L’integrazione femminile per lavoro e salari riguarda non solo l’equità ma la democrazia
Servono le ricorrenze, le celebrazioni, gli atti simbolici. Come pubblicare, l’8 marzo, le statistiche che dicono che l’Italia, nonostante significativi progressi, è ancora all’ultimo posto in Europa per percentuale di occupazione femminile, il 53,5% appena di fronte a una media Ue del 69,3% (nel Mezzogiorno, un indecente 34%). E come scolpire la parola “femminicidio” tra i reati più gravi del Codice Penale. Come intitolare una strada a Luana D’Orazio, operaia, stritolata da un orditoio, nel maggio ‘21, in una fabbrica tessile di Montemurlo (Prato) incurante delle norme sulla sicurezza: “È il simbolo di tutte le morti sul lavoro”. Come far notare che aumenta il numero delle rettrici (sono 17, su 85 atenei) con un record per la prima città universitaria italiana, Milano, dove sono donne “le magnifiche” di cinque università (Statale, Politecnico, Bicocca, Cattolica e Iulm) oltre che nelle vicine Liuc di Castellanza, Varese e, probabilmente, Pavia. E come pubblicare inchieste (Il Sole24Ore, 8 marzo, appunto) che documentano “la mappa delle donne ai vertici, dalle istituzioni alla finanza: mai così tante” e sottolineano che a scuola “sono donne otto insegnanti su dieci” e dunque, forse, “la cultura può cambiare”.
È un bene, insomma, tutto questo “incidere sulla pietra parole audaci”, per usare la lezione poetica di Wislawa Szymborska. Dando, però, retta pure a chi, ancora una volta, ammonisce: “Cari uomini, più fatti, meno mimose” (Francesca Paci, su “La Stampa”). E sapendo che “ogni inizio è solo un seguito” (sempre la Nobel polacca) e dunque ci sono battaglie da continuare, conquiste sociali e civili da raggiungere e poi da difendere, valori di eguaglianza e di rispetto da fare diventare sempre più condivisi.
Ricorrenze, memorie, celebrazioni e gesti simbolici, infatti, servono proprio a rafforzare, con la forza del rito, un lungo impegno per dare sostanza concreta ai diritti di parità e di partecipazione, a tradurre, qui in Italia, in pratica corrente il dettato della Costituzione sull’uguaglianza e sull’opportunità di ogni persona a essere cittadino e a fare valere i propri sogni e i propri bisogni legittimi, garantendo, a ogni cambio di generazione, alle ragazze e ai ragazzi che entrano nella vita civile, adeguate opportunità per un migliore futuro.
Importante, dunque, vedere un numero crescente di donne sfondare il “soffitto di cristallo” delle discriminazioni di genere e arrivare ai vertici delle istituzioni, delle associazioni, delle imprese, delle strutture culturali e scientifiche (la legge Golfo-Mosca sulle “quote rosa” ha avuto una positiva funzione di stimolo, per lasciare via via il passo alle scelte di merito). Ma adesso lo sguardo va allargato, per una sempre maggiore parità diffusa. A cominciare dal mondo dell’economia e del lavoro, ma soprattutto da una valutazione politica della necessità di una sempre maggiore e migliore partecipazione femminile a tutti i processi della vita della polis, della cittadinanza attiva e responsabile.
La vita della Repubblica, dopo il buio del fascismo e dell’orrore delle leggi razziali e della guerra, ha un cardine di straordinaria innovazione politica proprio nella presenza attiva delle donne finalmente elettrici ed elette, per il referendum sulla scelta tra repubblica e monarchia e per l’Assemblea Costituente, nel ‘46 (per capire meglio, oltre che rivedere “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi, vale la pena leggere “Le madri della Costituzione” di Eliana Di Caro, edito da IlSole24Ore). Il corpo elettorale coincide con tutta la popolazione in età di voto. Finisce un’incomprensibile e ingiusta discriminazione. Le donne sono a pieno titolo persone portatrici di diritti e doveri.
Nel corso del tempo, attuare la Costituzione ha significato e significa ancora realizzare compiutamente l’articolo 3, che prescrive che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Proprio la verifica sul livello dell’attuazione dell’articolo 3 potrebbe essere un buon parametro per misurare, ogni 8 marzo, non solo il cammino della parità ma anche lo stato di salute della partecipazione democratica alla vita e al futuro dell’Italia.
Un cammino da continuare a seguire, promuovere, costruire.
Le statistiche ISTAT, Inps e Cnel, infatti (“Più istruite, meno pagate”, La Stampa, 7 marzo; “Otto milioni di donne senza lavoro, è il tesoro che stiamo sprecando”, la Repubblica, 7 marzo) documentano che, al di là della parità formale tra salari e carriere, le donne, soprattutto dopo la nascita del primo figlio, camminano in salita. Part time, minore mobilità, ridotta disponibilità a investire sui percorsi di carriera, per farsi carico, più degli uomini, delle responsabilità di famiglia determinano un divario di retribuzioni e possibilità di crescita professionale. E questo gap, spesso, non si recupera più.
Resta, insomma, ancora molto da fare per ridurre e poi eliminare quelle differenze di genere che riguardano il lavoro, la retribuzione, i diritti e perché no? il potere. Un processo positivo utile a determinare migliori equilibri economici e sociali. Come conferma Chiara Saraceno, una delle più autorevoli sociologhe italiane: “Il tasso di crescita delle donne lavoratrici è metà di quello maschile; continua a pesare la maternità. E ridurre il gap di genere non è solo questione di equità, ma di sostenibilità economica del Paese” (La Stampa, 6 marzo).
In un’Italia in preoccupante “inverno demografico” le scelte politiche e di investimento sui temi della partecipazione al lavoro, dei servizi per la famiglia e l’infanzia, della casa, della salute, del sostegno alla formazione e dell’innovazione in senso ampio (appunto economica e sociale e non solo tecnologica) sono determinanti sia dal punto di vista dello sviluppo sostenibile sia, soprattutto, da quello della difesa e della crescita della democrazia. Si torna, dal punto di vista integrato delle donne e degli uomini, all’articolo 3 della Costituzione.
La questione ha una grande rilevanza anche dal punto di vista strettamente economico. “Il modo migliore per avere un’economia forte è sbloccare il pieno potenziale delle donne nella nostra forza lavoro”, scrive Sheryl Sandberg, ex direttrice di Meta (l’impero Facebook e Instagram di Mark Zuckerberg), sul Financial Times (ripreso da Il Foglio, 8 marzo). Una scelta da womenomics, come strategia di crescita. Ma anche un’indicazione non solo sulla quantità, ma soprattutto sulla qualità e dunque pure sull’equità dello sviluppo.
Proprio l’Italia, con la sua particolare cultura d’impresa, ne può fornire significative conferme. Il nostro “umanesimo industriale”, che connota le imprese più competitive sui mercati internazionali e più radicate nella “cultura politecnica” del Paese, tra memoria e innovazione, si fonda sulle sintesi tra saperi umanistici e conoscenze scientifiche. E senza inclusione sarebbe una contraddizione in termini. L’esperienza nella gestione dell’impresa ci dice inoltre che le donne sanno esprimere qualità particolari, fondamentali nella stagione del primato della “economia della conoscenza” e della multidisciplinarietà indispensabile per la gestione dell’Intelligenza Artificiale.
Ragionare, dunque, sul ruolo e sulla responsabilità delle donne significa non soltanto avere in campo competenze per migliorare la condizione sociale generale migliorando quella femminile, ma soprattutto disporre di un universo intellettuale e culturale, di una sensibilità e di una capacità pragmatica alla soluzione dei problemi per quel “cambio di paradigma” generale di cui si parla da tempo e investe l’economia produttiva, la vita civile, la sfera dei diritti e dei doveri, il welfare. In sintesi, appunto, l’insieme della nostra democrazia.
(foto Getty Images)


Servono le ricorrenze, le celebrazioni, gli atti simbolici. Come pubblicare, l’8 marzo, le statistiche che dicono che l’Italia, nonostante significativi progressi, è ancora all’ultimo posto in Europa per percentuale di occupazione femminile, il 53,5% appena di fronte a una media Ue del 69,3% (nel Mezzogiorno, un indecente 34%). E come scolpire la parola “femminicidio” tra i reati più gravi del Codice Penale. Come intitolare una strada a Luana D’Orazio, operaia, stritolata da un orditoio, nel maggio ‘21, in una fabbrica tessile di Montemurlo (Prato) incurante delle norme sulla sicurezza: “È il simbolo di tutte le morti sul lavoro”. Come far notare che aumenta il numero delle rettrici (sono 17, su 85 atenei) con un record per la prima città universitaria italiana, Milano, dove sono donne “le magnifiche” di cinque università (Statale, Politecnico, Bicocca, Cattolica e Iulm) oltre che nelle vicine Liuc di Castellanza, Varese e, probabilmente, Pavia. E come pubblicare inchieste (Il Sole24Ore, 8 marzo, appunto) che documentano “la mappa delle donne ai vertici, dalle istituzioni alla finanza: mai così tante” e sottolineano che a scuola “sono donne otto insegnanti su dieci” e dunque, forse, “la cultura può cambiare”.
È un bene, insomma, tutto questo “incidere sulla pietra parole audaci”, per usare la lezione poetica di Wislawa Szymborska. Dando, però, retta pure a chi, ancora una volta, ammonisce: “Cari uomini, più fatti, meno mimose” (Francesca Paci, su “La Stampa”). E sapendo che “ogni inizio è solo un seguito” (sempre la Nobel polacca) e dunque ci sono battaglie da continuare, conquiste sociali e civili da raggiungere e poi da difendere, valori di eguaglianza e di rispetto da fare diventare sempre più condivisi.
Ricorrenze, memorie, celebrazioni e gesti simbolici, infatti, servono proprio a rafforzare, con la forza del rito, un lungo impegno per dare sostanza concreta ai diritti di parità e di partecipazione, a tradurre, qui in Italia, in pratica corrente il dettato della Costituzione sull’uguaglianza e sull’opportunità di ogni persona a essere cittadino e a fare valere i propri sogni e i propri bisogni legittimi, garantendo, a ogni cambio di generazione, alle ragazze e ai ragazzi che entrano nella vita civile, adeguate opportunità per un migliore futuro.
Importante, dunque, vedere un numero crescente di donne sfondare il “soffitto di cristallo” delle discriminazioni di genere e arrivare ai vertici delle istituzioni, delle associazioni, delle imprese, delle strutture culturali e scientifiche (la legge Golfo-Mosca sulle “quote rosa” ha avuto una positiva funzione di stimolo, per lasciare via via il passo alle scelte di merito). Ma adesso lo sguardo va allargato, per una sempre maggiore parità diffusa. A cominciare dal mondo dell’economia e del lavoro, ma soprattutto da una valutazione politica della necessità di una sempre maggiore e migliore partecipazione femminile a tutti i processi della vita della polis, della cittadinanza attiva e responsabile.
La vita della Repubblica, dopo il buio del fascismo e dell’orrore delle leggi razziali e della guerra, ha un cardine di straordinaria innovazione politica proprio nella presenza attiva delle donne finalmente elettrici ed elette, per il referendum sulla scelta tra repubblica e monarchia e per l’Assemblea Costituente, nel ‘46 (per capire meglio, oltre che rivedere “C’è ancora domani” di Paola Cortellesi, vale la pena leggere “Le madri della Costituzione” di Eliana Di Caro, edito da IlSole24Ore). Il corpo elettorale coincide con tutta la popolazione in età di voto. Finisce un’incomprensibile e ingiusta discriminazione. Le donne sono a pieno titolo persone portatrici di diritti e doveri.
Nel corso del tempo, attuare la Costituzione ha significato e significa ancora realizzare compiutamente l’articolo 3, che prescrive che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Proprio la verifica sul livello dell’attuazione dell’articolo 3 potrebbe essere un buon parametro per misurare, ogni 8 marzo, non solo il cammino della parità ma anche lo stato di salute della partecipazione democratica alla vita e al futuro dell’Italia.
Un cammino da continuare a seguire, promuovere, costruire.
Le statistiche ISTAT, Inps e Cnel, infatti (“Più istruite, meno pagate”, La Stampa, 7 marzo; “Otto milioni di donne senza lavoro, è il tesoro che stiamo sprecando”, la Repubblica, 7 marzo) documentano che, al di là della parità formale tra salari e carriere, le donne, soprattutto dopo la nascita del primo figlio, camminano in salita. Part time, minore mobilità, ridotta disponibilità a investire sui percorsi di carriera, per farsi carico, più degli uomini, delle responsabilità di famiglia determinano un divario di retribuzioni e possibilità di crescita professionale. E questo gap, spesso, non si recupera più.
Resta, insomma, ancora molto da fare per ridurre e poi eliminare quelle differenze di genere che riguardano il lavoro, la retribuzione, i diritti e perché no? il potere. Un processo positivo utile a determinare migliori equilibri economici e sociali. Come conferma Chiara Saraceno, una delle più autorevoli sociologhe italiane: “Il tasso di crescita delle donne lavoratrici è metà di quello maschile; continua a pesare la maternità. E ridurre il gap di genere non è solo questione di equità, ma di sostenibilità economica del Paese” (La Stampa, 6 marzo).
In un’Italia in preoccupante “inverno demografico” le scelte politiche e di investimento sui temi della partecipazione al lavoro, dei servizi per la famiglia e l’infanzia, della casa, della salute, del sostegno alla formazione e dell’innovazione in senso ampio (appunto economica e sociale e non solo tecnologica) sono determinanti sia dal punto di vista dello sviluppo sostenibile sia, soprattutto, da quello della difesa e della crescita della democrazia. Si torna, dal punto di vista integrato delle donne e degli uomini, all’articolo 3 della Costituzione.
La questione ha una grande rilevanza anche dal punto di vista strettamente economico. “Il modo migliore per avere un’economia forte è sbloccare il pieno potenziale delle donne nella nostra forza lavoro”, scrive Sheryl Sandberg, ex direttrice di Meta (l’impero Facebook e Instagram di Mark Zuckerberg), sul Financial Times (ripreso da Il Foglio, 8 marzo). Una scelta da womenomics, come strategia di crescita. Ma anche un’indicazione non solo sulla quantità, ma soprattutto sulla qualità e dunque pure sull’equità dello sviluppo.
Proprio l’Italia, con la sua particolare cultura d’impresa, ne può fornire significative conferme. Il nostro “umanesimo industriale”, che connota le imprese più competitive sui mercati internazionali e più radicate nella “cultura politecnica” del Paese, tra memoria e innovazione, si fonda sulle sintesi tra saperi umanistici e conoscenze scientifiche. E senza inclusione sarebbe una contraddizione in termini. L’esperienza nella gestione dell’impresa ci dice inoltre che le donne sanno esprimere qualità particolari, fondamentali nella stagione del primato della “economia della conoscenza” e della multidisciplinarietà indispensabile per la gestione dell’Intelligenza Artificiale.
Ragionare, dunque, sul ruolo e sulla responsabilità delle donne significa non soltanto avere in campo competenze per migliorare la condizione sociale generale migliorando quella femminile, ma soprattutto disporre di un universo intellettuale e culturale, di una sensibilità e di una capacità pragmatica alla soluzione dei problemi per quel “cambio di paradigma” generale di cui si parla da tempo e investe l’economia produttiva, la vita civile, la sfera dei diritti e dei doveri, il welfare. In sintesi, appunto, l’insieme della nostra democrazia.
(foto Getty Images)