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Da Parigi e Berlino un “Manifesto” per lo sviluppo industriale mentre il governo italiano è sempre più assente ai tavoli europei

Un Manifesto di Francia e Germania per rilanciare la politica industriale dell’Europa e investire insieme sull’innovazione, sull’Intelligenza Artificiale, sullo sviluppo di grandi imprese europee per fronteggiare la concorrenza che arriva, sempre più pesante, dagli Usa e dalla Cina. Parigi e Berlino, insomma, fanno un altro passo insieme, per indicare una via d’uscita dalla crisi che rallenta la Ue. E pongono a tutti gli altri paesi, a cominciare dall’Italia, una sfida di grande peso: o crescere secondo obiettivi comuni o ritrovarsi in seconda fila o peggio ancora ai margini di un’Europa “a due velocità” il cui motore sta lungo l’asse franco-tedesco.

Sono tempi difficili, per l’economia europea, in rallentamento, anche a causa della brusca frenata che colpisce l’industria dell’auto tedesca e, di conseguenza, l’intera filiera automotive europea (l’Italia ne risente massicciamente, essendo fornitrice di primo piano di Bmw, Audi, Volkswagen e Daimler), sotto il peso delle mosse di Trump (“L’automotive europeo è una minaccia per la sicurezza nazionale”) e dei conflitti commerciali Usa-Cina. Le incertezze legate alla Brexit aggravano il quadro. E le tensioni politiche che travagliano parecchi paesi Ue e fanno emergere i rischi legati a populismi, sovranismi e nazionalismi protezionistici dicono che, proprio alla vigilia delle elezioni di maggio per il nuovo Parlamento Europeo è necessario che i paesi e i governi che ancora credono nell’indispensabilità dell’Europa e dunque in una sua riforma e in un suo rafforzamento devono dare chiari e attivi segnali politici per cercare di fermare decrescita, crisi politica e rischi di declino.

“Fuori dall’Europa o dall’euro non c’è più sovranità”, ha detto venerdì scorso Mario Draghi, presidente della Bce, agli studenti di Bologna, durante la cerimonia per la laurea honoris causa in Giurisprudenza. Altro che sovranismi alla polacca, all’ungherese o, purtroppo, all’italiana. E altro che chiusure impaurite nel recinto delle “piccole patrie” e dei localismi miseri. L’Europa, ha aggiunto Draghi, ha bisogno naturalmente di riforme, “per adattare le istituzioni Ue al cambiamento”, per fare fronte alle sfide esterne “sempre più minacciose” e per “rispondere alla percezione che l’Unione Europea manchi di equità, fra Paesi e classi sociali”. Ma la strategia è “più Europa” e un’Europa migliore, non certo la dissoluzione dell’Europa o il suo impoverimento, come vorrebbero gli Usa di Trump e la Russia di Putin (amatissime dai nazionalisti, anche qui in Italia).

Draghi ha ricordato che la vera sovranità si riflette nel migliore controllo degli eventi, per rispondere ai bisogni fondamentali dei cittadini: “La pace, la sicurezza e il pubblico bene del popolo”, secondo le parole del filosofo liberale settecentesco John Locke, uno dei riferimenti etici e politici dell’idea europea. Un’Europa da cambiare, certo. Ma senza dimenticare che la Ue “è stata un successo”, comprese le politiche finanziarie della Bce di fronte alla Grande Crisi. Europa nonostante tutto, dunque. Una lezione da tenere a mente.

Le scelte di Parigi e Berlino vanno in questa direzione. Dopo il rinnovo del “Patto di Acquisgrana” nel gennaio scorso e l’avvio dell’elaborazione di una politica comune per il Bilancio dell’Eurozona, proprio il Manifesto per la politica industriale indica concretamente strategie e misure per fare crescere dei “campioni europei”. Come? Investire di più sull’innovazione e lo sviluppo delle tecnologie di punta dell’AI (Artificial Intellicence, appunto), la robotica e i processi digitali di applicazione alla sanità, ai trasporti, all’ambiente e all’energia. L’auto elettrica è uno dei settori comuni di crescita. Ma anche tutto ciò che riguarda Industry 4.0 (che il governo italiano, ostile all’industria, alla ricerca scientifica e all’innovazione, ha purtroppo messo ai margini dell’attenzione, ostacolando la crescita economica).

Il secondo tema cardine del Manifesto riguarda una riforma dell’Antitrust Ue. Scottati dal “no” di Bruxelles all’intesa Alstom-Siemens sui treni ad alta velocità, Parigi e Berlino vogliono modificare le regole per la concorrenza, pensando a come proteggere meglio i nuovi “campioni europei” dalle sfide che vengono da Usa e Cina, impegnatissima a fare shopping di imprese europee hi tech. La modifica della concorrenza e delle norme antitrust non è vista di buon occhio né da ambienti della Commissione né da parecchi degli Stati europei, soprattutto di quelli del Nord. Ma il tema è posto con forza. E se ne discuterà, in una dialettica certo non accademica tra “liberisti” e “interventisti”.

Il terzo tema cardine riguarda l’impegno dei singoli paesi a monitorare i propri asset industriali strategici per evitare che ogni cessione di competenze, brevetti, know how in singoli paesi metta in crisi l’intera industria europea. Tema complesso, naturalmente, perché indice sulle libertà di mercato e d’impresa. Ma questione comunque in discussione, anche per sollecitare impegni di reciprocità per gli investimenti di imprese europee negli Usa e in Cina.

E l’Italia? In tutte queste discussioni è sostanzialmente assente. Le mosse anti-Bruxelles di parecchi esponenti del governo verde-giallo, le sparate polemiche di potenti ministri contro la Ue, l’euro, e i “burocrati” europei, le simpatie filo-Putin e i contrasti accesi con la Francia e le freddezze con la Germania non aiutano.

“Germania e Francia accelerano in assenza dell’Italia”, commenta su “Il Sole24Ore” l’editorialista Attilio Geroni (20 febbraio). E, pochi giorni più tardi, ecco un secondo commento, di Giuseppe Chiellino: “L’Italia resta fuori dal disegno dell’integrazione europea”. Con una notazione preoccupante, appunto per il nostro Paese: “Nel cosiddetto Gruppo G3, che ha l’obiettivo di porsi come principale forza propositiva sui dossier più importanti – dal bilancio alle politiche dell’immigrazione alle prossime nomine comunitarie, accanto a Francia e Germania non c’è l’Italia, ma la Spagna”.

Proprio la Brexit avrebbe consentito all’Italia, seconda manifattura europea, terza economia Ue, di stare ben salda e rilevante su uno dei vertici del “triangolo europeo” con tedeschi e francesi. Le poco lungimiranti scelte del governo Conte ci hanno invece emarginati. E sono in tanti, a Bruxelles e nelle capitali degli altri principali paesi europei, a ritenere che l’Italia, colpita da una nuova recessione e politicamente poco affidabile su bilancio pubblico e politiche di sviluppo, vada considerata non come un partner strategico ma come una zavorra per l’Europa in movimento.

E’ un quadro allarmante. Cui, nella distrazione e nell’irresponsabilità governativa, provano a rispondere proprio le imprese. Con un vertice tra la Confindustria e l’omologa organizzazione imprenditoriale francese Medef, a Versailles, il 28 e il 29 febbraio. E con la preparazione di un altro incontro, in cui coinvolgere l’associazione tedesca Bdi. Un’assunzione di responsabilità industriale, che prova a mettere un freno ai guasti politici di governo e maggioranza e a ritessere una strategia di sviluppo europea.

Un Manifesto di Francia e Germania per rilanciare la politica industriale dell’Europa e investire insieme sull’innovazione, sull’Intelligenza Artificiale, sullo sviluppo di grandi imprese europee per fronteggiare la concorrenza che arriva, sempre più pesante, dagli Usa e dalla Cina. Parigi e Berlino, insomma, fanno un altro passo insieme, per indicare una via d’uscita dalla crisi che rallenta la Ue. E pongono a tutti gli altri paesi, a cominciare dall’Italia, una sfida di grande peso: o crescere secondo obiettivi comuni o ritrovarsi in seconda fila o peggio ancora ai margini di un’Europa “a due velocità” il cui motore sta lungo l’asse franco-tedesco.

Sono tempi difficili, per l’economia europea, in rallentamento, anche a causa della brusca frenata che colpisce l’industria dell’auto tedesca e, di conseguenza, l’intera filiera automotive europea (l’Italia ne risente massicciamente, essendo fornitrice di primo piano di Bmw, Audi, Volkswagen e Daimler), sotto il peso delle mosse di Trump (“L’automotive europeo è una minaccia per la sicurezza nazionale”) e dei conflitti commerciali Usa-Cina. Le incertezze legate alla Brexit aggravano il quadro. E le tensioni politiche che travagliano parecchi paesi Ue e fanno emergere i rischi legati a populismi, sovranismi e nazionalismi protezionistici dicono che, proprio alla vigilia delle elezioni di maggio per il nuovo Parlamento Europeo è necessario che i paesi e i governi che ancora credono nell’indispensabilità dell’Europa e dunque in una sua riforma e in un suo rafforzamento devono dare chiari e attivi segnali politici per cercare di fermare decrescita, crisi politica e rischi di declino.

“Fuori dall’Europa o dall’euro non c’è più sovranità”, ha detto venerdì scorso Mario Draghi, presidente della Bce, agli studenti di Bologna, durante la cerimonia per la laurea honoris causa in Giurisprudenza. Altro che sovranismi alla polacca, all’ungherese o, purtroppo, all’italiana. E altro che chiusure impaurite nel recinto delle “piccole patrie” e dei localismi miseri. L’Europa, ha aggiunto Draghi, ha bisogno naturalmente di riforme, “per adattare le istituzioni Ue al cambiamento”, per fare fronte alle sfide esterne “sempre più minacciose” e per “rispondere alla percezione che l’Unione Europea manchi di equità, fra Paesi e classi sociali”. Ma la strategia è “più Europa” e un’Europa migliore, non certo la dissoluzione dell’Europa o il suo impoverimento, come vorrebbero gli Usa di Trump e la Russia di Putin (amatissime dai nazionalisti, anche qui in Italia).

Draghi ha ricordato che la vera sovranità si riflette nel migliore controllo degli eventi, per rispondere ai bisogni fondamentali dei cittadini: “La pace, la sicurezza e il pubblico bene del popolo”, secondo le parole del filosofo liberale settecentesco John Locke, uno dei riferimenti etici e politici dell’idea europea. Un’Europa da cambiare, certo. Ma senza dimenticare che la Ue “è stata un successo”, comprese le politiche finanziarie della Bce di fronte alla Grande Crisi. Europa nonostante tutto, dunque. Una lezione da tenere a mente.

Le scelte di Parigi e Berlino vanno in questa direzione. Dopo il rinnovo del “Patto di Acquisgrana” nel gennaio scorso e l’avvio dell’elaborazione di una politica comune per il Bilancio dell’Eurozona, proprio il Manifesto per la politica industriale indica concretamente strategie e misure per fare crescere dei “campioni europei”. Come? Investire di più sull’innovazione e lo sviluppo delle tecnologie di punta dell’AI (Artificial Intellicence, appunto), la robotica e i processi digitali di applicazione alla sanità, ai trasporti, all’ambiente e all’energia. L’auto elettrica è uno dei settori comuni di crescita. Ma anche tutto ciò che riguarda Industry 4.0 (che il governo italiano, ostile all’industria, alla ricerca scientifica e all’innovazione, ha purtroppo messo ai margini dell’attenzione, ostacolando la crescita economica).

Il secondo tema cardine del Manifesto riguarda una riforma dell’Antitrust Ue. Scottati dal “no” di Bruxelles all’intesa Alstom-Siemens sui treni ad alta velocità, Parigi e Berlino vogliono modificare le regole per la concorrenza, pensando a come proteggere meglio i nuovi “campioni europei” dalle sfide che vengono da Usa e Cina, impegnatissima a fare shopping di imprese europee hi tech. La modifica della concorrenza e delle norme antitrust non è vista di buon occhio né da ambienti della Commissione né da parecchi degli Stati europei, soprattutto di quelli del Nord. Ma il tema è posto con forza. E se ne discuterà, in una dialettica certo non accademica tra “liberisti” e “interventisti”.

Il terzo tema cardine riguarda l’impegno dei singoli paesi a monitorare i propri asset industriali strategici per evitare che ogni cessione di competenze, brevetti, know how in singoli paesi metta in crisi l’intera industria europea. Tema complesso, naturalmente, perché indice sulle libertà di mercato e d’impresa. Ma questione comunque in discussione, anche per sollecitare impegni di reciprocità per gli investimenti di imprese europee negli Usa e in Cina.

E l’Italia? In tutte queste discussioni è sostanzialmente assente. Le mosse anti-Bruxelles di parecchi esponenti del governo verde-giallo, le sparate polemiche di potenti ministri contro la Ue, l’euro, e i “burocrati” europei, le simpatie filo-Putin e i contrasti accesi con la Francia e le freddezze con la Germania non aiutano.

“Germania e Francia accelerano in assenza dell’Italia”, commenta su “Il Sole24Ore” l’editorialista Attilio Geroni (20 febbraio). E, pochi giorni più tardi, ecco un secondo commento, di Giuseppe Chiellino: “L’Italia resta fuori dal disegno dell’integrazione europea”. Con una notazione preoccupante, appunto per il nostro Paese: “Nel cosiddetto Gruppo G3, che ha l’obiettivo di porsi come principale forza propositiva sui dossier più importanti – dal bilancio alle politiche dell’immigrazione alle prossime nomine comunitarie, accanto a Francia e Germania non c’è l’Italia, ma la Spagna”.

Proprio la Brexit avrebbe consentito all’Italia, seconda manifattura europea, terza economia Ue, di stare ben salda e rilevante su uno dei vertici del “triangolo europeo” con tedeschi e francesi. Le poco lungimiranti scelte del governo Conte ci hanno invece emarginati. E sono in tanti, a Bruxelles e nelle capitali degli altri principali paesi europei, a ritenere che l’Italia, colpita da una nuova recessione e politicamente poco affidabile su bilancio pubblico e politiche di sviluppo, vada considerata non come un partner strategico ma come una zavorra per l’Europa in movimento.

E’ un quadro allarmante. Cui, nella distrazione e nell’irresponsabilità governativa, provano a rispondere proprio le imprese. Con un vertice tra la Confindustria e l’omologa organizzazione imprenditoriale francese Medef, a Versailles, il 28 e il 29 febbraio. E con la preparazione di un altro incontro, in cui coinvolgere l’associazione tedesca Bdi. Un’assunzione di responsabilità industriale, che prova a mettere un freno ai guasti politici di governo e maggioranza e a ritessere una strategia di sviluppo europea.

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