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Nella stagione della crisi raccontare storie per una più giusta “tessitura del mondo”

Si vive di parole. E le parole hanno un’anima. E le ali. Annunciano. Rimemorano. Definiscono il mondo. Creano. Non sono della stessa sostanza dei sogni. Ma pesano così tanto, sulla storia e sul destino degli uomini, da far muovere e forse cambiare le cose che vengono dette. Cambiano, sicuramente, chi le scrive. Siamo fatti delle nostre parole, appunto. Bisogna, proprio nel buio dei momenti di crisi peggiore e nello smarrimento delle emozioni e dei sentimenti, come succede ancora una volta in questi tempi inquieti e dolenti, provare a rileggerle, per capire da dove si viene e, consapevoli, riprovare a viaggiare verso il termine della notte. E a raccontare questo viaggio. Già, ecco le ali…

Il viaggio lega luoghi e persone, intesse relazioni. Il racconto le fa vivere e le affida alla memoria e dunque al futuro. C’è una comune radice semantica tra tessitura, “tessuto” e “testo”. Ed è Papa Francesco a cogliere bene il segno di questo insieme di valori quando parla di “tessitura del mondo” nel suo messaggio per la Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali, nel gennaio del 2020, scrivendo che “il mondo stesso è un tessuto e le storie che gli uomini raccontano sono i fili di questo tessuto, messo sempre a dura prova”.

Quel messaggio, nel corso del tempo, ha suscitato reazioni, commenti, interventi di approfondimento da parte di donne e uomini di cultura. “L’Osservatore Romano” li ha raccolti, pubblicati e adesso riuniti in un denso e prezioso volume, curato da Andrea Monda, direttore del quotidiano della Santa Sede, edito dalla Libreria Editrice Vaticana e da Salani e intitolato, appunto, “La tessitura del mondo”, un “Dialogo a più voci con i grandi protagonisti della cultura sul racconto come via di salvezza”. Ne scrivono, tra gli altri, Roberto Andò, Eraldo Affinati, Piero Boitani, Mario Botta, Giancarlo De Cataldo, Francesco De Gregori, Nicola Lagioia, David Mamet, Colum McCann, Daniel Mendelsohn, Edna O’Brien, Renzo Piano, Annie Proux, Marilynne Robinson, Donna Tartt, Mariapia Veladiano, Sandro e Alessandro Zaccuri, donne e uomini segnati da culture ed esperienze intellettuali e religiose diverse ma tutti in sintonia sulla necessità di insistere sul confronto, sul dialogo, su una dialettica delle idee e delle emozioni in grado di “ritessere” una trama più solida delle relazioni umane. Tessuto e testo, appunto. Racconto.

Viviamo una stagione carica di rischi e incertezze, di degrado delle parole nel vocìo che affolla confusamente i social media, di prevalenza dell’oltranzismo demagogico in un discorso pubblico sempre più impoverito e segnato dall’ossessione del “politicamente corretto” e della cancel culture, di dominio crescente delle fake news e dell’opinionismo fazioso e insultante in una vera e propria “Babele infinita del web” (Maurizio Ferraris, “La Stampa”, 23 maggio).

Viene in mente, opportunamente, il monito di Thomas Stearns Eliot: “Dov’è la saggezza che abbiamo perso nella conoscenza? Dov’è la conoscenza che abbiamo perso nell’informazione?”. Oggi, potremmo aggiungere: dov’è mai l’informazione, nel rumore di fondo provocato da un flusso ininterrotto di news senza gerarchia d’importanza né contesti di inquadramento né guide di lettura e interpretazione? Marmellata mediatica, dicono i critici. Senza alcuna dolcezza né alcuna sapidità di comprensione.

Il mondo, nella sua fascinosa e inquietante complessità, è schiacciato tra un like e un apodittico gioco di insulti o applausi, tra un tweet e un’approssimativa story su Instagram. Tramontano giudizi critici e ragioni di comprensione e intervento. Ne risentono drammaticamente la convivenza civile e la qualità del capitale sociale di una comunità, la fiducia su cui si fondano i processi di formazione e gli scambi di mercato e, in fin dei conti, la sostanza stessa della democrazia liberale.

Serve recuperare “il rigore etico della parola contro i girotondi delle chiacchiere” (come suggerisce Massimo Recalcati citando il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, “la Repubblica”, 31 gennaio). Pensare la letteratura ricca di racconti diversi come “un ponte” che mette in contatti mondi e sensibilità, valori e interessi differenti. Valorizzare la capacità di essere “scrittori di cose” ben diversi dagli “scrittori di parole” (come amava dire Luigi Pirandello, in polemica con le inclinazioni retoriche di Gabriele D’Annunzio). E insistere sulla qualità della scrittura, dell’uso denso e pertinente delle parole stesse (fin dai primi passi della scuola dell’obbligo).

Bisogna tornare, anche lungo questa strada, a quella “tessitura del mondo” suggerita da Papa Francesco per ridare spazio ai valori spirituali e a una ricostruzione economica e sociale più “giusta” e “sostenibile”.

Scrive il Papa, nel messaggio sulle Comunicazioni sociali da cui siamo partiti: “L’uomo non è solo l’unico essere che ha bisogno di abiti per coprire la propria vulnerabilità, ma è anche l’unico che ha bisogno di raccontarsi, di ‘rivestirsi’ di storie per custodire la propria vita”. L’uomo, insomma, “è un essere narrante perché è un essere in divenire, che si scopre e si arricchisce nelle trame dei suoi giorni. Ma, fin dall’inizio, il nostro racconto è minacciato: nella storia serpeggia il male”.

La Sacra Scrittura, ricorda il Papa, è una “storia di storie”, con un Dio “che è creatore e nello stesso tempo narratore”, ma anche figura centrale di un “racconto” attraverso cui Lo conosciamo. Per raccontare bisogna “ri-cordare” e cioè “portare nel cuore”. E la letteratura ne è funzione fondamentale, come dimostrano le opere citate dal Papa, come “Le Confessioni” di sant’Agostino ma anche “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni e “I fratelli Karamazov” di Fëdor Dostoevskij. Un lavoro intenso, per entrare dentro le pieghe dell’animo umano, in tutti i suoi aspetti, anche i più controversi. Cercando, nel racconto, una “redenzione”.

Infatti, “non si tratta di inseguire le logiche dello storytelling né di fare o farsi pubblicità, ma di fare memoria di ciò che siamo agli occhi di Dio, di testimoniare ciò che lo Spirito scrive nei cuori, di rivelare a ciascuno che la sua storia contiene meraviglie stupende”.

Le parole di Papa Francesco hanno suscitato un lungo dibattito, sulle pagine dell’Osservatore Romano. E dato una indicazione preziosa: costruire una narrazione umana profonda e popolare, andare contro quella che Andò chiama “la dittatura dell’ovvio”, assumersi “la responsabilità morale del comunicare facendo il controcanto delle reti sociali” (Alessandro Zaccuri), fare sì “che il male non accada senza testimoni” e che “la letteratura si faccia illuminazione e abbracci il mondo interno” (Edna O’Brien), “accostarsi al mistero attraverso il mito” (David Mamet), “avere compassione e comprensione dei personaggi” (Annie Proux), cercare “una nuova e più consapevole connessione con se stessi, per sconfiggere la nevrosi dell’uomo contemporaneo” (Daniele Mencarelli) e “costruire, aggiungendo poesia” (Renzo Piano). Vivere, insomma, vite “intessute e ricamate di parole” (Marcelo Figueroa) e sapere bene che “una storia è buona quando è vera” (Daniel Mendelsohn).

La sintesi sta in un giudizio di Donna Tartt: “Le storie che raccontiamo e ri-raccontiamo e che tramandiamo gli uni agli altri sono tende sotto le quali riunirsi, vessilli da seguire in battaglia, funi indistruttibili per collegare i vivi e i morti, e l’intreccio di queste vaste trame attraverso i secoli e le culture ci lega fortemente gli uni agli altri e alla storia, guidandoci attraverso le generazioni”. Ancora una volta, si riconferma il legame tra memoria e futuro, ricostruzione delle radici e scrittura delle nuove mappe secondo cui rintracciare prospettive e valori di un avvenire migliore.

Tante voci diverse meritano una chiosa conclusiva, come ha fatto appunto Papa Francesco nella postfazione: la relazione indissolubile tra “dire” e “ascoltare”, il peso fondamentale del “silenzio” contro il chiasso mediatico quotidiano e, soprattutto la “compassione”, nel suo aspetto interiore ma anche nella “dimensione pubblica, sociale” per cui “il racconto si rivela come una forza della memoria, custode quindi del passato e, proprio per questo, un lievito di trasformazione per il futuro”. L’avvenire della memoria, appunto.

(Photo by Franco Origlia/Getty Images)

Si vive di parole. E le parole hanno un’anima. E le ali. Annunciano. Rimemorano. Definiscono il mondo. Creano. Non sono della stessa sostanza dei sogni. Ma pesano così tanto, sulla storia e sul destino degli uomini, da far muovere e forse cambiare le cose che vengono dette. Cambiano, sicuramente, chi le scrive. Siamo fatti delle nostre parole, appunto. Bisogna, proprio nel buio dei momenti di crisi peggiore e nello smarrimento delle emozioni e dei sentimenti, come succede ancora una volta in questi tempi inquieti e dolenti, provare a rileggerle, per capire da dove si viene e, consapevoli, riprovare a viaggiare verso il termine della notte. E a raccontare questo viaggio. Già, ecco le ali…

Il viaggio lega luoghi e persone, intesse relazioni. Il racconto le fa vivere e le affida alla memoria e dunque al futuro. C’è una comune radice semantica tra tessitura, “tessuto” e “testo”. Ed è Papa Francesco a cogliere bene il segno di questo insieme di valori quando parla di “tessitura del mondo” nel suo messaggio per la Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali, nel gennaio del 2020, scrivendo che “il mondo stesso è un tessuto e le storie che gli uomini raccontano sono i fili di questo tessuto, messo sempre a dura prova”.

Quel messaggio, nel corso del tempo, ha suscitato reazioni, commenti, interventi di approfondimento da parte di donne e uomini di cultura. “L’Osservatore Romano” li ha raccolti, pubblicati e adesso riuniti in un denso e prezioso volume, curato da Andrea Monda, direttore del quotidiano della Santa Sede, edito dalla Libreria Editrice Vaticana e da Salani e intitolato, appunto, “La tessitura del mondo”, un “Dialogo a più voci con i grandi protagonisti della cultura sul racconto come via di salvezza”. Ne scrivono, tra gli altri, Roberto Andò, Eraldo Affinati, Piero Boitani, Mario Botta, Giancarlo De Cataldo, Francesco De Gregori, Nicola Lagioia, David Mamet, Colum McCann, Daniel Mendelsohn, Edna O’Brien, Renzo Piano, Annie Proux, Marilynne Robinson, Donna Tartt, Mariapia Veladiano, Sandro e Alessandro Zaccuri, donne e uomini segnati da culture ed esperienze intellettuali e religiose diverse ma tutti in sintonia sulla necessità di insistere sul confronto, sul dialogo, su una dialettica delle idee e delle emozioni in grado di “ritessere” una trama più solida delle relazioni umane. Tessuto e testo, appunto. Racconto.

Viviamo una stagione carica di rischi e incertezze, di degrado delle parole nel vocìo che affolla confusamente i social media, di prevalenza dell’oltranzismo demagogico in un discorso pubblico sempre più impoverito e segnato dall’ossessione del “politicamente corretto” e della cancel culture, di dominio crescente delle fake news e dell’opinionismo fazioso e insultante in una vera e propria “Babele infinita del web” (Maurizio Ferraris, “La Stampa”, 23 maggio).

Viene in mente, opportunamente, il monito di Thomas Stearns Eliot: “Dov’è la saggezza che abbiamo perso nella conoscenza? Dov’è la conoscenza che abbiamo perso nell’informazione?”. Oggi, potremmo aggiungere: dov’è mai l’informazione, nel rumore di fondo provocato da un flusso ininterrotto di news senza gerarchia d’importanza né contesti di inquadramento né guide di lettura e interpretazione? Marmellata mediatica, dicono i critici. Senza alcuna dolcezza né alcuna sapidità di comprensione.

Il mondo, nella sua fascinosa e inquietante complessità, è schiacciato tra un like e un apodittico gioco di insulti o applausi, tra un tweet e un’approssimativa story su Instagram. Tramontano giudizi critici e ragioni di comprensione e intervento. Ne risentono drammaticamente la convivenza civile e la qualità del capitale sociale di una comunità, la fiducia su cui si fondano i processi di formazione e gli scambi di mercato e, in fin dei conti, la sostanza stessa della democrazia liberale.

Serve recuperare “il rigore etico della parola contro i girotondi delle chiacchiere” (come suggerisce Massimo Recalcati citando il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, “la Repubblica”, 31 gennaio). Pensare la letteratura ricca di racconti diversi come “un ponte” che mette in contatti mondi e sensibilità, valori e interessi differenti. Valorizzare la capacità di essere “scrittori di cose” ben diversi dagli “scrittori di parole” (come amava dire Luigi Pirandello, in polemica con le inclinazioni retoriche di Gabriele D’Annunzio). E insistere sulla qualità della scrittura, dell’uso denso e pertinente delle parole stesse (fin dai primi passi della scuola dell’obbligo).

Bisogna tornare, anche lungo questa strada, a quella “tessitura del mondo” suggerita da Papa Francesco per ridare spazio ai valori spirituali e a una ricostruzione economica e sociale più “giusta” e “sostenibile”.

Scrive il Papa, nel messaggio sulle Comunicazioni sociali da cui siamo partiti: “L’uomo non è solo l’unico essere che ha bisogno di abiti per coprire la propria vulnerabilità, ma è anche l’unico che ha bisogno di raccontarsi, di ‘rivestirsi’ di storie per custodire la propria vita”. L’uomo, insomma, “è un essere narrante perché è un essere in divenire, che si scopre e si arricchisce nelle trame dei suoi giorni. Ma, fin dall’inizio, il nostro racconto è minacciato: nella storia serpeggia il male”.

La Sacra Scrittura, ricorda il Papa, è una “storia di storie”, con un Dio “che è creatore e nello stesso tempo narratore”, ma anche figura centrale di un “racconto” attraverso cui Lo conosciamo. Per raccontare bisogna “ri-cordare” e cioè “portare nel cuore”. E la letteratura ne è funzione fondamentale, come dimostrano le opere citate dal Papa, come “Le Confessioni” di sant’Agostino ma anche “I promessi sposi” di Alessandro Manzoni e “I fratelli Karamazov” di Fëdor Dostoevskij. Un lavoro intenso, per entrare dentro le pieghe dell’animo umano, in tutti i suoi aspetti, anche i più controversi. Cercando, nel racconto, una “redenzione”.

Infatti, “non si tratta di inseguire le logiche dello storytelling né di fare o farsi pubblicità, ma di fare memoria di ciò che siamo agli occhi di Dio, di testimoniare ciò che lo Spirito scrive nei cuori, di rivelare a ciascuno che la sua storia contiene meraviglie stupende”.

Le parole di Papa Francesco hanno suscitato un lungo dibattito, sulle pagine dell’Osservatore Romano. E dato una indicazione preziosa: costruire una narrazione umana profonda e popolare, andare contro quella che Andò chiama “la dittatura dell’ovvio”, assumersi “la responsabilità morale del comunicare facendo il controcanto delle reti sociali” (Alessandro Zaccuri), fare sì “che il male non accada senza testimoni” e che “la letteratura si faccia illuminazione e abbracci il mondo interno” (Edna O’Brien), “accostarsi al mistero attraverso il mito” (David Mamet), “avere compassione e comprensione dei personaggi” (Annie Proux), cercare “una nuova e più consapevole connessione con se stessi, per sconfiggere la nevrosi dell’uomo contemporaneo” (Daniele Mencarelli) e “costruire, aggiungendo poesia” (Renzo Piano). Vivere, insomma, vite “intessute e ricamate di parole” (Marcelo Figueroa) e sapere bene che “una storia è buona quando è vera” (Daniel Mendelsohn).

La sintesi sta in un giudizio di Donna Tartt: “Le storie che raccontiamo e ri-raccontiamo e che tramandiamo gli uni agli altri sono tende sotto le quali riunirsi, vessilli da seguire in battaglia, funi indistruttibili per collegare i vivi e i morti, e l’intreccio di queste vaste trame attraverso i secoli e le culture ci lega fortemente gli uni agli altri e alla storia, guidandoci attraverso le generazioni”. Ancora una volta, si riconferma il legame tra memoria e futuro, ricostruzione delle radici e scrittura delle nuove mappe secondo cui rintracciare prospettive e valori di un avvenire migliore.

Tante voci diverse meritano una chiosa conclusiva, come ha fatto appunto Papa Francesco nella postfazione: la relazione indissolubile tra “dire” e “ascoltare”, il peso fondamentale del “silenzio” contro il chiasso mediatico quotidiano e, soprattutto la “compassione”, nel suo aspetto interiore ma anche nella “dimensione pubblica, sociale” per cui “il racconto si rivela come una forza della memoria, custode quindi del passato e, proprio per questo, un lievito di trasformazione per il futuro”. L’avvenire della memoria, appunto.

(Photo by Franco Origlia/Getty Images)

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