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Milano vive di mercato e innovazione ma ha bisogno anche di buona politica

“D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”, scriveva Italo Calvino nelle pagine de “Le città invisibili”, considerato come “un ultimo poema d’amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città”. Era il 1972, inizio d’una stagione difficile e controversa, di violenze terroristiche e criminali (gli “anni di piombo”, appunto) ma anche di tensioni politiche e sociali, di speranze e di riforme (lo Statuto dei lavoratori, la nascita del Servizio Sanitario Nazionale, le leggi sul divorzio e sull’aborto, l’abolizione dei manicomi e tanto altro ancora). E l’Italia, dopo la fine del boom economico dei Roaring Sixties, provava a fare i conti con una modernità quanto mai carica di ombre e contrasti. Cambiavano consumi e costumi, restavano insuperati parecchi vizi nazionali, a cominciare dal carente senso civico diffuso. Le città, di tanto e tale travaglio, erano il punto di condensa maggiore, l’immagine più evidente. “Difficile viverle”, appunto. E indispensabile, semmai, nel corso del tempo, “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Le parole di Calvino, sapiente e dolente profeta, come ogni vero poeta, tornano in mente proprio in questi giorni in cui si torna a ragionare sull’attualità e sul futuro di Milano, dividendosi tra la soddisfazione per le novità che continuano ad arrivare (la preparazione delle Olimpiadi Milano-Cortina 2026, la conclusione del restauro d’un simbolo come Torre Velasca, l’avvio del Piano Casa del Comune per 10mila nuovi alloggi a basso prezzo, i progetti immobiliari su San Cristoforo e Scalo Farini, tanto per fare solo pochi esempi) e le preoccupazioni per i problemi irrisolti. L’obiettivo è capire come fare fronte alle “Urgenze di Milano”, come recita il tema dell’ultima riunione del Centro Studi Grande Milano, presieduto da Daniela Mainini e convocato, con ampia partecipazione di studiosi e protagonisti della vita economica, culturale e sociale, in una sala della Triennale, proprio accanto agli spazi in cui è stata allestita la grande mostra internazionale su “Shapes of Inequalities”.

Ecco il punto, la domanda cui calvinianamente Milano deve provare finalmente a rispondere: come riprodurre la sua storica capacità d’essere, contemporaneamente, produttiva e solidale, competitiva e socialmente inclusiva, come costruire, insomma, ricchezza ma anche coesione sociale. Perché i divari economici, culturali, geopolitici, generazionali e cognitivi – le “Inequalities” della mostra in Triennale – aumentano e diventano sempre più intollerabili. E dunque sono necessarie scelte strategiche per evitare fratture che, anche qui in Italia e nelle altre società occidentali, mettano in crisi le relazioni tra democrazia, economia di mercato e welfare e alterino profondamente gli equilibri tra libertà, intraprendenza e benessere. Per poter continuare, insomma, a essere, anche nei nostri tempi incerti e laceranti, “liberi e uguali”, usando i termini del “Manifesto per una società giusta” scritto da Daniel Chandler, economista e filosofo della London School of Economics (il libro è stato appena pubblicato da Laterza, “un saggio lucido e importante”, secondo Amartya Sen, premio Nobel per l’economia).

Che risposte? Né la nostalgia canaglia né il malinconico amarcord di quando si era “con il cuore in mano”. Né l’arroganza del successo né il vanto di lavorare e produrre, sempre, nonostante tutto. Né l’esasperazione della paura per l’insicurezza (i reati di sangue e le rapine sono diminuite e c’è ancora chi ha memoria di quando, proprio negli anni Settanta, a parte il terrorismo e le stragi, le sparatorie tra le bande criminali di Turatello, Vallanzasca ed Epaminonda dominavano i giorni e le notti della città) né l’indifferenza per il disagio sociale nelle periferie e per la giusta preoccupazione per la microcriminalità e le truffe agli anziani.

Milano è città di contraddizioni, perché “contiene moltitudini”. E per affrontarle ha bisogno di intelligenza progettuale e di buona cultura, economica, politica e amministrativa. Facendo tesoro, per esempio, della lezione di Lewis Mumford, uno dei maggiori sociologhi del Novecento, quando distingueva tra “l’utopia della fuga” (costruire castelli in aria, lasciandosi il mondo com’è) e “l’utopia della ricostruzione”, il pensiero positivo per immaginare e trovare strumenti e metodi per dare vita al futuro.

Torniamo, così, alla Torre Velasca. Simbolo della Milano dinamica e innovativa degli anni Cinquanta e Sessanta, anche se all’inizio poco amata da tanti milanesi (“il grattacielo con le bretelle”, la chiamavano) torna, dopo anni di restauro, a occupare i primi posti della classifica del lusso, proprietà della Hines americana, 26 piani di uffici e appartamenti. E si apre su un’area pedonale molto curata, di fronte al palazzo dell’Assolombarda progettato da Gio Ponti e da poco rimesso a nuovo, ben collegato al solenne edificio rinascimentale della Ca’ Granda in via Festa del Perdono, sede dell’Università Statale. Eccola, dunque, in uno spazio urbano particolare, la Milano della storia e dell’innovazione, della grande architettura e dell’impresa, del benessere visibile e della più raffinata economia della conoscenza.

Ma Milano è anche molto altro. Sia le “mille luci” vistose dei nuovi ricchi internazionali attratti dalla Milano post Expo considerata come The place to be e degli eventi modaioli. Sia il disagio abitativo di decine di migliaia di persone del ceto medio che non sono in grado di fare fronte al boom dei valori immobiliari. Un contrasto da cui uscire. Con scelte politiche e di buona amministrazione.

Milano è infatti metropoli forte d’una robusta cultura d’impresa e di mercato e non può non continuare a essere tale. Ma non deve essere lasciata solo alle dinamiche di mercato, pena il suo degrado in una “città dei ricchi” che espelle giovani, studiosi, imprenditori alle prime mosse, ricercatori, ma anche tranvieri, impiegati e medi dirigenti delle imprese e delle banche, professori di liceo, commercianti estranei alle dinamiche del lusso ma indispensabili alla vita quotidiana.

Rischia, insomma, di continuare a perdere cives, cittadini attenti alle dinamiche positive della vita quotidiana per seguire mode e ritmi dei city users. Abdica alla sua anima. E al suo complesso “capitale sociale” forte di diversità di provenienze, caratteri e aspirazioni ma anche di un solido senso di appartenenza.

È una buona notizia, dunque, il Piano Casa annunciato dal Comune guidato dal sindaco Beppe Sala, per 10mila case a basso costo, nell’arco dei prossimi dieci anni. Le prime 24 offerte per le aree su cui costruire sono già arrivate (Il Sole24Ore, 29 maggio). Nel mondo immobiliare, oltre che i grandi fondi internazionali, si presentano nuovi protagonisti dell’edilizia abitativa più popolare.

Le discussioni in corso sulle “urgenze” per il rilancio della città, da considerare nella sua dimensione “grande”, metropolitana, interconnessa con altre metropoli (Torino, Bologna) e città medie e medio-grandi (Brescia, Bergamo, Verona, Pavia, etc) vanno avanti. Si apprezza la capacità di Milano d’essere molto critica, autocritica e comunque capace di ripresa di fronte alle crisi (dopo la fine del boom, poi dopo gli anni di piombo e ancora dopo la tempesta di Tangentopoli, con la fine del mito della “capitale morale”. E si fa il conto sulle risorse disponibili: l’attrattività ancora viva per persone, idee e capitali; la diffusione della “economia della conoscenza” grazie anche alle sue università di crescente prestigio europeo e internazionale; una intraprendenza diffusa nelle relazioni tra città e territori industriali collegati. E la solidità delle sue virtù civili, antiche e contemporanee.

Sarebbe importante che di questi temi si occupassero con senso di responsabilità anche le forze politiche, in vista delle elezioni per il nuovo sindaco in calendario nel ‘27. Parlando dunque non di persone da candidare per vincere né di giochi di equilibro tra partiti e correnti, ma di come affrontare e cercare di risolvere temi veri, dallo sviluppo equilibrato alla sicurezza, dai rapporti con l’Europa al peso sulla vita nazionale, dalla qualità della vita all’invecchiamento crescente e alle solitudini (i cittadini con più di 60 anni sono il 28% della popolazione contro il 21% della media nazionale e il 56,7% delle famiglie sono composte da una sola persona), dalle nuove povertà alle domande di futuro giustamente poste dalle nuove generazioni che continuano a guardare a Milano con attenzione e speranza.

Rieccoci dunque tornati a Calvino e alle qualità necessarie d’una città, coniugare sicurezza e ricerca di felicità, crescita e sostenibilità, esigenze individuali e valori generali, pragmatismo e sguardo lungo sul futuro. Milano, nel passato anche recente, grazie al buon lavoro dei suoi sindaci, un impasto virtuoso di riformismo, sapienza politica e capacità amministrative, c’è riuscita. Vale la pena ripensarne e ripeterne la lezione.

(foto Getty Images)

“D’una città non godi le sette o le settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”, scriveva Italo Calvino nelle pagine de “Le città invisibili”, considerato come “un ultimo poema d’amore alle città, nel momento in cui diventa sempre più difficile viverle come città”. Era il 1972, inizio d’una stagione difficile e controversa, di violenze terroristiche e criminali (gli “anni di piombo”, appunto) ma anche di tensioni politiche e sociali, di speranze e di riforme (lo Statuto dei lavoratori, la nascita del Servizio Sanitario Nazionale, le leggi sul divorzio e sull’aborto, l’abolizione dei manicomi e tanto altro ancora). E l’Italia, dopo la fine del boom economico dei Roaring Sixties, provava a fare i conti con una modernità quanto mai carica di ombre e contrasti. Cambiavano consumi e costumi, restavano insuperati parecchi vizi nazionali, a cominciare dal carente senso civico diffuso. Le città, di tanto e tale travaglio, erano il punto di condensa maggiore, l’immagine più evidente. “Difficile viverle”, appunto. E indispensabile, semmai, nel corso del tempo, “cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.

Le parole di Calvino, sapiente e dolente profeta, come ogni vero poeta, tornano in mente proprio in questi giorni in cui si torna a ragionare sull’attualità e sul futuro di Milano, dividendosi tra la soddisfazione per le novità che continuano ad arrivare (la preparazione delle Olimpiadi Milano-Cortina 2026, la conclusione del restauro d’un simbolo come Torre Velasca, l’avvio del Piano Casa del Comune per 10mila nuovi alloggi a basso prezzo, i progetti immobiliari su San Cristoforo e Scalo Farini, tanto per fare solo pochi esempi) e le preoccupazioni per i problemi irrisolti. L’obiettivo è capire come fare fronte alle “Urgenze di Milano”, come recita il tema dell’ultima riunione del Centro Studi Grande Milano, presieduto da Daniela Mainini e convocato, con ampia partecipazione di studiosi e protagonisti della vita economica, culturale e sociale, in una sala della Triennale, proprio accanto agli spazi in cui è stata allestita la grande mostra internazionale su “Shapes of Inequalities”.

Ecco il punto, la domanda cui calvinianamente Milano deve provare finalmente a rispondere: come riprodurre la sua storica capacità d’essere, contemporaneamente, produttiva e solidale, competitiva e socialmente inclusiva, come costruire, insomma, ricchezza ma anche coesione sociale. Perché i divari economici, culturali, geopolitici, generazionali e cognitivi – le “Inequalities” della mostra in Triennale – aumentano e diventano sempre più intollerabili. E dunque sono necessarie scelte strategiche per evitare fratture che, anche qui in Italia e nelle altre società occidentali, mettano in crisi le relazioni tra democrazia, economia di mercato e welfare e alterino profondamente gli equilibri tra libertà, intraprendenza e benessere. Per poter continuare, insomma, a essere, anche nei nostri tempi incerti e laceranti, “liberi e uguali”, usando i termini del “Manifesto per una società giusta” scritto da Daniel Chandler, economista e filosofo della London School of Economics (il libro è stato appena pubblicato da Laterza, “un saggio lucido e importante”, secondo Amartya Sen, premio Nobel per l’economia).

Che risposte? Né la nostalgia canaglia né il malinconico amarcord di quando si era “con il cuore in mano”. Né l’arroganza del successo né il vanto di lavorare e produrre, sempre, nonostante tutto. Né l’esasperazione della paura per l’insicurezza (i reati di sangue e le rapine sono diminuite e c’è ancora chi ha memoria di quando, proprio negli anni Settanta, a parte il terrorismo e le stragi, le sparatorie tra le bande criminali di Turatello, Vallanzasca ed Epaminonda dominavano i giorni e le notti della città) né l’indifferenza per il disagio sociale nelle periferie e per la giusta preoccupazione per la microcriminalità e le truffe agli anziani.

Milano è città di contraddizioni, perché “contiene moltitudini”. E per affrontarle ha bisogno di intelligenza progettuale e di buona cultura, economica, politica e amministrativa. Facendo tesoro, per esempio, della lezione di Lewis Mumford, uno dei maggiori sociologhi del Novecento, quando distingueva tra “l’utopia della fuga” (costruire castelli in aria, lasciandosi il mondo com’è) e “l’utopia della ricostruzione”, il pensiero positivo per immaginare e trovare strumenti e metodi per dare vita al futuro.

Torniamo, così, alla Torre Velasca. Simbolo della Milano dinamica e innovativa degli anni Cinquanta e Sessanta, anche se all’inizio poco amata da tanti milanesi (“il grattacielo con le bretelle”, la chiamavano) torna, dopo anni di restauro, a occupare i primi posti della classifica del lusso, proprietà della Hines americana, 26 piani di uffici e appartamenti. E si apre su un’area pedonale molto curata, di fronte al palazzo dell’Assolombarda progettato da Gio Ponti e da poco rimesso a nuovo, ben collegato al solenne edificio rinascimentale della Ca’ Granda in via Festa del Perdono, sede dell’Università Statale. Eccola, dunque, in uno spazio urbano particolare, la Milano della storia e dell’innovazione, della grande architettura e dell’impresa, del benessere visibile e della più raffinata economia della conoscenza.

Ma Milano è anche molto altro. Sia le “mille luci” vistose dei nuovi ricchi internazionali attratti dalla Milano post Expo considerata come The place to be e degli eventi modaioli. Sia il disagio abitativo di decine di migliaia di persone del ceto medio che non sono in grado di fare fronte al boom dei valori immobiliari. Un contrasto da cui uscire. Con scelte politiche e di buona amministrazione.

Milano è infatti metropoli forte d’una robusta cultura d’impresa e di mercato e non può non continuare a essere tale. Ma non deve essere lasciata solo alle dinamiche di mercato, pena il suo degrado in una “città dei ricchi” che espelle giovani, studiosi, imprenditori alle prime mosse, ricercatori, ma anche tranvieri, impiegati e medi dirigenti delle imprese e delle banche, professori di liceo, commercianti estranei alle dinamiche del lusso ma indispensabili alla vita quotidiana.

Rischia, insomma, di continuare a perdere cives, cittadini attenti alle dinamiche positive della vita quotidiana per seguire mode e ritmi dei city users. Abdica alla sua anima. E al suo complesso “capitale sociale” forte di diversità di provenienze, caratteri e aspirazioni ma anche di un solido senso di appartenenza.

È una buona notizia, dunque, il Piano Casa annunciato dal Comune guidato dal sindaco Beppe Sala, per 10mila case a basso costo, nell’arco dei prossimi dieci anni. Le prime 24 offerte per le aree su cui costruire sono già arrivate (Il Sole24Ore, 29 maggio). Nel mondo immobiliare, oltre che i grandi fondi internazionali, si presentano nuovi protagonisti dell’edilizia abitativa più popolare.

Le discussioni in corso sulle “urgenze” per il rilancio della città, da considerare nella sua dimensione “grande”, metropolitana, interconnessa con altre metropoli (Torino, Bologna) e città medie e medio-grandi (Brescia, Bergamo, Verona, Pavia, etc) vanno avanti. Si apprezza la capacità di Milano d’essere molto critica, autocritica e comunque capace di ripresa di fronte alle crisi (dopo la fine del boom, poi dopo gli anni di piombo e ancora dopo la tempesta di Tangentopoli, con la fine del mito della “capitale morale”. E si fa il conto sulle risorse disponibili: l’attrattività ancora viva per persone, idee e capitali; la diffusione della “economia della conoscenza” grazie anche alle sue università di crescente prestigio europeo e internazionale; una intraprendenza diffusa nelle relazioni tra città e territori industriali collegati. E la solidità delle sue virtù civili, antiche e contemporanee.

Sarebbe importante che di questi temi si occupassero con senso di responsabilità anche le forze politiche, in vista delle elezioni per il nuovo sindaco in calendario nel ‘27. Parlando dunque non di persone da candidare per vincere né di giochi di equilibro tra partiti e correnti, ma di come affrontare e cercare di risolvere temi veri, dallo sviluppo equilibrato alla sicurezza, dai rapporti con l’Europa al peso sulla vita nazionale, dalla qualità della vita all’invecchiamento crescente e alle solitudini (i cittadini con più di 60 anni sono il 28% della popolazione contro il 21% della media nazionale e il 56,7% delle famiglie sono composte da una sola persona), dalle nuove povertà alle domande di futuro giustamente poste dalle nuove generazioni che continuano a guardare a Milano con attenzione e speranza.

Rieccoci dunque tornati a Calvino e alle qualità necessarie d’una città, coniugare sicurezza e ricerca di felicità, crescita e sostenibilità, esigenze individuali e valori generali, pragmatismo e sguardo lungo sul futuro. Milano, nel passato anche recente, grazie al buon lavoro dei suoi sindaci, un impasto virtuoso di riformismo, sapienza politica e capacità amministrative, c’è riuscita. Vale la pena ripensarne e ripeterne la lezione.

(foto Getty Images)

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