetti d’una netta dicotomia nella nostra storia. Adesso, appunto la sostenibilità può sanarla.

Sostenibilità come “chiave a stella” di sviluppo anche per gli interessi diretti delle imprese. Le B-Corp, le Benefit Corporation (le imprese che fanno propri i valori della sostenibilità e lo certificano), sono 2.400 in tutto il mondo e il loro numero è in aumento. 54 sono le italiane. Beneficiano di maggior attenzione da parte degli investitori, ma anche dei consumatori (lo documenta il Diversity Brand Index, realizzato dall’associazione Diversity e dalla società di consulenza Focus Management; Corriere della Sera, 9 febbraio). Crescono di più e meglio. Fanno utili anche nel lungo periodo. “Operare con integrità si traduce in migliori performance finanziarie”, sostiene l’Ethisphere Institute, che ogni anni pubblica il World’s Most Ethical Company Report e dichiara che le compagnie incluse nella classifica (l’italiana Illy, per esempio) hanno registrato negli ultimi cinque anni performance superiori del 10,7% rispetto all’indice delle società americane ad alta capitalizzazione.

Le scelte etiche e di sostenibilità fanno bene ai bilanci. Le imprese italiane, da sempre innervate nel territorio e con una robusta sensibilità alle relazioni sociali, ne sono testimoni esemplare. Non solo le grandi, quotate in Borsa e internazionalizzate. Ma anche le piccole e medie, in cui si diffondono strumenti di welfare aziendale e di territorio molto innovativi, si sta attenti alle dimensioni della “fabbrica bella” accogliente, luminosa, sicura, di basso impatto ambientale, si lavora secondo culture di “comunità” e di “inclusione” che affondano le radici della migliore cultura d’impresa elaborata nel lungo corso del Novecento, da Ivrea olivettiana alle Marche, da Milano metropoli accogliente alle aree lombarde, emiliane e venete in cui innovazione e socialità convivono, pur tra conflitti e limiti.

Sostenibilità come scelta di lungo periodo, dunque. Consapevole e aperta. La certificazione dei propri comportamenti da parte di analisti e certificatori indipendenti è essenziale. Anche da questo punto di vista le imprese italiane sono avanguardia. Lo documenta il Sustainability Yearbook 2018  di RobecoSAM, la società che stila ogni anni il Dow Jones Sustainability Index, analizzando le performances economico-finanziaria, ambientale e sociale che determinano la sostenibilità aziendale. 2.479 le società esaminate, in sessanta settori industriali. Quest’anno, tra le 70 migliori,  tre società italiane si sono aggiudicate il riconoscimento Gold Class: la Pirelli (al vertice mondiale tra le imprese del settore “auto componente”), la Saipem e la Cnh. La sostenibilità ha un grande valore. E fa crescere. E’, insomma, una impegnativa scelta civile. E anche un buon affare.

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