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E’ la forza del “cum”: vincono le imprese che sanno collaborare

Una parola piccola piccola, tre lettere appena. Un avverbio. Latino. Finito dentro tante altre parole europee e pur sempre d’attualità. Con sapore di futuro. La parola “cum”. Che indica percorsi comuni, connota strategie condivise, segna collaborazioni. E dà carattere persino a vocaboli che nel senso comune hanno finito per significare il contrario. Come “competizione”. Vissuta come gara, conflitto, contrapposizione. Ma che all’origine rivela un cammino da fare insieme, verso un obiettivo comune. “Cum petere”, appunto. Per tornare all’origine, in un linguaggio che dia conto delle esigenze di un’economia “più giusta e sostenibile” (ricercata in parecchi ambienti, sia laici che cattolici, dopo gli stravolgimenti della Grande Crisi da avidità finanziaria e squilibri sociali) si parla di “competizione collaborativa”. Che, per esempio, fa da titolo di un bel libro di Fabrizio Pezzani, pubblicato da Università Bocconi Editore e caratterizzato da un sottotitolo progettuale: “Ricostruire il capitale sociale ed economico”.

Proprio l’industria italiana può offrirne ottimi esempi. L’analisi economica e l’osservazione empirica dei migliori territori produttivi indicano da tempo come vincente la strategia delle reti d’impresa, delle filiere produttive lunghe, delle supply chain di qualità, che sono una interessante evoluzione dell’”economia dei distretti” che nel lungo corso degli anni 80 e 90 ha consentito alle imprese, anche piccole e medie, di ristrutturarsi, rafforzarsi, reggere l’urto delle nuove ragioni competitive interazionali e trovare altri spazi su mercati sempre più selettivi e severi, europei ed extra-europei. Strategia appunto vincente, come conferma anche l’analisi della rivista “McKinsey Quarterly” (numero 1 del 2014) sul “next shoring” del manifacturing (ne abbiamo a lungo parlato nel blog della scorsa settimana). L’impresa industriale cresce stando a stretto contatto con mercati in evoluzione e fornitori di qualità.

Che la strada sia giusta lo conferma una recente indagine Istat presentata nei giorni scorsi dal Mip Politecnico a Milano. “Chi vince e chi perde: l’industria italiana oltre la crisi”. L’indicazione di fondo è chiara: ce la fanno quelle che puntano su “formazione e sinergie”. Buon capitale umano, cioè. E capitale sociale positivo. La collaborazione, insomma. Se l’industria italiana ha perso un quarto della sua capacità produttiva dal 2008 a oggi, dall’indagine emerge che le imprese che hanno puntato sui mercati esteri hanno avuto, anche in tempi di crisi, un aumento del fatturato (e sono state costantemente stimolate a innovare, su prodotto, processi produttivi, servizi ad alto valore aggiunto legati alla produzione, marketing, etc.). Gianluca Spina, presidente del Mip, ne trae una interessante conclusione: “Vincono quelle imprese che hanno investito, proprio nella stagione di crisi e recessione, nella formazione e nel capitale umano, ma anche nella creazione di connessioni tra le aziende, attraverso joint ventures, alleanze strutturali, reti d’impresa”. E’ necessario, insomma, creare sinergie di prodotti e servizi, integrare competenze diverse. E anche per andare su nuovi mercati, muoversi “cum petendo” è la carta vincente. In ripiegamento, invece, molte imprese “monadi”, chiuse cioè, estranee allo spirito collaborativo. Il peggio di un capitalismo che involve verso il particolarismo familista, vive in modo ossessivo il dogma del controllo proprietario, non riesce a fare fronte alle nuove sfide del confronto, della sintesi tra famiglia imprenditoriale d’origine e competenze manageriali, non sa innovare e dunque si arrocca prevalentemente su mercati interni sempre più asfittici, poveri, in declino.

C’è un’altra indagine che porta a risultati analoghi. E’ stata fatta dallo Studio Giaccardi & Associati e presentata nei giorni scorsi al Web Economy Festival di Cesena. Ecco la sintesi: “Innovazione antidoto alla crisi: le imprese attive on line crescono fino a cinque volte più delle tradizionali”, titola “Il Sole 24Ore” (18 marzo). L’hi tech del web 2.0. E le radici nel territorio di una Romagna peraltro ricca di tradizione collaborativa e cooperativa. Le Pmi on line, con siti aperti e interattivi, vedono crescere il fatturato, la produttività e l’internazionalizzazione. E anche per le start up, il confronto e la collaborazione via web si rivelano armi vincenti. Cultura d’impresa positiva. Di  buona competitività.

Una parola piccola piccola, tre lettere appena. Un avverbio. Latino. Finito dentro tante altre parole europee e pur sempre d’attualità. Con sapore di futuro. La parola “cum”. Che indica percorsi comuni, connota strategie condivise, segna collaborazioni. E dà carattere persino a vocaboli che nel senso comune hanno finito per significare il contrario. Come “competizione”. Vissuta come gara, conflitto, contrapposizione. Ma che all’origine rivela un cammino da fare insieme, verso un obiettivo comune. “Cum petere”, appunto. Per tornare all’origine, in un linguaggio che dia conto delle esigenze di un’economia “più giusta e sostenibile” (ricercata in parecchi ambienti, sia laici che cattolici, dopo gli stravolgimenti della Grande Crisi da avidità finanziaria e squilibri sociali) si parla di “competizione collaborativa”. Che, per esempio, fa da titolo di un bel libro di Fabrizio Pezzani, pubblicato da Università Bocconi Editore e caratterizzato da un sottotitolo progettuale: “Ricostruire il capitale sociale ed economico”.

Proprio l’industria italiana può offrirne ottimi esempi. L’analisi economica e l’osservazione empirica dei migliori territori produttivi indicano da tempo come vincente la strategia delle reti d’impresa, delle filiere produttive lunghe, delle supply chain di qualità, che sono una interessante evoluzione dell’”economia dei distretti” che nel lungo corso degli anni 80 e 90 ha consentito alle imprese, anche piccole e medie, di ristrutturarsi, rafforzarsi, reggere l’urto delle nuove ragioni competitive interazionali e trovare altri spazi su mercati sempre più selettivi e severi, europei ed extra-europei. Strategia appunto vincente, come conferma anche l’analisi della rivista “McKinsey Quarterly” (numero 1 del 2014) sul “next shoring” del manifacturing (ne abbiamo a lungo parlato nel blog della scorsa settimana). L’impresa industriale cresce stando a stretto contatto con mercati in evoluzione e fornitori di qualità.

Che la strada sia giusta lo conferma una recente indagine Istat presentata nei giorni scorsi dal Mip Politecnico a Milano. “Chi vince e chi perde: l’industria italiana oltre la crisi”. L’indicazione di fondo è chiara: ce la fanno quelle che puntano su “formazione e sinergie”. Buon capitale umano, cioè. E capitale sociale positivo. La collaborazione, insomma. Se l’industria italiana ha perso un quarto della sua capacità produttiva dal 2008 a oggi, dall’indagine emerge che le imprese che hanno puntato sui mercati esteri hanno avuto, anche in tempi di crisi, un aumento del fatturato (e sono state costantemente stimolate a innovare, su prodotto, processi produttivi, servizi ad alto valore aggiunto legati alla produzione, marketing, etc.). Gianluca Spina, presidente del Mip, ne trae una interessante conclusione: “Vincono quelle imprese che hanno investito, proprio nella stagione di crisi e recessione, nella formazione e nel capitale umano, ma anche nella creazione di connessioni tra le aziende, attraverso joint ventures, alleanze strutturali, reti d’impresa”. E’ necessario, insomma, creare sinergie di prodotti e servizi, integrare competenze diverse. E anche per andare su nuovi mercati, muoversi “cum petendo” è la carta vincente. In ripiegamento, invece, molte imprese “monadi”, chiuse cioè, estranee allo spirito collaborativo. Il peggio di un capitalismo che involve verso il particolarismo familista, vive in modo ossessivo il dogma del controllo proprietario, non riesce a fare fronte alle nuove sfide del confronto, della sintesi tra famiglia imprenditoriale d’origine e competenze manageriali, non sa innovare e dunque si arrocca prevalentemente su mercati interni sempre più asfittici, poveri, in declino.

C’è un’altra indagine che porta a risultati analoghi. E’ stata fatta dallo Studio Giaccardi & Associati e presentata nei giorni scorsi al Web Economy Festival di Cesena. Ecco la sintesi: “Innovazione antidoto alla crisi: le imprese attive on line crescono fino a cinque volte più delle tradizionali”, titola “Il Sole 24Ore” (18 marzo). L’hi tech del web 2.0. E le radici nel territorio di una Romagna peraltro ricca di tradizione collaborativa e cooperativa. Le Pmi on line, con siti aperti e interattivi, vedono crescere il fatturato, la produttività e l’internazionalizzazione. E anche per le start up, il confronto e la collaborazione via web si rivelano armi vincenti. Cultura d’impresa positiva. Di  buona competitività.

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