Le fragilità dell’Italia, tra economia sommersa e lavoro povero e le risposte da cercare nello sviluppo dell’industria di qualità
L’occupazione in Italia cresce, superando il tetto dei 24 milioni di persone con un lavoro, più o meno stabile, più o meno all’altezza dei propri bisogni e delle proprie aspettative. I disoccupati sono appena il 6,2%, mai così pochi almeno dal 2009. I mercati finanziari tutto sommato non mostrano particolari preoccupazioni sulla tenuta del sistema Italia e dei conti pubblici, senza far crescere lo spread. E il governo Meloni ha ragione di vedere il bicchiere dell’economia mezzo pieno, anche se sono sempre sempre meno le possibilità di arrivare alla fine dell’anno a una crescita del Pil dell’1%, così come previsto da Palazzo Chigi (la Banca d’Italia stima ragionevolmente un +0,8%).
“Paradossi (e record) del lavoro”, scrive Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera (20 ottobre) mettendo in evidenza “i timori” legati a una situazione in cui il tasso di occupazione italiano è al 62,3% mentre negli altri grandi paesi Ue è attorno all’80% e i giovani e le donne continuano a essere in buona parte estranei al mercato del lavoro. Bassi salari, che non hanno recuperato l’inflazione degli ultimi anni. Crescente disaffezione rispetto alle imprese e alla pubblica amministrazione in cui si è occupati. Carenza di mano d’opera, aggravata dalle prospettive di “inverno demografico”. E un clima generale che fa temere che il dinamismo di cui l’Italia aveva dato prova proprio nel post Covid, più che in altre aree europee, tenda a scemare.
A guardare bene le cronache delle ultime settimane, al di là dell’andamento della congiuntura, si intravvedono però degli elementi di fragilità che è indispensabile tenere ben presenti, proprio per poter impostare politiche economiche e sociali in grado di rianimare l’economia e impostare una ripresa più solida, più duratura. E quegli elementi sono sia la crescita del peso dell’economia sommersa e illegale sia l’aumento della povertà, anche tra i lavoratori.
L’allarme risuona nelle parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “Sacche di salari bassi lacerano la coesione sociale”, ha detto, alla cerimonia delle Stelle al merito per chi si è distinto nella sua attività lavorativa (Il Sole24Ore, 18 ottobre). Non si tratta solo di una questione economica. Ma di una ferita nel corpo del Paese, con conseguenze rilevanti sulla tenuta delle relazioni e sulla stessa solidità della comunità nazionale. La coesione sociale, infatti, è fondamentale per la democrazia. E senza questa coesione sono in discussione anche le possibilità di costruire robuste ipotesi di futuro e di sviluppo sostenibile per le nuove generazioni. Una democrazia solida è quella che riesce a tenere insieme le libertà politiche, sociali e civili, l’economia di mercato e dunque l’intraprendenza e la crescita economica e il welfare, il benessere diffuso. Altrimenti, la crisi si aggrava.
Insiste dunque il presidente Mattarella: “E’ vero che i dati sulla crescita confortano. Ma è anche vero che l’occupazione si sta frammentando, tra una fascia alta in cui a qualità e professionalità corrispondono buone retribuzioni, mentre in basso si creano sacche di salari insufficienti, alimentati anche da part time involontari e da precarietà. Si tratta di un elemento si preoccupante lacerazione della coesione sociale”.
Vediamo i dati, allora. Ci sono in Italia, secondo l’Istat (dati ‘23) 5,7 milioni di persone in povertà assoluta (erano 4,1 milione dieci anni fa) e le famiglie sono 2,2 milioni, con una percentuale dell’8,4%, in crescita rispetto al 6,2% del 2014. La povertà colpisce anche le famiglie che hanno come persona di riferimento un operaio: sale al 16,5% la loro quota, dal 14,7% del ‘22. Il Mezzogiorno è l’area più colpita.
È vero che aumenta l’occupazione, dice sempre l’Istat, ma l’inflazione ha vanificato l’incidenza positiva del salario conquistato sulle possibilità di spesa: un calo dell’1,5% in termini reali della spesa equivalente. E più in generale, le retribuzioni reali hanno perso il 10% dal 2019 (dati Inps, Il Sole24Ore 18 ottobre).
C’è un altro fatto su cui riflettere: l’incidenza di povertà assoluta tra i minori, che si attesta al 13,8% e riguarda 1,3 milioni di bambini e ragazzi: generazioni che vedono compromesso il loro futuro e che rischiano di ritrovarsi ai margini dello sviluppo economico e della vita civile, con drammatiche discriminazioni sulla formazione, la sanità, la qualità della vita. Un’alterazione profonda del dettato della Costituzione sull’uguaglianza delle opportunità per i cittadini.
Su queste condizioni incide molto l’avere una economia “in nero”, sommersa o illegale: lavori poveri, bassa sicurezza, alta precarietà, carenza di diritti, misere prospettive. Ecco la seconda fragilità. Cui non si pone sufficiente rimedio (la storica tendenza ai condoni, previdenziali e fiscali, non aiuta certo l’emersione e la trasparenza economica).
“Economia sommersa e illegale: record a 202 miliardi (+9,6%), scrive Carlo Marroni sul Sole24Ore (19 ottobre). L’economia sommersa vale 182 miliardi, quella illegale, terreno di potere e violenza di ‘ndrangheta, camorra e mafia oltre che delle varie altre organizzazioni criminali, sfiora i 20 miliardi. I dati sono dell’Istat e certificano come questa economia “nera” valga il 10% del Pil. Una crescente alterazione degli equilibri economici e sociali, un’altra mina che mette seriamente in pericolo la coesione sociale del Paese e ne limita fortemente le possibilità di sviluppo sostenibile, ambientale ed sociale.
Che risposta politica darne? Al di là delle misure, indispensabili, per tamponare le condizioni estreme di povertà e delle iniziative di contrasto del lavoro “in nero” e dell’evasione fiscale (si stanno recuperando risorse, ma poche e lentamente, con un Fisco che continua a gravare sul lavoro dipendente e le imprese in regola), serve una radicale, profonda politica economica e fiscale che promuova la crescita e la modernizzazione del Paese. E una politica industriale di respiro europeo che incoraggi gli investimenti nei settori che hanno più futuro. A cominciare dall’industria di qualità. E dunque faccia crescere i salari, agganciandoli alla produttività (e proprio su questo servirebbe avere una fiscalità di vantaggio).
Vale la pena, per averne un’indicazione, leggere le parole di Mario Carraro, uno dei migliori e più lungimiranti imprenditori italiani, 95 anni, industria metalmeccanica di qualità a Campodarsego (Padova) e grande passione per la cultura: “L’amore per la fabbrica e la riflessione costante fanno nascere il futuro”, ha detto in una intervista a Paolo Bricco (Il Sole24Ore, 20 ottobre). Ricerca, produttività, sguardo internazionale, politica di riforme, attenzione per l’innovazione e le energie delle giovani generazioni.
La crescita equilibrata del Paese, infatti, ha come cardine la sua industria migliore. Con la promozione e il sostegno fiscale a un made in Italy che non si concentri solo sul “tipico” ben conosciuto (abbigliamento, arredamento e agro-alimentare) ma faccia leva sui settori più competitivi e produttivi, la meccatronica e la robotica, la chimica e la farmaceutica, la cantieristica navale e l’aerospazio, la gomma e la componentistica automotive, cioè su tutte quelle produzioni industriali che fanno da pilastro per quei 630 miliardi di export che tengono in piedi il sistema Paese e alimentano una lunga serie di servizi innovativi per l’impresa. Qualità, innovazione e sviluppo, insomma. Salari e benessere. L’industria come cardine anche di quella coesione sociale che sta giustamente a cuore al presidente Mattarella e agli italiani più responsabili.


L’occupazione in Italia cresce, superando il tetto dei 24 milioni di persone con un lavoro, più o meno stabile, più o meno all’altezza dei propri bisogni e delle proprie aspettative. I disoccupati sono appena il 6,2%, mai così pochi almeno dal 2009. I mercati finanziari tutto sommato non mostrano particolari preoccupazioni sulla tenuta del sistema Italia e dei conti pubblici, senza far crescere lo spread. E il governo Meloni ha ragione di vedere il bicchiere dell’economia mezzo pieno, anche se sono sempre sempre meno le possibilità di arrivare alla fine dell’anno a una crescita del Pil dell’1%, così come previsto da Palazzo Chigi (la Banca d’Italia stima ragionevolmente un +0,8%).
“Paradossi (e record) del lavoro”, scrive Ferruccio de Bortoli sul Corriere della Sera (20 ottobre) mettendo in evidenza “i timori” legati a una situazione in cui il tasso di occupazione italiano è al 62,3% mentre negli altri grandi paesi Ue è attorno all’80% e i giovani e le donne continuano a essere in buona parte estranei al mercato del lavoro. Bassi salari, che non hanno recuperato l’inflazione degli ultimi anni. Crescente disaffezione rispetto alle imprese e alla pubblica amministrazione in cui si è occupati. Carenza di mano d’opera, aggravata dalle prospettive di “inverno demografico”. E un clima generale che fa temere che il dinamismo di cui l’Italia aveva dato prova proprio nel post Covid, più che in altre aree europee, tenda a scemare.
A guardare bene le cronache delle ultime settimane, al di là dell’andamento della congiuntura, si intravvedono però degli elementi di fragilità che è indispensabile tenere ben presenti, proprio per poter impostare politiche economiche e sociali in grado di rianimare l’economia e impostare una ripresa più solida, più duratura. E quegli elementi sono sia la crescita del peso dell’economia sommersa e illegale sia l’aumento della povertà, anche tra i lavoratori.
L’allarme risuona nelle parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella: “Sacche di salari bassi lacerano la coesione sociale”, ha detto, alla cerimonia delle Stelle al merito per chi si è distinto nella sua attività lavorativa (Il Sole24Ore, 18 ottobre). Non si tratta solo di una questione economica. Ma di una ferita nel corpo del Paese, con conseguenze rilevanti sulla tenuta delle relazioni e sulla stessa solidità della comunità nazionale. La coesione sociale, infatti, è fondamentale per la democrazia. E senza questa coesione sono in discussione anche le possibilità di costruire robuste ipotesi di futuro e di sviluppo sostenibile per le nuove generazioni. Una democrazia solida è quella che riesce a tenere insieme le libertà politiche, sociali e civili, l’economia di mercato e dunque l’intraprendenza e la crescita economica e il welfare, il benessere diffuso. Altrimenti, la crisi si aggrava.
Insiste dunque il presidente Mattarella: “E’ vero che i dati sulla crescita confortano. Ma è anche vero che l’occupazione si sta frammentando, tra una fascia alta in cui a qualità e professionalità corrispondono buone retribuzioni, mentre in basso si creano sacche di salari insufficienti, alimentati anche da part time involontari e da precarietà. Si tratta di un elemento si preoccupante lacerazione della coesione sociale”.
Vediamo i dati, allora. Ci sono in Italia, secondo l’Istat (dati ‘23) 5,7 milioni di persone in povertà assoluta (erano 4,1 milione dieci anni fa) e le famiglie sono 2,2 milioni, con una percentuale dell’8,4%, in crescita rispetto al 6,2% del 2014. La povertà colpisce anche le famiglie che hanno come persona di riferimento un operaio: sale al 16,5% la loro quota, dal 14,7% del ‘22. Il Mezzogiorno è l’area più colpita.
È vero che aumenta l’occupazione, dice sempre l’Istat, ma l’inflazione ha vanificato l’incidenza positiva del salario conquistato sulle possibilità di spesa: un calo dell’1,5% in termini reali della spesa equivalente. E più in generale, le retribuzioni reali hanno perso il 10% dal 2019 (dati Inps, Il Sole24Ore 18 ottobre).
C’è un altro fatto su cui riflettere: l’incidenza di povertà assoluta tra i minori, che si attesta al 13,8% e riguarda 1,3 milioni di bambini e ragazzi: generazioni che vedono compromesso il loro futuro e che rischiano di ritrovarsi ai margini dello sviluppo economico e della vita civile, con drammatiche discriminazioni sulla formazione, la sanità, la qualità della vita. Un’alterazione profonda del dettato della Costituzione sull’uguaglianza delle opportunità per i cittadini.
Su queste condizioni incide molto l’avere una economia “in nero”, sommersa o illegale: lavori poveri, bassa sicurezza, alta precarietà, carenza di diritti, misere prospettive. Ecco la seconda fragilità. Cui non si pone sufficiente rimedio (la storica tendenza ai condoni, previdenziali e fiscali, non aiuta certo l’emersione e la trasparenza economica).
“Economia sommersa e illegale: record a 202 miliardi (+9,6%), scrive Carlo Marroni sul Sole24Ore (19 ottobre). L’economia sommersa vale 182 miliardi, quella illegale, terreno di potere e violenza di ‘ndrangheta, camorra e mafia oltre che delle varie altre organizzazioni criminali, sfiora i 20 miliardi. I dati sono dell’Istat e certificano come questa economia “nera” valga il 10% del Pil. Una crescente alterazione degli equilibri economici e sociali, un’altra mina che mette seriamente in pericolo la coesione sociale del Paese e ne limita fortemente le possibilità di sviluppo sostenibile, ambientale ed sociale.
Che risposta politica darne? Al di là delle misure, indispensabili, per tamponare le condizioni estreme di povertà e delle iniziative di contrasto del lavoro “in nero” e dell’evasione fiscale (si stanno recuperando risorse, ma poche e lentamente, con un Fisco che continua a gravare sul lavoro dipendente e le imprese in regola), serve una radicale, profonda politica economica e fiscale che promuova la crescita e la modernizzazione del Paese. E una politica industriale di respiro europeo che incoraggi gli investimenti nei settori che hanno più futuro. A cominciare dall’industria di qualità. E dunque faccia crescere i salari, agganciandoli alla produttività (e proprio su questo servirebbe avere una fiscalità di vantaggio).
Vale la pena, per averne un’indicazione, leggere le parole di Mario Carraro, uno dei migliori e più lungimiranti imprenditori italiani, 95 anni, industria metalmeccanica di qualità a Campodarsego (Padova) e grande passione per la cultura: “L’amore per la fabbrica e la riflessione costante fanno nascere il futuro”, ha detto in una intervista a Paolo Bricco (Il Sole24Ore, 20 ottobre). Ricerca, produttività, sguardo internazionale, politica di riforme, attenzione per l’innovazione e le energie delle giovani generazioni.
La crescita equilibrata del Paese, infatti, ha come cardine la sua industria migliore. Con la promozione e il sostegno fiscale a un made in Italy che non si concentri solo sul “tipico” ben conosciuto (abbigliamento, arredamento e agro-alimentare) ma faccia leva sui settori più competitivi e produttivi, la meccatronica e la robotica, la chimica e la farmaceutica, la cantieristica navale e l’aerospazio, la gomma e la componentistica automotive, cioè su tutte quelle produzioni industriali che fanno da pilastro per quei 630 miliardi di export che tengono in piedi il sistema Paese e alimentano una lunga serie di servizi innovativi per l’impresa. Qualità, innovazione e sviluppo, insomma. Salari e benessere. L’industria come cardine anche di quella coesione sociale che sta giustamente a cuore al presidente Mattarella e agli italiani più responsabili.