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Le quattro rettrici di Milano contro il gender gap: sfida di equità ma anche di sviluppo economico

Quattro donne contro il gender gap. Quattro rettrici universitarie di Milano, per l’esattezza: Elena Beccalli della Cattolica, Marina Brambilla della Statale, Giovanna Iannantuoni della Bicocca (è anche presidentessa della Crui, la Conferenza dei rettori di tutte le università italiane) e Donatella Sciuto del Politecnico. C’è una foto esemplare (la Repubblica, 26 ottobre) che le ritrae una accanto all’altra, con il sindaco della città Beppe Sala, mentre discutono, a Palazzo Marino, con un gruppo di studenti e studentesse delle scuole superiori, per ragionare insieme su come fare crescere la partecipazione femminile al mercato del lavoro e su quali vantaggi possono derivarne non solo per l’economia, ma anche e soprattutto per la coesione sociale, lo sviluppo sostenibile, la qualità della vita (la Repubblica, 26 ottobre).

È una foto simbolica, del cammino fatto dalle donne, proprio a Milano, sul piano della responsabilità politica e culturale (potrebbe essere ancora più significativa in futuro, se si pensa che a novembre si insedia la nuova rettrice dello Iulm, Valentina Garavaglia e che si potrebbe pur dire “milanese” anche Anna Gervasoni, la rettrice della Liuc, l’università di Castellanza geograficamente in provincia di Varese ma fortemente connessa con i territori produttivi del nord di Milano). Ma al di là della foto, i ragionamenti delle rettrici contengono anche un monito: su quanto resta ancora da fare per ridurre e poi eliminare quelle differenze di genere che riguardano il lavoro, la retribuzione, i diritti e perché no? il potere, come accesso agli strumenti in grado di determinare gli equilibri economici e sociali e tracciare un migliore futuro.

Una cosa sembra infatti chiara: ragionare sul ruolo, sul peso e sulla responsabilità delle donne non significa soltanto avere in campo conoscenze e competenze rivolte a migliorare la condizione femminile, ma soprattutto poter disporre di un universo intellettuale e culturale, di una “intelligenza del cuore”, di una sensibilità e di una attitudine pragmatica alla soluzione dei problemi che possono essere determinanti per quel “cambio di paradigma” economico e sociale di cui si parla da tempo e che investe l’economia produttiva in senso stretto, la vita civile, la sfera complessa dei diritti e dei doveri, il welfare, l’insieme della nostra stessa democrazia.

E riguarda, naturalmente, le condizioni di un miglior futuro. Compresa l’evoluzione e la governance dell’Intelligenza Artificiale. Come chiarisce Donatella Sciuto, Politecnico: “Se penso che i sistemi di AI sono sviluppati per la stragrande maggioranza dagli uomini è chiaro che anche la tecnologia può diventare un ulteriore pregiudizio di genere”. E dunque? Sembra oramai acquisito il fatto che, per dirla in modo semplice, la struttura degli algoritmi, la costruzione della relazione tra domande e risposte abbiano bisogno di un impegno multidisciplinare (cyberscience, fisica, matematica, statistica, ingegneria ma anche sociologia, filosofia, psicologia, economia, diritto) per capirne senso e valori e governarne dinamiche e conseguenze. L’importante è che la presenza femminile, disciplina per disciplina, sia elevata. L’impegno delle quattro rettrici indica una strada da seguire.

C’è un punto fermo: insistere sul merito, sulle capacità professionali delle donne. “Non siamo diventate rettrici per le quote rosa. Abbiamo studiato, fatto ricerca e concorsi”, sostiene Marina Brambilla, al vertice della Statale. E dunque “le donne riescono a diventare protagoniste laddove sono messe nelle condizioni di studiare come i loro compagni. Penso che Milano e la Lombardia possano essere un esempio”.

Ci sono tre articoli della Costituzione che possono fare da riferimento, il 3, il 31 e il 37, che esplicitamente stabilisce che “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore” (ne abbiamo parlato nel blog del 17 settembre). E c’è una disparità che continua a incidere sia sulla vita personale di milioni di donne sia sulla qualità stessa dello sviluppo economico del Paese.

Guardiamo alcuni dati, per capire meglio. Il tasso di occupazione femminile, secondo l’Istat, è stato nel primo semestre ‘24 del 52,7%, in miglioramento rispetto al 51,9 dello stesso periodo dell’anno precedente. Ma comunque nettamente al di sotto di quello maschile, rispettivamente al 70,4% nel ’24 e al 69,4% del ’23, con una forbice di 18 punti, molto più ampia del 10% della media Ue. Un divario di genere che continua a collocarci nelle ultime posizioni europee. E si ripercuote negativamente sull’andamento complessivo dell’economia italiana: “Se il nostro tasso di occupazione femminile raggiungesse la media europea, il Pil crescerebbe del 7,4%”, sostiene Azzurra Rinaldi, economista, direttrice della School of Gender Economics dell’università “La Sapienza” di Roma. Il ragionamento vale anche guardando al contesto della Ue: “Investire sull’uguaglianza di genere, come documenta l’Istituto europeo per la parità di genere, potrebbe fare aumentare il Pil pro capite in Europa nel 2050 dal 6,1% al 9,6%. Il che vuol dire approssimativamente un guadagno tra 1,95 e 3,15 trilioni di euro”, commenta Linda Laura Sabbadini (la Repubblica, 25 settembre), chiedendosi retoricamente se bastino queste prospettive per “cambiare finalmente strada” ai governi europei e investire sulla parità e il lavoro femminile. Insiste Sabbadini: “Il nostro Paese è ancora prigioniero di una visione miope, non solo perché ingiusta e penalizzante, ma perché frutto di una cultura che non comprende che investire sulla parità di genere significa trainare la crescita economica”.

Altri dati rilevanti vengono dall’Inps che documenta come “le madri sono penalizzate su stipendi e carriere” (la Repubblica, 25 settembre). Il fenomeno, in letteratura economica e sociale si chiama child penalty, per indicare le conseguenze che una maternità ha su lavoro e carriera. Si apre un differenziale con gli uomini, che progrediscono sotto i due aspetti, mentre le madri vivono una condizione di part time e di rallentamento degli avanzamenti professionale. Con un divario che raramente si recupera (circa trenta punti, calcola l’Inps). E con effetti, ovviamente, anche sulle pensioni: l’assegno medio dei pensionati supera del 35% quello delle pensionate.

C’è ancora un altro aspetto, che l’Inps mette in rilievo: la crescente tendenza femminile all’abbandono del lavoro, dopo la nascita di un figlio. Se, prima di quella nascita, la probabilità di lasciare il lavoro è più o meno pari (9% gli uomini, 11% le donne), subito dopo, nell’anno della nascita, il rischio sale al 18% per la madre e comincia a scendere all’8% per il padre. A due anni, il rischio per la madre è ancora alto (14%) e solo dopo il terzo anno si torna in condizione di parità. Naturalmente se si può contare su sostegni familiari e sociali (a cominciare dagli asili nido).

La situazione, naturalmente, si aggrava per le lavoratrici part time.

Una situazione da cambiare radicalmente. Con scelte politiche. Investimenti di welfare. Pari opportunità. E modifiche delle tendenze culturali. Un impegno di sguardo lungo e ampio respiro. Non esattamente quello di cui ci parlano cronache e statistiche.

Non si tratta solo di giustizia e di migliori equilibri sociali. Ma anche di vantaggio in termini di valori e di qualità dello sviluppo. Commenta Marina Beccalli, Università Cattolica: Ci sono moltissimi studi internazionali che documentano come nelle organizzazioni o aziende dov’è maggiore la presenza di donne ci sono meno frodi, comportamenti più etici, un maggiore orientamento alla sostenibilità”.

(foto Getty Images)

Quattro donne contro il gender gap. Quattro rettrici universitarie di Milano, per l’esattezza: Elena Beccalli della Cattolica, Marina Brambilla della Statale, Giovanna Iannantuoni della Bicocca (è anche presidentessa della Crui, la Conferenza dei rettori di tutte le università italiane) e Donatella Sciuto del Politecnico. C’è una foto esemplare (la Repubblica, 26 ottobre) che le ritrae una accanto all’altra, con il sindaco della città Beppe Sala, mentre discutono, a Palazzo Marino, con un gruppo di studenti e studentesse delle scuole superiori, per ragionare insieme su come fare crescere la partecipazione femminile al mercato del lavoro e su quali vantaggi possono derivarne non solo per l’economia, ma anche e soprattutto per la coesione sociale, lo sviluppo sostenibile, la qualità della vita (la Repubblica, 26 ottobre).

È una foto simbolica, del cammino fatto dalle donne, proprio a Milano, sul piano della responsabilità politica e culturale (potrebbe essere ancora più significativa in futuro, se si pensa che a novembre si insedia la nuova rettrice dello Iulm, Valentina Garavaglia e che si potrebbe pur dire “milanese” anche Anna Gervasoni, la rettrice della Liuc, l’università di Castellanza geograficamente in provincia di Varese ma fortemente connessa con i territori produttivi del nord di Milano). Ma al di là della foto, i ragionamenti delle rettrici contengono anche un monito: su quanto resta ancora da fare per ridurre e poi eliminare quelle differenze di genere che riguardano il lavoro, la retribuzione, i diritti e perché no? il potere, come accesso agli strumenti in grado di determinare gli equilibri economici e sociali e tracciare un migliore futuro.

Una cosa sembra infatti chiara: ragionare sul ruolo, sul peso e sulla responsabilità delle donne non significa soltanto avere in campo conoscenze e competenze rivolte a migliorare la condizione femminile, ma soprattutto poter disporre di un universo intellettuale e culturale, di una “intelligenza del cuore”, di una sensibilità e di una attitudine pragmatica alla soluzione dei problemi che possono essere determinanti per quel “cambio di paradigma” economico e sociale di cui si parla da tempo e che investe l’economia produttiva in senso stretto, la vita civile, la sfera complessa dei diritti e dei doveri, il welfare, l’insieme della nostra stessa democrazia.

E riguarda, naturalmente, le condizioni di un miglior futuro. Compresa l’evoluzione e la governance dell’Intelligenza Artificiale. Come chiarisce Donatella Sciuto, Politecnico: “Se penso che i sistemi di AI sono sviluppati per la stragrande maggioranza dagli uomini è chiaro che anche la tecnologia può diventare un ulteriore pregiudizio di genere”. E dunque? Sembra oramai acquisito il fatto che, per dirla in modo semplice, la struttura degli algoritmi, la costruzione della relazione tra domande e risposte abbiano bisogno di un impegno multidisciplinare (cyberscience, fisica, matematica, statistica, ingegneria ma anche sociologia, filosofia, psicologia, economia, diritto) per capirne senso e valori e governarne dinamiche e conseguenze. L’importante è che la presenza femminile, disciplina per disciplina, sia elevata. L’impegno delle quattro rettrici indica una strada da seguire.

C’è un punto fermo: insistere sul merito, sulle capacità professionali delle donne. “Non siamo diventate rettrici per le quote rosa. Abbiamo studiato, fatto ricerca e concorsi”, sostiene Marina Brambilla, al vertice della Statale. E dunque “le donne riescono a diventare protagoniste laddove sono messe nelle condizioni di studiare come i loro compagni. Penso che Milano e la Lombardia possano essere un esempio”.

Ci sono tre articoli della Costituzione che possono fare da riferimento, il 3, il 31 e il 37, che esplicitamente stabilisce che “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore” (ne abbiamo parlato nel blog del 17 settembre). E c’è una disparità che continua a incidere sia sulla vita personale di milioni di donne sia sulla qualità stessa dello sviluppo economico del Paese.

Guardiamo alcuni dati, per capire meglio. Il tasso di occupazione femminile, secondo l’Istat, è stato nel primo semestre ‘24 del 52,7%, in miglioramento rispetto al 51,9 dello stesso periodo dell’anno precedente. Ma comunque nettamente al di sotto di quello maschile, rispettivamente al 70,4% nel ’24 e al 69,4% del ’23, con una forbice di 18 punti, molto più ampia del 10% della media Ue. Un divario di genere che continua a collocarci nelle ultime posizioni europee. E si ripercuote negativamente sull’andamento complessivo dell’economia italiana: “Se il nostro tasso di occupazione femminile raggiungesse la media europea, il Pil crescerebbe del 7,4%”, sostiene Azzurra Rinaldi, economista, direttrice della School of Gender Economics dell’università “La Sapienza” di Roma. Il ragionamento vale anche guardando al contesto della Ue: “Investire sull’uguaglianza di genere, come documenta l’Istituto europeo per la parità di genere, potrebbe fare aumentare il Pil pro capite in Europa nel 2050 dal 6,1% al 9,6%. Il che vuol dire approssimativamente un guadagno tra 1,95 e 3,15 trilioni di euro”, commenta Linda Laura Sabbadini (la Repubblica, 25 settembre), chiedendosi retoricamente se bastino queste prospettive per “cambiare finalmente strada” ai governi europei e investire sulla parità e il lavoro femminile. Insiste Sabbadini: “Il nostro Paese è ancora prigioniero di una visione miope, non solo perché ingiusta e penalizzante, ma perché frutto di una cultura che non comprende che investire sulla parità di genere significa trainare la crescita economica”.

Altri dati rilevanti vengono dall’Inps che documenta come “le madri sono penalizzate su stipendi e carriere” (la Repubblica, 25 settembre). Il fenomeno, in letteratura economica e sociale si chiama child penalty, per indicare le conseguenze che una maternità ha su lavoro e carriera. Si apre un differenziale con gli uomini, che progrediscono sotto i due aspetti, mentre le madri vivono una condizione di part time e di rallentamento degli avanzamenti professionale. Con un divario che raramente si recupera (circa trenta punti, calcola l’Inps). E con effetti, ovviamente, anche sulle pensioni: l’assegno medio dei pensionati supera del 35% quello delle pensionate.

C’è ancora un altro aspetto, che l’Inps mette in rilievo: la crescente tendenza femminile all’abbandono del lavoro, dopo la nascita di un figlio. Se, prima di quella nascita, la probabilità di lasciare il lavoro è più o meno pari (9% gli uomini, 11% le donne), subito dopo, nell’anno della nascita, il rischio sale al 18% per la madre e comincia a scendere all’8% per il padre. A due anni, il rischio per la madre è ancora alto (14%) e solo dopo il terzo anno si torna in condizione di parità. Naturalmente se si può contare su sostegni familiari e sociali (a cominciare dagli asili nido).

La situazione, naturalmente, si aggrava per le lavoratrici part time.

Una situazione da cambiare radicalmente. Con scelte politiche. Investimenti di welfare. Pari opportunità. E modifiche delle tendenze culturali. Un impegno di sguardo lungo e ampio respiro. Non esattamente quello di cui ci parlano cronache e statistiche.

Non si tratta solo di giustizia e di migliori equilibri sociali. Ma anche di vantaggio in termini di valori e di qualità dello sviluppo. Commenta Marina Beccalli, Università Cattolica: Ci sono moltissimi studi internazionali che documentano come nelle organizzazioni o aziende dov’è maggiore la presenza di donne ci sono meno frodi, comportamenti più etici, un maggiore orientamento alla sostenibilità”.

(foto Getty Images)

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