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Allarme Dia: non sottovalutare la mafia che guarda agli appalti e investe con flussi finanziari “opachi”

“La verità è moneta perdente”, scrive Beatrice Monroy, in un romanzo intenso e struggente, appena pubblicato da Zolfo e costruito per raccontare la disperazione e poi, però, la rivolta culturale e civile di una città, Palermo, contro le stragi mafiose e il silenzio lungamente imposto da complicità e paure verso i boss di Cosa Nostra e il “mondo grigio” dei conniventi. Il racconto prende le mosse dalle uccisioni di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e gli uomini e le donne delle loro scorte, nel maggio e poi nel luglio del 1992. E quel titolo provocatorio sulla sconfitta della verità vuole sottolineare, in realtà, il suo esatto contrario: il bisogno irrefrenabile di verità e di giustizia, di vita civile e di democrazia che cresce nel corpo stesso della città e della Sicilia, per poter segnare finalmente il tempo della sconfitta della mafia e dell’affermazione di una società dei diritti e dei doveri, delle libertà e delle responsabilità. Tutto il contrario, appunto, di Cosa Nostra, della ‘ndrangheta e della camorra.

Questo bisogno di verità e di legalità, per la vita civile e l’economia di mercato, per lo sviluppo sociale e l’imprenditorialità sostenibile, va naturalmente oltre le dimensioni dell’Isola. E si ripresenta proprio adesso alla ribalta per la ricorrenza di alcuni fatti di cronaca. L’allarme della Dia (la Direzione investigativa antimafia) sulla ripresa d’attenzione dei clan criminali per gli appalti pubblici in tutta Italia (ne parleremo più approfonditamente tra poco). E l’uscita dal carcere, per fine pena, d’un feroce assassino mafioso, Giovanni Brusca, 150 omicidi sulle spalle e la responsabilità d’aver premuto il pulsante del detonatore che provocò la morte di Falcone: una libertà dopo 25 anni di carcere e 4 di libertà vigilata, come conseguenza della scelta di diventare “collaboratore di giustizia”, svelando ai magistrati attività, delitti e strategie di Cosa Nostra. Un’applicazione della legge sui cosiddetti “pentiti” voluta proprio da Giovanni Falcone, per rompere il cerchio dell’omertà mafiosa e bloccare le stragi organizzate dai “corleonesi” guidati da Totò Riina e di cui Brusca era uno dei capi e degli assassini più spietati.

Legge da rispettare e applicare. Ma, in un diffuso sentire comune, per nulla affatto giustizia, se ci leggono con attenzione le dichiarazioni dei familiari delle vittime. Una tra tutte, quella di Alfredo Morvillo, fratello di Francesca Morvillo, moglie di Falcone, uccisa anche lei nella strage di Capaci, lungo l’autostrada di Punta Raisi: “Brusca ha scontato la pena, ma resta un criminale”. O quella di Maria Falcone, sorella del magistrato: “È stata applicata la legge, ma sono molto amareggiata. Ritengo che questa non sia giustizia, né per i familiari né per le persone perbene” (Corriere della Sera, 6 giugno).

Amarezze a parte, resta il dato positivo dell’ottimo lavoro fatto, negli ultimi quindici anni del Novecento, dai magistrati di Palermo, contro Cosa Nostra (grazie anche al contributo di due “collaboratori di giustizia”, Tommaso Buscetta soprattutto ma anche Salvatore Contorno) e culminato nel maxi-processo iniziato nel febbraio ’86 e concluso con centinaia di condanne, confermate dalla Cassazione nella primavera del ’92.

“Lo Stato ha vinto, la mafia ha perso”, è la sintesi di quella stagione, con i boss in galera e gli affari mafiosi drasticamente ridimensionati. Una sintesi corretta, tenendo conto del fatto che i processi sono stati celebrati nel totale rispetto delle procedure e delle garanzie e sulla base di indagini condotte seriamente da polizia e carabinieri. Ma purtroppo una sintesi non esaustiva. Perché altre organizzazioni criminali, a cominciare dalla ‘ndrangheta calabrese, hanno preso il posto dei clan siciliani nel giro dei traffici internazionali della droga, in alleanza con i “narcos” sudamericani e orientali. E perché comunque i legami tra criminalità organizzata e “aree grigie” in circuiti dell’economia, della politica e delle pubbliche amministrazioni, pur scompaginati dalle inchieste giudiziarie tra Palermo, Roma e Milano, sono stati ricostituiti.

Ne fanno fede parecchie considerazioni in occasione della ricorrenza della strage di Capaci: “Falcone e Borsellino, i conti ancora aperti e il rischio di nuovi veleni” (Corriere della Sera, 23 maggio); “A 33 anni dalla strage la mafia ha ancora le sue truppe” (Il Sole24Ore, 24 maggio).

Valgono, per la memoria collettiva e la coscienza civile, le parole di commemorazione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “La mafia ha subìto colpi pesantissimi, ma all’opera di sradicamento va data continuità, cogliendo le sue trasformazioni, i nuovi legami con attività economiche e finanziarie, le zone grigie che si formano dove l’impegno civico cede il passo all’indifferenza”.

Rieccoci, anche così, al bisogno di verità che non può essere “moneta perdente”. E alla necessità di atti di governo efficaci e di un impegno politico responsabile, trasversale tra maggioranza e opposizione, contro il crimine organizzato, con interventi preventivi e repressivi e con scelte trasparenti di buona amministrazione.

D’altronde, proprio la legge che ha introdotto nuove misure di contrasto alla mafia, più severe, puntuali ed efficaci, era stata messa a punto da parlamentari di diverso orientamento politico, il comunista Pio La Torre e il democristiano Virginio Rognoni (al tempo ministro dell’Interno) e approvata con larghissima maggioranza in Parlamento il 13 settembre del 1982, pochi giorni dopo l’assassinio, a Palermo, del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, mandato lì dal governo, come prefetto ma senza i necessari poteri d’intervento. Una legge ben costruita, in grado di colpire l’associazione mafiosa, seguendo il filo degli interessi, degli affari, dei legami criminali (proprio le indagini di Falcone e Borsellino e degli altri magistrati antimafia ne avrebbero fatto un uso intelligente e competente).

L’attualità del pericolo mafioso, adesso, è rivelata dall’ultimo Rapporto della Dia (Il Sole24Ore, 28 maggio) che ha accertato, nel ’24, manovre finanziarie “opache” per 49,2 miliardi di euro e indicato, in dettaglio, operazioni di investimento e riciclaggio di capitali di origine illecita in attività apparentemente legali. In primo piano, le mosse della ‘ndrangheta, ma anche di camorra e clan siciliani, particolarmente attivi a Milano (“Mafia, le ombre sulla Lombardia. Fari su appalti, ultrà del calcio e Olimpiadi”, titola la Repubblica, 28 maggio) ma anche in Piemonte, Liguria, Veneto ed Emilia. E puntuale attenzione per gli interessi relativi a tutto il mondo dei subappalti di opere pubbliche e a una serie di attività, soprattutto nei settori della finanza e dei servizi, per il riciclaggio del denaro.

Sono sempre alti, insomma, i rischi di inquinamento dei mercati e dell’economia, di travolgimento dell’attività delle imprese. E vale la pena, accanto alle necessarie commemorazioni, intensificare le iniziative, politiche e amministrative, necessarie a garantire legalità, trasparenza, funzionamento dei mercati e della concorrenza. Scelta essenziale, economica e civile.

(foto Getty Images)

“La verità è moneta perdente”, scrive Beatrice Monroy, in un romanzo intenso e struggente, appena pubblicato da Zolfo e costruito per raccontare la disperazione e poi, però, la rivolta culturale e civile di una città, Palermo, contro le stragi mafiose e il silenzio lungamente imposto da complicità e paure verso i boss di Cosa Nostra e il “mondo grigio” dei conniventi. Il racconto prende le mosse dalle uccisioni di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e gli uomini e le donne delle loro scorte, nel maggio e poi nel luglio del 1992. E quel titolo provocatorio sulla sconfitta della verità vuole sottolineare, in realtà, il suo esatto contrario: il bisogno irrefrenabile di verità e di giustizia, di vita civile e di democrazia che cresce nel corpo stesso della città e della Sicilia, per poter segnare finalmente il tempo della sconfitta della mafia e dell’affermazione di una società dei diritti e dei doveri, delle libertà e delle responsabilità. Tutto il contrario, appunto, di Cosa Nostra, della ‘ndrangheta e della camorra.

Questo bisogno di verità e di legalità, per la vita civile e l’economia di mercato, per lo sviluppo sociale e l’imprenditorialità sostenibile, va naturalmente oltre le dimensioni dell’Isola. E si ripresenta proprio adesso alla ribalta per la ricorrenza di alcuni fatti di cronaca. L’allarme della Dia (la Direzione investigativa antimafia) sulla ripresa d’attenzione dei clan criminali per gli appalti pubblici in tutta Italia (ne parleremo più approfonditamente tra poco). E l’uscita dal carcere, per fine pena, d’un feroce assassino mafioso, Giovanni Brusca, 150 omicidi sulle spalle e la responsabilità d’aver premuto il pulsante del detonatore che provocò la morte di Falcone: una libertà dopo 25 anni di carcere e 4 di libertà vigilata, come conseguenza della scelta di diventare “collaboratore di giustizia”, svelando ai magistrati attività, delitti e strategie di Cosa Nostra. Un’applicazione della legge sui cosiddetti “pentiti” voluta proprio da Giovanni Falcone, per rompere il cerchio dell’omertà mafiosa e bloccare le stragi organizzate dai “corleonesi” guidati da Totò Riina e di cui Brusca era uno dei capi e degli assassini più spietati.

Legge da rispettare e applicare. Ma, in un diffuso sentire comune, per nulla affatto giustizia, se ci leggono con attenzione le dichiarazioni dei familiari delle vittime. Una tra tutte, quella di Alfredo Morvillo, fratello di Francesca Morvillo, moglie di Falcone, uccisa anche lei nella strage di Capaci, lungo l’autostrada di Punta Raisi: “Brusca ha scontato la pena, ma resta un criminale”. O quella di Maria Falcone, sorella del magistrato: “È stata applicata la legge, ma sono molto amareggiata. Ritengo che questa non sia giustizia, né per i familiari né per le persone perbene” (Corriere della Sera, 6 giugno).

Amarezze a parte, resta il dato positivo dell’ottimo lavoro fatto, negli ultimi quindici anni del Novecento, dai magistrati di Palermo, contro Cosa Nostra (grazie anche al contributo di due “collaboratori di giustizia”, Tommaso Buscetta soprattutto ma anche Salvatore Contorno) e culminato nel maxi-processo iniziato nel febbraio ’86 e concluso con centinaia di condanne, confermate dalla Cassazione nella primavera del ’92.

“Lo Stato ha vinto, la mafia ha perso”, è la sintesi di quella stagione, con i boss in galera e gli affari mafiosi drasticamente ridimensionati. Una sintesi corretta, tenendo conto del fatto che i processi sono stati celebrati nel totale rispetto delle procedure e delle garanzie e sulla base di indagini condotte seriamente da polizia e carabinieri. Ma purtroppo una sintesi non esaustiva. Perché altre organizzazioni criminali, a cominciare dalla ‘ndrangheta calabrese, hanno preso il posto dei clan siciliani nel giro dei traffici internazionali della droga, in alleanza con i “narcos” sudamericani e orientali. E perché comunque i legami tra criminalità organizzata e “aree grigie” in circuiti dell’economia, della politica e delle pubbliche amministrazioni, pur scompaginati dalle inchieste giudiziarie tra Palermo, Roma e Milano, sono stati ricostituiti.

Ne fanno fede parecchie considerazioni in occasione della ricorrenza della strage di Capaci: “Falcone e Borsellino, i conti ancora aperti e il rischio di nuovi veleni” (Corriere della Sera, 23 maggio); “A 33 anni dalla strage la mafia ha ancora le sue truppe” (Il Sole24Ore, 24 maggio).

Valgono, per la memoria collettiva e la coscienza civile, le parole di commemorazione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “La mafia ha subìto colpi pesantissimi, ma all’opera di sradicamento va data continuità, cogliendo le sue trasformazioni, i nuovi legami con attività economiche e finanziarie, le zone grigie che si formano dove l’impegno civico cede il passo all’indifferenza”.

Rieccoci, anche così, al bisogno di verità che non può essere “moneta perdente”. E alla necessità di atti di governo efficaci e di un impegno politico responsabile, trasversale tra maggioranza e opposizione, contro il crimine organizzato, con interventi preventivi e repressivi e con scelte trasparenti di buona amministrazione.

D’altronde, proprio la legge che ha introdotto nuove misure di contrasto alla mafia, più severe, puntuali ed efficaci, era stata messa a punto da parlamentari di diverso orientamento politico, il comunista Pio La Torre e il democristiano Virginio Rognoni (al tempo ministro dell’Interno) e approvata con larghissima maggioranza in Parlamento il 13 settembre del 1982, pochi giorni dopo l’assassinio, a Palermo, del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, mandato lì dal governo, come prefetto ma senza i necessari poteri d’intervento. Una legge ben costruita, in grado di colpire l’associazione mafiosa, seguendo il filo degli interessi, degli affari, dei legami criminali (proprio le indagini di Falcone e Borsellino e degli altri magistrati antimafia ne avrebbero fatto un uso intelligente e competente).

L’attualità del pericolo mafioso, adesso, è rivelata dall’ultimo Rapporto della Dia (Il Sole24Ore, 28 maggio) che ha accertato, nel ’24, manovre finanziarie “opache” per 49,2 miliardi di euro e indicato, in dettaglio, operazioni di investimento e riciclaggio di capitali di origine illecita in attività apparentemente legali. In primo piano, le mosse della ‘ndrangheta, ma anche di camorra e clan siciliani, particolarmente attivi a Milano (“Mafia, le ombre sulla Lombardia. Fari su appalti, ultrà del calcio e Olimpiadi”, titola la Repubblica, 28 maggio) ma anche in Piemonte, Liguria, Veneto ed Emilia. E puntuale attenzione per gli interessi relativi a tutto il mondo dei subappalti di opere pubbliche e a una serie di attività, soprattutto nei settori della finanza e dei servizi, per il riciclaggio del denaro.

Sono sempre alti, insomma, i rischi di inquinamento dei mercati e dell’economia, di travolgimento dell’attività delle imprese. E vale la pena, accanto alle necessarie commemorazioni, intensificare le iniziative, politiche e amministrative, necessarie a garantire legalità, trasparenza, funzionamento dei mercati e della concorrenza. Scelta essenziale, economica e civile.

(foto Getty Images)

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