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L’Italia è un grande paese industriale, ma gli italiani non lo sanno e preferiscono pensare al turismo

Siamo il secondo paese industriale europeo, subito dopo la Germania. Ma gli italiani non lo sanno. In alcuni settori d’eccellenza (la meccatronica e la robotica, la chimica fine, la farmaceutica d’alta specialità, le componentistica auto, la cantieristica navale da diporto, etc.) abbiamo posizioni da primato internazionale, ma per gran parte della nostra opinione pubblica è innanzitutto il turismo ad assicurare la ricchezza dei territori. Siamo tra i cinque maggiori paesi esportatori del mondo, proprio grazie all’industria e a quella meccanica in prima linea, ma i cittadini per il futuro confidano negli alberghi e nelle opportunità del commercio, nello shopping. “Dissonanza cognitiva”, è il nome di questo fenomeno, un’opinione che fa a pugni con la realtà di fatti e dati. Detta in altri termini, l’Italia non sa bene chi è e come si produce la sua ricchezza e dunque non ha una fondata idea di dove andare.

Sono queste le considerazioni che vengono in mente leggendo i dati dell’ultimo “Monitor sul lavoro” (Mol Community Research & Analysis) per Federmeccanica, di cui dà conto Daniele Marini su Il Sole24Ore (15 novembre) commentando: “L’industria scivola ai margini dell’immaginario collettivo, occupa un ruolo periferico nella rappresentazione sociale dello sviluppo”.

Un vero guaio, questa “dissonanza cognitiva”. Perché la Ue (e dunque anche l’Italia) è nel cuore di una stagione di passaggio e di radicali trasformazioni, stretta tra la pesante competizione politica ed economica tra gli Usa dell’era “Maga” di Trump e la Cina in espansione (mentre all’orizzonte si intravvedere, crescente, anche l’ombra dell’India). E per poter reggere la concorrenza e salvaguardare il suo prezioso modello politico-sociale (che tiene insieme, in modo originale, la democrazia liberale, l’economia di mercato costruita sull’intraprendenza individuale e i sistemi di welfare, con diffuso benessere) ha bisogno di una nuova e ambiziosa svolta di politica economica e, appunto, di politica industriale.

Ecco il punto: l’Europa può continuare a restare ancorata ai suoi valori e alla sua cultura civile se mantiene una forza industriale di peso e respiro globale. Se, cioè, affronta la transizione ambientale e digitale, insistendo sull’industria green, in cui peraltro vanta primati produttivi di alto livello. E se dunque investe sulle nuove tecnologie (infrastrutture, ricerca, processi di conoscenza e formazione) e sull’impiego ben strutturato e guidato dell’Intelligenza Artificiale, con quegli 800 o anche 1.000 miliardi all’anno per il prossimo decennio secondo le indicazioni del Rapporto Draghi.

Serve insistere sull’industria, insomma, anche in nome della nostra democrazia. Puntare ad avere “più Europa e un’Europa migliore”, nonostante tutto. Ed evitare il precipizio indicato alcune settimane fa dal “Financial Times”: perdere la sfida competitiva con Usa e Cina e ridursi a essere “il Grand Hotel dei ricchi e potenti del mondo”. Un luogo di storica eleganza. Ma privo di peso e potere. Incapace di decidere sul suo futuro.

È necessario parlare di industria, allora. E impegnarsi a fondo per ribaltare, in un tempo breve, le opinioni di quegli italiani che, appunto secondo il “Monitor sul lavoro” di Federmeccanica, pensano che sia la Germania il paese con maggior peso industriale sull’economia, seguita da Francia e Gran Bretagna (l’Italia è appena quarta, con il 12,4% dei pareri del sondaggio) e ritengono (nel 27,7% dei casi) che il settore che fino a oggi ha più contribuito allo sviluppo del territorio sia il turismo, seguito dall’industria (17,4%), dal commercio (15,4%), dall’agricoltura (14,9%) e poi via via da artigianato, costruzioni, banche e pubblica amministrazione. E per il futuro? Il turismo sale al 30,5% e il commercio al 16% mentre l’industria cala al terzo posto, con il 15,7% dei pareri.

Viene da lontano, questo fenomeno di sottovalutazione del peso industriale. Da una diffusa cultura anti-impresa, ostile al mercato, alla fabbrica ma anche alla tecnologia e alla scienza (per averne documentata consapevolezza vale la pena leggere “La modernità malintesa – Una controstoria dell’industria italiana” di Giuseppe Lupo, edito da Marsilio). Da una disattenzione culturale verso i fenomeni del lavoro industriale, visto durante gli anni Sessanta e Settanta, soprattutto, dal punto di vista del conflitto sindacale e sociale e non anche da quello della modernizzazione positiva. Da una ritrosia del mondo dell’impresa stessa ad aprirsi e a raccontarsi (“siamo gente del fare, non del parlare”, era un ritornello distorcente caro a molti uomini d’industria). Ma anche da un’opinione pubblica incline ai luoghi comuni anti-industriali e segnata da un evidente deficit informativo. E da una tendenza, ben radicata in ambienti economici ed accademici, a insistere sul tramonto dell’industria alla fine del Novecento, per cedere il passo al “terziario avanzato” e alla finanza.

Dati e fatti, soprattutto dopo la Grande Crisi finanziaria del 2008, hanno smentito queste false costruzioni di un immaginario distorto e ridato invece importanza all’economia reale. E l’Italia è cresciuta, più e meglio di altre aree europee, negli anni post Covid, proprio grazie al suo “orgoglio industriale”, investendo, innovando, insistendo sulla green economy e sulla sostenibilità, ambientale e sociale, non come scelta furba di comunicazione ma come un vero e proprio “cambio di paradigma” produttivo, facendone un asset di competitività e di qualità sui mercati.

Eccola, dunque, la realtà dell’Italia industriale ad alta tecnologia e sofisticata qualità (la mostra su “L’Italia dei brevetti – Invenzioni e innovazione di successo” che è stata inaugurata ieri a Roma, a Palazzo Piacentini, sede del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, ne dà una riprova).

Il passaggio da fare, per cercare di superare la “dissonanza cognitiva” di cui abbiamo parlato e dare all’Italia un ruolo di primo piano per il futuro industriale della Ue, è anche quello di affiancare al “saper fare” il “far sapere” e raccontare, soprattutto alle nuove generazioni, l’importanza del lavoro industriale, della fabbrica high tech innervata da servizi tecnologici, dei laboratori di scienza e ricerca.

Lo conferma il tema scelto per la Settimana della Cultura d’Impresa, dal 14 al 28 novembre, organizzata da Confindustria e Museimpresa, per parlare di “Intelligenza Artificiale, arte e cultura per il rilancio dell’impresa”. Un tema molto netto: “Mani che pensano”. Le mani e cioè la centralità della manifattura, dell’impresa che sa fare “cose belle che piacciono al mondo”, per ripetere l’efficace sintesi di Carlo Maria Cipolla. E, accanto alla sapienza d’origine artigiana che nutre anche la più sofisticata neo-fabbrica, ecco “il pensiero” e cioè la conoscenza, la ricerca, la sperimentazione originale di nuovi e migliori paradigmi produttivi, economici e sociali. Indispensabili in tempi di così radicali mutazioni tecnologiche, di sconvolgenti transizioni digitali e ambientali. Dense di rischi e di opportunità di cambiamento positivo.

Arrivata alla sua 23° edizione, la Settimana della cultura d’impresa conta oltre un centinaia di iniziative, in tutta Italia, in gran parte nei musei e negli archivi storici delle imprese (dibattiti, incontri, visite guidate di studenti e professori, mostre, festival di letteratura e video, come il Made Film Festival di Bergamo sul cinema d’impresa, concluso sabato, etc.). E mira, ogni anno con maggior impegno, a rendere l’impresa “popolare”, positiva e creativa, controbattendo a quei sentimenti ostili o comunque diffidenti verso l’impresa, di cui abbiamo detto.

Fabbriche aperte, dunque. E dialoganti. Le Settimane della Cultura d’impresa raccontano come e quanto le industrie siano, certo, attori produttivi ma anche sociali e culturali. Luoghi fisici e mentali dove il passato e il futuro s’incontrano, la memoria fa da cardine dell’innovazione, la competitività si lega all’inclusione sociale. E il valore economico si raggiunge e si mantiene grazie proprio all’attenzione ai valori morali e sociali, ai diritti e ai legittimi interessi degli stakeholders. Una cultura radicata nella storia di ogni impresa che ne avverta l’essenzialità. E un impegno per le scelte sulla sostenibilità, sulla qualità del lavoro e sul benessere delle persone. Con un’attenzione crescente contro tutte le discriminazioni, a cominciare da quelle di genere, le violenze, le alterazioni dei valori civili di una comunità.

Tutto questo, è vero, non basta ad avere rapidamente ragione di quella “dissonanza cognitiva” da cui è partito questo nostro ragionamento. Servono scelte politiche sul primato della politica industriale e delle capacità produttive. Impegni culturali (fare diventare la cultura d’impresa cardine della conoscenza dell’importanza delle culture materiali: un suggerimento per il nuovo ministro Giuli). Attività educative sull’importanza del lavoro. E sfide per i soggetti della cultura e della comunicazione, per andare al di là dello stereotipo della fabbrica fordista “brutta, sporca e cattiva”.

Sfide essenziali. Anche per evitare che la mancata conoscenza dell’Italia industriale alimenti quelle disattenzioni, quelle false percezioni della realtà che contribuirebbero ai rischi di declino economico e dunque sociale e civile del nostro Paese.

Siamo il secondo paese industriale europeo, subito dopo la Germania. Ma gli italiani non lo sanno. In alcuni settori d’eccellenza (la meccatronica e la robotica, la chimica fine, la farmaceutica d’alta specialità, le componentistica auto, la cantieristica navale da diporto, etc.) abbiamo posizioni da primato internazionale, ma per gran parte della nostra opinione pubblica è innanzitutto il turismo ad assicurare la ricchezza dei territori. Siamo tra i cinque maggiori paesi esportatori del mondo, proprio grazie all’industria e a quella meccanica in prima linea, ma i cittadini per il futuro confidano negli alberghi e nelle opportunità del commercio, nello shopping. “Dissonanza cognitiva”, è il nome di questo fenomeno, un’opinione che fa a pugni con la realtà di fatti e dati. Detta in altri termini, l’Italia non sa bene chi è e come si produce la sua ricchezza e dunque non ha una fondata idea di dove andare.

Sono queste le considerazioni che vengono in mente leggendo i dati dell’ultimo “Monitor sul lavoro” (Mol Community Research & Analysis) per Federmeccanica, di cui dà conto Daniele Marini su Il Sole24Ore (15 novembre) commentando: “L’industria scivola ai margini dell’immaginario collettivo, occupa un ruolo periferico nella rappresentazione sociale dello sviluppo”.

Un vero guaio, questa “dissonanza cognitiva”. Perché la Ue (e dunque anche l’Italia) è nel cuore di una stagione di passaggio e di radicali trasformazioni, stretta tra la pesante competizione politica ed economica tra gli Usa dell’era “Maga” di Trump e la Cina in espansione (mentre all’orizzonte si intravvedere, crescente, anche l’ombra dell’India). E per poter reggere la concorrenza e salvaguardare il suo prezioso modello politico-sociale (che tiene insieme, in modo originale, la democrazia liberale, l’economia di mercato costruita sull’intraprendenza individuale e i sistemi di welfare, con diffuso benessere) ha bisogno di una nuova e ambiziosa svolta di politica economica e, appunto, di politica industriale.

Ecco il punto: l’Europa può continuare a restare ancorata ai suoi valori e alla sua cultura civile se mantiene una forza industriale di peso e respiro globale. Se, cioè, affronta la transizione ambientale e digitale, insistendo sull’industria green, in cui peraltro vanta primati produttivi di alto livello. E se dunque investe sulle nuove tecnologie (infrastrutture, ricerca, processi di conoscenza e formazione) e sull’impiego ben strutturato e guidato dell’Intelligenza Artificiale, con quegli 800 o anche 1.000 miliardi all’anno per il prossimo decennio secondo le indicazioni del Rapporto Draghi.

Serve insistere sull’industria, insomma, anche in nome della nostra democrazia. Puntare ad avere “più Europa e un’Europa migliore”, nonostante tutto. Ed evitare il precipizio indicato alcune settimane fa dal “Financial Times”: perdere la sfida competitiva con Usa e Cina e ridursi a essere “il Grand Hotel dei ricchi e potenti del mondo”. Un luogo di storica eleganza. Ma privo di peso e potere. Incapace di decidere sul suo futuro.

È necessario parlare di industria, allora. E impegnarsi a fondo per ribaltare, in un tempo breve, le opinioni di quegli italiani che, appunto secondo il “Monitor sul lavoro” di Federmeccanica, pensano che sia la Germania il paese con maggior peso industriale sull’economia, seguita da Francia e Gran Bretagna (l’Italia è appena quarta, con il 12,4% dei pareri del sondaggio) e ritengono (nel 27,7% dei casi) che il settore che fino a oggi ha più contribuito allo sviluppo del territorio sia il turismo, seguito dall’industria (17,4%), dal commercio (15,4%), dall’agricoltura (14,9%) e poi via via da artigianato, costruzioni, banche e pubblica amministrazione. E per il futuro? Il turismo sale al 30,5% e il commercio al 16% mentre l’industria cala al terzo posto, con il 15,7% dei pareri.

Viene da lontano, questo fenomeno di sottovalutazione del peso industriale. Da una diffusa cultura anti-impresa, ostile al mercato, alla fabbrica ma anche alla tecnologia e alla scienza (per averne documentata consapevolezza vale la pena leggere “La modernità malintesa – Una controstoria dell’industria italiana” di Giuseppe Lupo, edito da Marsilio). Da una disattenzione culturale verso i fenomeni del lavoro industriale, visto durante gli anni Sessanta e Settanta, soprattutto, dal punto di vista del conflitto sindacale e sociale e non anche da quello della modernizzazione positiva. Da una ritrosia del mondo dell’impresa stessa ad aprirsi e a raccontarsi (“siamo gente del fare, non del parlare”, era un ritornello distorcente caro a molti uomini d’industria). Ma anche da un’opinione pubblica incline ai luoghi comuni anti-industriali e segnata da un evidente deficit informativo. E da una tendenza, ben radicata in ambienti economici ed accademici, a insistere sul tramonto dell’industria alla fine del Novecento, per cedere il passo al “terziario avanzato” e alla finanza.

Dati e fatti, soprattutto dopo la Grande Crisi finanziaria del 2008, hanno smentito queste false costruzioni di un immaginario distorto e ridato invece importanza all’economia reale. E l’Italia è cresciuta, più e meglio di altre aree europee, negli anni post Covid, proprio grazie al suo “orgoglio industriale”, investendo, innovando, insistendo sulla green economy e sulla sostenibilità, ambientale e sociale, non come scelta furba di comunicazione ma come un vero e proprio “cambio di paradigma” produttivo, facendone un asset di competitività e di qualità sui mercati.

Eccola, dunque, la realtà dell’Italia industriale ad alta tecnologia e sofisticata qualità (la mostra su “L’Italia dei brevetti – Invenzioni e innovazione di successo” che è stata inaugurata ieri a Roma, a Palazzo Piacentini, sede del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, ne dà una riprova).

Il passaggio da fare, per cercare di superare la “dissonanza cognitiva” di cui abbiamo parlato e dare all’Italia un ruolo di primo piano per il futuro industriale della Ue, è anche quello di affiancare al “saper fare” il “far sapere” e raccontare, soprattutto alle nuove generazioni, l’importanza del lavoro industriale, della fabbrica high tech innervata da servizi tecnologici, dei laboratori di scienza e ricerca.

Lo conferma il tema scelto per la Settimana della Cultura d’Impresa, dal 14 al 28 novembre, organizzata da Confindustria e Museimpresa, per parlare di “Intelligenza Artificiale, arte e cultura per il rilancio dell’impresa”. Un tema molto netto: “Mani che pensano”. Le mani e cioè la centralità della manifattura, dell’impresa che sa fare “cose belle che piacciono al mondo”, per ripetere l’efficace sintesi di Carlo Maria Cipolla. E, accanto alla sapienza d’origine artigiana che nutre anche la più sofisticata neo-fabbrica, ecco “il pensiero” e cioè la conoscenza, la ricerca, la sperimentazione originale di nuovi e migliori paradigmi produttivi, economici e sociali. Indispensabili in tempi di così radicali mutazioni tecnologiche, di sconvolgenti transizioni digitali e ambientali. Dense di rischi e di opportunità di cambiamento positivo.

Arrivata alla sua 23° edizione, la Settimana della cultura d’impresa conta oltre un centinaia di iniziative, in tutta Italia, in gran parte nei musei e negli archivi storici delle imprese (dibattiti, incontri, visite guidate di studenti e professori, mostre, festival di letteratura e video, come il Made Film Festival di Bergamo sul cinema d’impresa, concluso sabato, etc.). E mira, ogni anno con maggior impegno, a rendere l’impresa “popolare”, positiva e creativa, controbattendo a quei sentimenti ostili o comunque diffidenti verso l’impresa, di cui abbiamo detto.

Fabbriche aperte, dunque. E dialoganti. Le Settimane della Cultura d’impresa raccontano come e quanto le industrie siano, certo, attori produttivi ma anche sociali e culturali. Luoghi fisici e mentali dove il passato e il futuro s’incontrano, la memoria fa da cardine dell’innovazione, la competitività si lega all’inclusione sociale. E il valore economico si raggiunge e si mantiene grazie proprio all’attenzione ai valori morali e sociali, ai diritti e ai legittimi interessi degli stakeholders. Una cultura radicata nella storia di ogni impresa che ne avverta l’essenzialità. E un impegno per le scelte sulla sostenibilità, sulla qualità del lavoro e sul benessere delle persone. Con un’attenzione crescente contro tutte le discriminazioni, a cominciare da quelle di genere, le violenze, le alterazioni dei valori civili di una comunità.

Tutto questo, è vero, non basta ad avere rapidamente ragione di quella “dissonanza cognitiva” da cui è partito questo nostro ragionamento. Servono scelte politiche sul primato della politica industriale e delle capacità produttive. Impegni culturali (fare diventare la cultura d’impresa cardine della conoscenza dell’importanza delle culture materiali: un suggerimento per il nuovo ministro Giuli). Attività educative sull’importanza del lavoro. E sfide per i soggetti della cultura e della comunicazione, per andare al di là dello stereotipo della fabbrica fordista “brutta, sporca e cattiva”.

Sfide essenziali. Anche per evitare che la mancata conoscenza dell’Italia industriale alimenti quelle disattenzioni, quelle false percezioni della realtà che contribuirebbero ai rischi di declino economico e dunque sociale e civile del nostro Paese.

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